Recensione acciaio regia di Stefano Mordini Italia 2012
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Recensione acciaio (2012)

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locandina del film ACCIAIO

Immagine tratta dal film ACCIAIO

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Immagine tratta dal film ACCIAIO
 

"Mi chiedo perché il futuro debba essere sempre altrove, da un'altra parte"

Piombino e il suo cuore pulsante: l'acciaieria Lucchini (ex ILVA), con i suoi macchinari, il rumore, il calore, il fuoco, i fumi e le polveri, l'aria difficile da respirare, gli sbalzi termici e il caldo dei forni che brucia i polmoni. Un luogo ostile, senza vita, solo metallo su metallo, fuoco su fuoco, e gli sguardi delle persone distrutte da quel lavoro. L'acciaieria logora, fagocita la natura e il paesaggio, ma soprattutto le esistenze di coloro che vi lavorano e di quelli che sono loro vicini.

A Piombino, all'ombra della sua incombente struttura siderurgica, vivono in simbiosi l'estate che separa la scuola media dalle superiori Anna e Francesca, due belle ragazze le cui ambizioni post-adolescenziali le spingono a sognare ciò che sta oltre la realtà che stanno vivendo. Sognano un giorno di poter fuggire dalla desolazione della loro città per costruire insieme un futuro diverso; diverso da quello delle loro madri, forse migliore, sicuramente lontano. Magari al di là di quel lembo di mare che le separa da quell'isola, il cui profilo si staglia nettamente all'orizzonte di un mondo così vicino eppure tanto distante, lasciandosi alle spalle i problemi delle loro famiglie e il veleno che esce dalle ciminiere dell'enorme "mostro" che domina la città.

Un paradiso immaginato pieno di turisti facoltosi, eleganti e famosi. Perché la realtà è proprio questa: da una parte ci sono operai che arrancano e giovani senza futuro, dall'altra c'è gente che va in vacanza. "Ma per andare in vacanza servono davvero tutte quelle valige?", si chiedono osservando i villeggianti sul molo del porto, in attesa di salire su uno dei tanti traghetti che collegano Piombino con l'Isola d'Elba.
Perché loro sono figlie e sorelle di operai e crescere in quella periferia popolare è complicato e difficile, l'unico modo per farcela è andare via e non tornare mai più. Lontano da via Stalingrado (una via immaginaria ma mai così reale) e da quei casermoni operai abitati da famiglie disastrate, con padri violenti o dediti al gioco, madri piegate dalla fatica o dai mariti, fratelli iperprotettivi costretti a fare le veci di padri assenti o interessati alle forme ancora acerbe delle adolescenti del caseggiato, da fidanzati più grandi con cui condividere le prime pulsioni erotiche.

Tredici anni, quasi quattordici, belle, vicine di casa, legate da un rapporto forte ed esclusivo che rischia la morbosità, ma che le aiuta ad affrontare insieme la vita, Anna e Francesca vivono le inquietudini adolescenziali, legate all'attrazione reciproca e a quella per l'altro sesso, in un vecchio capanno abbandonato sulla "spiaggia segreta" in cui trascorrono i lunghi pomeriggi dell'estate toscana.
Un condotto arrugginito le separa dall'acciaieria, mentre in lontananza, dall'altro lato del breve tratto di mare, oltre i fumi delle ciminiere, si staglia l'isola dei sogni, che "speriamo un giorno di raggiungere", un giorno, "libere e lontane da questo posto di merda".

A casa Francesca vive in un contesto familiare difficile: ha un padre violento e manesco, più interessato al suo corpo che cambia e che già esplode sotto i vestiti, che al suo ruolo di capofamiglia, e una madre quarantenne, già sfiorita e impotente di fronte alle violenze del marito. Anna invece ha una situazione familiare più tranquilla, anche se suo padre, "per non morire operaio", ha lasciato il lavoro per rincorrere la fortuna ai tavoli da gioco, lontano dalla famiglia.
A sostituirlo ci pensa Alessio, fratello iperprotettivo senza essere soffocante e tuta blu nel complesso siderurgico, ancorato ai vecchi principi del valore, della dignità e dell'etica del lavoro in fabbrica, che, al contrario del padre cialtrone, crede ancora nel valore del lavoro, che gli spezza la schiena, ma che gli consente di portare a casa un salario "pulito" che gli permette di mantenere la madre e la sorella, con quel senso di responsabilità verso chi si ama.
Ingabbiato nel suo ruolo paterno senza essere padre, Alessio potrebbe avere tutte le ragazze del paese, ma si perde dietro l'unica che non può avere, Elena, la ragazza borghese, il grande amore della sua vita, il suo eterno desiderio, che un giorno ha provato a fuggire inutilmente da Piombino per andare lontano, e che un giorno, improvvisamente, è ritornata, chiamata dall'azienda per ricoprire un ruolo dirigenziale all'interno dell'acciaieria, diventando così una sua superiore. Il che, forse, è anche peggio.
Poi, all'improvviso, nella vita di Anna arriva l'amore, ma arriva in modo sbagliato, quando conosce Mattia, amico del fratello, un ragazzo che ha diversi anni più di lei, con cui sperimenta i primi impulsi sessuali, illudendosi di essere già grande. E allora tutto si spezza e anche l'amicizia con Francesca si incrina e comincia a far male, finendo col separare i loro percorsi.
Sopra ognuno di loro, metafora del ciclo della vita, la violenza del ciclo continuo dell'acciaio, che qualsiasi cosa accada, non può mai fermarsi.

Presentato nelle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia 2012, "Acciaio" è la seconda regia di Stefano Mordini ed è tratto dal romanzo omonimo di Silvia Avallone (premio Campiello 2010 come miglior opera prima). Nella storia, ambientata a Piombino dove l'acciaieria domina il territorio e il tessuto sociale, s'intrecciano due temi molto forti: gli smarrimenti adolescenziali e le problematiche legate al mondo del lavoro operaio.
Due realtà molto difficili, quasi inesplicabili.
Di qua l'acciaieria che lavora ventiquattro ore al giorno e non si ferma mai, di là Anna e Francesca, piccole ma già grandi, un'amicizia potente ed esclusiva quanto l'amore. L'acciaieria, una fabbrica che lavora a ritmo incessante, e un lavoro logorante in cui ogni piccola distrazione può costare una vita.
Lavorare in questo contesto, fatto di turni, ritmi, percorsi, in mezzo al calore, alla polvere, ai vapori difficili da respirare, comporta un logorio fisico e mentale che rende la vita dell'operaio sempre più stressante e a rischio e si ripercuote sulla collettività con costi sociali altissimi, spesso insostenibili. Eppure è un orgoglio per la città: l'ha fatta crescere, l'ha arricchita, l'ha vista accogliere gente di altre città e di altri paesi. Un orgoglio che però si è concesso qualcosa di troppo nelle vite e sulla pelle delle persone, di chi in quella città vive e di quel lavoro si nutre.

Anche se le due realtà sono molto diverse, tutto ciò riporta inevitabilmente alla mente un altro acciaio, quello dell'ILVA di Taranto, la fabbrica che con le sue emissioni di diossina e polveri, abusa del territorio e mette a rischio la vita dei lavoratori e di un'intera città.
Il film però non racconta solo di ciminiere e lavoro, ma è anche un racconto di marginalità e di formazione adolescenziale, quell'età di passaggio in cui si prova ad essere libere illudendosi di essere donne. Quell'età in cui si conserva ancora la speranza di ribellarsi al sistema, magari partendo proprio dalla solidarietà reciproca. Quell'età in cui si avverte forte l'urgenza di crescere, pur non sapendo bene come farlo.

Tre sono i luoghi che Mordini racconta visivamente con estrema cura, coadiuvato in ciò dalle splendide immagini del compianto Marco Onorato.
Innanzi tutto c'è lo stabilimento siderurgico, un tempo simbolo di progresso e orgoglio di antica potenza e oggi ridotto a carcassa fatiscente; un mostro industriale le cui ciminiere deturpano il bellissimo paesaggio della costa toscana, ma che conserva ancora tutto intero il fascino del magma incandescente delle sue colate, pur avendo perso il suo alone di sacralità.
Poi c'è l'ambiente esterno, volutamente cupo, polveroso, assolato, lunghe distese di sabbia e sterpaglie rischiarate da un sole accecante ma mai vivido.
Infine ci sono i grigi casermoni proletari di via Stalingrado, in cui si consumano le vite di mamme che portano i segni di un lavoro sfiancante, di padri che il fuoco degli altiforni ha liquefatto, di operai lasciati troppo soli e di adolescenti disorientati, tra la voglia di scoprire il mondo e l'impossibilità di farlo.

Pur tra qualche discrepanza narrativa, il film di Mordini ha il grande merito di riportare in primo piano la classe operaia e i suoi problemi da lungo tempo ormai entrambi usciti dagli interessi dei media e dalle decisioni politiche, miopi e distruttrici.
"Acciaio" è interpretato dalle giovanissime Matilde Giannini (Anna) e da Anna Bellezza (Francesca), due ragazze di Piombino scelte tra 900 aspiranti, ambedue molto brave pur nella loro immaturità di debuttanti.
Michele Riondino, invece, offre una interpretazione efficace ed emotivamente coinvolgente del personaggio di Alessio (forse perché conosce bene le dinamiche del lavoro in acciaieria, provenendo da Taranto ed essendo figlio e nipote di operai dell'ILVA), dimostrando di essere uno dei migliori giovani attori italiani e di aver raggiunto la maturità artistica necessaria per costruirsi una carriera attoriale di grande prestigio.
Elena è interpretata efficacemente da Vittoria Puccini, mentre Mattia ha il volto di Francesco Turbanti, giovane attore grossetano che aveva già dato ottima prova di sé nel film "I primi della lista" di Roan Johnson.

In definitiva Stefano Mordini, che si era già espresso molto bene con "Provincia meccanica", si dimostra cineasta capace di raccontare i turbamenti adolescenziali e, allo stesso tempo, la situazione sociale contemporanea, non speculando sulle difficoltà operaie, ma privilegiando l'orgoglio delle classi lavoratrici e la voglia di difendere il loro posto di lavoro.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 20/11/2012 15.40.00

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