Voto Visitatori: | 7,60 / 10 (41 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
La premiata ditta Tilde Corsi - Gianni Romoli - Claudio Bonivento produce un film coraggioso, impegnato, civile e introspettivo allo stesso tempo (Premio Sezione Controcampo a Venezia Cinema 2010 assegnato all'unanimità) facendoci scoprire il talento narrativo di Aureliano Amadei (Premio Menzione Speciale Sezione Controcampo a Venezia Cinema 2010 nonché Premio Francesco Pasinetti), la (splendida) fotografia di Vittorio Omodei Zorini, le musiche sempre efficaci e pregnanti di Louis Siciliano (Premio Cinecittà Award come miglior compositore dell'anno a Venezia Cinema 2010) e un cast di attori davvero notevole su cui spiccano Carolina Crescentini, Giorgio Colangeli e, soprattutto, Vinicio Marchioni (anch'esso Menzione Speciale Sezione Controcampo Venezia Cinema 2010) che interpreta lo stesso regista.
Con "20 Sigarette" risorge la tradizione del cinema civile italiano e nasce una sorta di "nuovo neorealismo" più attento a tutte le sfumature offerte dalla fusione dei tanti linguaggi filmici oggi possibili e delle loro metastrutture narrative nel quale la "macchina da presa" (di qualunque tipo essa sia) è promossa definitivamente a soggetto/personaggio principale a parte intera.
Il film, poi, arriva da un romanzo scritto a quattro mani dal regista e dallo sceneggiatore Francesco Trento passando poi per un allestimento teatrale: ce n'è abbastanza per renderlo un oggetto meritevole di curiosità anche solo dal punto di vista meramente formale.
Last but not least, di notevole interesse è pure la trama che narra l'esperienza vissuta - in rigorosa soggettiva - dell'attentato di Nassirya del 2003 da parte del regista stesso, unico superstite civile della vicenda.
In un Paese medio-occidentale non affetto da un pericolosissimo Alzheimer sociale come il nostro, una pellicola simile avrebbe dovuto suscitare aspri dibattiti, polemiche, emozioni a non finire, avrebbe dovuto riaprire ferite forse mai rimarginate, avrebbe dovuto far riflettere premiando i botteghini. Invece tutto si è concluso con la standing ovation di 10 minuti che ha seguito la proiezione a Venezia Cinema: i meccanismi di rimozione collettiva cui i mass-media ci hanno assuefatto per autodifesa e una distribuzione debole, hanno fatto passare almeno finora praticamente inosservato questo autentico gioiello che gira faticosamente tra le sale d'essai ad uso e consumo di pochi cinefili accaniti.
Che peccato! Ma forse questo fatto dovrebbe suggerirci ulteriori riflessioni.
Eppure non c'è nulla che non funzioni in questo film: con un ritmo narrativo serratissimo (grande montaggio di Alessio Doglione), denuncia senza essere pedante, propone idee senza essere ideologico, evoca sentimenti di ogni genere senza mai scadere nel sentimentalismo, ha una colonna sonora ficcante ed efficace ma che non invade o addirittura sopraffà le immagini, un audio in presa diretta di una pulizia rara nel cinema italiano, interpretazioni superlative, soluzioni di ripresa ardite e innovative. E in più una passione civile e uno sguardo introspettivo davvero rari, soprattutto se combinati insieme.
"La gente vuole sempre la bistecca bell'e pronta, mica vuol vedere come si ammazza la bestia per macellarla!"
Questa frase, fatta pronunciare a uno dei primi militari che il giovane aiuto-regista incontra in Iraq accomunato dalla passione per le sigarette, racchiude per intero la filosofia del film e ci suggerisce cosa vedremo di lì a poco: prima l'allevamento e la macellazione del bovino, quindi il confezionamento e la vendita della relativa bistecca; il tutto senza reticenze, senza veli, senza censure che non siano il limite del ricordo soggettivo di chi quel pezzo di storia l'ha vissuto e l'ha scampato del tutto suo malgrado.
Aureliano, ventottenne autentico homme à la caméra dei nostri giorni, vaga precariamente per strade, Centri Sociali, camere da letto e appartamento di mammà con l'inseparabile telecamera digitale al seguito sognando di fare il regista.
Una telecamera che sembra quasi un cronenberghiano prolungamento biologico del suo corpo. Telecamera che però dimenticherà - quasi a mo' di lapsus freudiano - proprio l'unica volta in cui essa doveva servirgli realmente.
Aureliano viene fatto incontrare col regista Stefano Rolla - distante da lui per idee ed esperienze professionali - nel momento in cui, insieme al suo produttore, cercavano un aiuto regista per un film da girare in Iraq sulla presenza del contingente italiano a Nassirya. L'impresa ottiene il nulla-osta di tutte le autorità interessate: ufficialmente la guerra non c'è più in quella zona d'Iraq, gli italiani sono soltanto in missione di pace e non per combattere un conflitto...
Il primo giorno di sopralluoghi e di casting a Nassirya della coppia Rolla-Amadei, però, si trasforma in improvvisa tragedia a causa di un attentato alla locale caserma dei Carabinieri. Uscito miracolosamente vivo, per l'aiuto-regista inizia un'odissea dapprima medica, quindi, al rientro in Italia, psicologica e morale che culmina con la scoperta di un'impostura nel racconto degli eventi da parte di uno dei militari superstiti, carrierista senza troppi scrupoli.
La dolorosa sistemazione della sua vita sentimentale non mancherà di regalargli la pubblicazione del libro e un figlio, entrambi evocatori di lancinanti ricordi.
Amadei non ci risparmia nulla della sua critica sociale alla guerra e del suo percorso di evoluzione umana: la sua tesi è che siamo tutti carnefici di fronte alla morte dei protagonisti di quello sciagurato conflitto. Ma, pasolinianamente, evita di addossare l'intera colpa ai soldati più o meno mercenari che sono in missione, per riflettere invece sul ruolo di tutti i soggetti coinvolti nella guerra: la morte è ugualmente orribile tanto quando strappa via il militare simpatico conosciuto il giorno prima, quanto quando porta via un anonimo bambino iraqueno caricato d'urgenza sul camion che li trasportava entrambi verso l'ospedale da campo americano.
Non ci sono vittime, per Amadei, solo carnefici che pagano con la morte o con una perenne "sindrome del superstite" il loro esserlo, senza grandi ombre di perdono o redenzione.
Un grosso merito del film (tra i tanti che ha) è proprio quello di riuscire a tratteggiare nel ristretto tempo in cui i fatti narrati sono racchiusi, i caratteri di ogni personaggio, anche il più marginale. E' grazie a questa capacità della regia che possiamo veder sviscerati tutti gli stati d'animo possibili di chi partecipa alla "missione di pace", di chi ci si trova per caso, di chi la subisce, di chi la osserva distortamente a distanza, di chi la commenta senza avere la minima cognizione di causa o di chi, viceversa, ne vive sulla propria pelle - o nei propri affetti - le conseguenze dirette.
Per raccontarci queste cose importanti, Amadei non lesina sulla sua creatività: riprese assolutamente non convenzionali (su tutte la soggettiva dell'attentato e di ciò che lo precede immediatamente: sembra di essere dentro lo schermo, è impossibile sfuggire), montaggi diacronici, rielaborazioni grafiche (meravigliosa la sequenza nella quale Rolla parla al giovane Amadei del deserto come luogo interiore e lo descrive mentalmente), metalinguaggi (i passaggi da ciò che la cinepresa riprende a ciò che la telecamera vede, la narrazione in e fuori campo, l'uso sapiente di distorsioni sonore soprattutto in voce, la conferenza di presentazione del libro con tanto di dibattito).
L'aspetto del metalinguaggio, o dell'interlinguaggio visuale, è estremamente interessante e merita una considerazione a parte perché sta caratterizzando molto cinema contemporaneo (citiamo i casi del finale di "Valzer con Bashir" ma soprattutto film come "Nella Valle di Elah", "Redacted", per arrivare a "Blair Witch Project", "Rec", "Paranormal Activity" o al recentissimo "Buried"): ormai il multimediale extracinematografico viene sempre più inglobato nella trama narrativa dei film divenendone protagonista e non solo comprimario o oggetto eccentrico di divertimento (pensiamo al famoso telefonino verdoniano che cade nella bara o all'espediente di interrompere un flusso narrativo con il classico "cellulare-che-trilla").
In questo senso i frequenti passaggi dal materiale di celluloide a quello digitale sono emblematici e funzionalissimi alla narrazione di "20 Sigarette" che peraltro non perde nulla in linearità narrativa potenziandone anzi gli effetti emotivi in un senso o nell'altro. Le immagini falsificate scattate da telefonini o girate da telecamere digitali subiscono in questi film un vero e proprio processo di ri-autenticazione che dà loro veridicità ed autorevolezza (è la tesi del recente, interessantissimo saggio di Pietro Montani "L'immaginazione multimediale").
Amadei non lesina neanche ironia talvolta tagliente: notevole la sequenza in cui gli americani vengono definiti "poveretti" dai soldati italiani perché viaggiano sempre con la telecamera al seguito! Loro che si stavano mobilitando per un film di finzione (e noi così affamati e assuefatti ad ogni tipo di immagine)!! Per non parlare della smoke zone americana in pieno deserto!
Un solo appunto ad Amadei e agli sceneggiatori: nell'evocare la figura di Stefano Rolla non hanno fatto alcun cenno alla drammatica e vergognosa situazione di cui è stata vittima la compagna Adele Parrillo, cacciata persino dai funerali del regista perché non sposata con lui ma solo convivente.
A lei neanche una scusa ufficiale e men che meno un assegno di sostegno: 20 anni di vita condivisa bruciati come le 20 sigarette del film per uno Stato che sa essere etico solo quando deve tutelare l'ideologia ipocrita di certe sedicenti "sensibilità religiose".
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Recensione a cura di LukeMC67 - aggiornata al 28/10/2010 10.53.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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