Recensione 127 ore regia di Danny Boyle USA, Gran Bretagna 2010
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Recensione 127 ore (2010)

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locandina del film 127 ORE

Immagine tratta dal film 127 ORE

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Immagine tratta dal film 127 ORE

Immagine tratta dal film 127 ORE
 

"La vita è quello che ti succede quando stai facendo altri progetti."
(J. Lennon)

Aron Ralston è un giovane e brillante ingegnere amante delle escursioni in solitaria, alla continua ricerca di nuove e stimolanti sfide. Durante un trekking nel Canyonlands National Park dello Utah, precipita in fondo ad un crepaccio, dove rimane bloccato cinque giorni con mano e parte dell'avambraccio schiacciati da un masso smosso accidentalmente durante la caduta. Quando sembra ormai sopraggiungere la fine, Aron, ormai stremato e disidratato, trova la forza interiore di prendere l'unica soluzione, sebbene estrema, che lo restituisca alla vita.

Tratto dal libro "Between a Rock and a Hard Place", con il quale lo stesso protagonista ha voluto raccontare la sua drammatica vicenda, "127 hours" segna il ritorno dietro la cinepresa dell'inglese Danny Boyle dopo il trionfo della favola "Slumdog Millionaire". Ben lungi dall'essere una favola è invece questa pellicola, caratterizzata da toni soffocanti e claustrofobici, con un James Franco elemento trainante, capace di reggere su di sé tutto il peso della pellicola, alternando momenti drammatici ad altri allucinati, riuscendo a tirar fuori una prestazione che calamita lo spettatore, scavando dentro di lui una voragine di solitudine e sconforto.

Stilisticamente il film ricorda molto un videoclip, per via di un dinamismo quasi esasperato, coadiuvato da split-screen e multi-screen che corrono a perdifiato alternandosi sulle musiche del compositore A.R. Rahman, già apprezzato per la colonna sonora di "Slumdog Millionaire" e che qui torna ad incantare con i suoi ritmi orientali. I primi quindici minuti scorrono via veloci, inframezzati dall'incontro con due giovani escursioniste, interpretate da Kate Mara e Amber Tamblyn, ultimo contatto con la civiltà prima dell'evento che segna il vero inizio della pellicola, tanto che il titolo di apertura arriva solo nel momento in cui Aron finisce bloccato tra due pareti di roccia con il braccio destro intrappolato da un masso di 350 chili. Da questo momento in poi l'unica compagnia per lui sarà una videocamera, attraverso la quale documenta la sua tragedia.
Indubbiamente raccontare attraverso il linguaggio cinematografico una storia del genere non è certo impresa da poco, per via della sua staticità, ma il risultato non cade nel rischio di annoiare. Ecco dunque che Boyle si concentra tutto sul protagonista, sulle sue decisioni, sulle sue emozioni e sui ricordi di una vita che vede lentamente avviarsi verso un tragico e inesorabile finale, ricordi cui si accompagnano i rimpianti per quella stessa vita che in fondo ha sempre respinto, privilegiando se stesso piuttosto che gli altri, quegli altri che ignorano la disperata situazione in cui si è venuto a trovare e che ora nulla possono per aiutarlo.

Sulla stessa linea di "Slumdog Millionaire", Danny Boyle torna a soffermarsi sul peso che il destino esercita sulle nostre vite, sull' impossibilità di opporsi ad un progetto più grande e misterioso e che spesso ci mette alla prova in modi imperscrutabili. Insomma, Boyle vede la storia dell'alpinista americano come una sorta di punizione divina che implacabile si scaglia sul protagonista, resosi colpevole di egoismo e arroganza. La natura stessa lo blocca, costringendolo a fermarsi e a rivedere le proprie priorità, cosicché Aron si trova a dover fare i conti con la sua vita, con le decisioni prese in passato e con le conseguenze che queste hanno avuto sulla sua esistenza.
Da qualunque prospettiva la si guardi è a tutti gli effetti una storia di redenzione.

Come già detto, "127 Hours" ha rappresentato per il regista di Manchester un importante sfida, considerata la difficoltà di rendere interessante una storia che per 3/4 verte su di un uomo costretto sul fondo di un crepaccio. Ebbene, Boyle stupisce nell'affrontare una storia così drammatica in maniera poco convenzionale perché, a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, il regista di "Trainspotting" opta per una narrazione tempestata di momenti musicali che rimandano la mente a colorati spot pubblicitari, il che coinvolge lo spettatore senza mai annoiarlo, ma al tempo stesso fa anche si che la stessa visione risulti molto meno sofferta di quanto ci si attenda da una vicenda del genere. Tanto per fare un esempio, il recente "Buried", con Ryan Reynolds intrappolato in una cassa di legno tre metri sotto terra, aveva tutti quegli elementi che contribuivano a conferire quell'aspetto veritiero indispensabile per un maggior coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Se si aggiunge poi il fatto che la pellicola di Cortes era un avvenimento immaginario, mentre quella di Boyle affonda le radici in un fatto reale, si sfiora il paradossale. Insomma, si tratta di un espediente che, con i suoi lati positivi e negativi, può facilmente rivelarsi un'arma a doppio taglio, per una scelta sicuramente molto coraggiosa e azzardata. La stessa scena dello sketch televisivo, sebbene sia una delle cose migliori di tutta la pellicola, stona con il contesto generale di ansia e sconforto, ma resta comunque coerente con la linea tracciata dal regista di "The Beach" per rendere più fruibile e scorrevole la visione.

Di grande impatto emotivo è senza ombra di dubbio la scena dell'amputazione, merito di un James Franco efficace che si rivela estremamente duttile, capace di passare da ruoli "mainstream" l'Harry Osborn della trilogia di "Spiderman", ad altri invece più impegnati come in "Milk" o addirittura totalmente demenziali  come nell'allucinato "Pineapple Express". Un attore assolutamente completo che merita in toto tutte le lodi ricevute per un ruolo complesso. Decisamente splendida la sequenza in cui improvvisa un surreale show televisivo, con tanto di risate registrate di sottofondo: cinque minuti di sublime recitazione in cui viene racchiusa tutta la personalità di Aron con l'ironia, l'intelligenza e il cuore che vengono come eruttati fuori, cinque minuti di sicura presa che sono un po' una specie di congedo dagli affetti più cari.
Fermo restando l'encomiabile lavoro fatto da James Franco sul personaggio, resta però qualche dubbio sulla flebile delineazione del rapporto del protagonista con la famiglia: gli affetti non vengono infatti indagati a sufficienza, motivo per cui non scatta quella giusta empatia con lo spettatore tale da fargli sentire proprie le colpe e il rimorso provate dal protagonista per il suo egoismo e le sue scelte. Sotto questo punto di vista il finale compensa in parte tale lacuna, grazie anche ad una colonna sonora da brividi che emoziona e ossessiona allo stesso tempo e ci ricorda, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la bravura ed il talento del compositore indiano A.R. Rahman, cui si aggiunge l'eleganza di Dido per la traccia finale "If I Rise" (nominata all'Oscar). Menzione speciale per due tracce in particolare: la prima, terribilmente efficace, è "Liberation", le cui note scandiscono la sequenza dell'amputazione, mentre l'altra è "Festival" del gruppo islandese dei Sigur Ros, in quanto accompagna il momento forse più importante e cruciale della pellicola, cioè quando il protagonista chiede aiuto. La redenzione è completa, Aron ha capito che nessuno ce la può fare da solo e che tutti ad un certo punto abbiamo bisogno degli altri.

In sostanza Boyle sforna un buon prodotto, di sicuro non un capolavoro, ma comunque apprezzabile per l'originalità e il coraggio con il quale ha scelto di narrare la sfortunata vicenda di Aron Ralston, che ci ricorda quanto importante sia la condivisione  e l'affetto altrui, dimostrando quanto in fondo davvero non c'è forza al mondo più potente della volontà e della voglia di vivere.

"Il momento in cui si ama più la vita è quando la si sta per perdere."

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Recensione a cura di Luke07 - aggiornata al 15/02/2011 16.28.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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