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Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Sicilia, anni '60. Paolo Lurana, professore di sinistra, si ritrova ad indagare sull'omicidio del suo amico, il dottor Roscio ucciso insieme al farmacista Manno. Delitto d'onore o assassinio mafioso?
È forse uno dei primi esempi di cinema sociale e civile questo "A ciascuno il suo", tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia che a sua volta si è rifatto per il titolo, ma anche per la storia che ha narrato, ad una frase del diritto romano che cita: "la giustizia è l'arte di dare a ciascuno il suo". In questo film sembra non esserci alcuna giustizia, soprattutto se pensiamo che è ambientato nella Sicilia degli anni '60, quella dello pseudo-boom economico (che costruì una nuova Italia sulle macerie di quella vecchia), della speculazione edilizia, della politica corrotta. Ed era lo stesso Petri a dirlo, non solo con i suoi film, ma anche nelle sue interviste, denunciando una società in cui tutti sapevano e vedevano, ma in cui nessuno parlava o faceva qualcosa per portare a galla determinate realtà. Erano anche, e purtroppo ancora sono, gli anni della mafia, che qui non viene mai nominata, ma che serpeggia viscidamente in ogni singolo fotogramma, in ogni dialogo tra le varie pedine che si muovono su questo giallo di periferia che assume connotati ben più profondi e si fa portatore di un carico molto pesante: la denuncia sociale appunto.
Personaggio emblema della pellicola è quello interpretato da un magistrale e straordinario Gian Maria Volontè (che qui ha cominciato la sua proficua collaborazione con Petri, che lo ha diretto in altri film dalla forte valenza etica e sociale), un professore liceale che vive nel suo mondo di "favole" e che sa poco e niente della sua città e dei suoi meccanismi sotterranei ma non troppo. È la tipica figura dell'intellettuale di sinistra represso, poco brillante, tutto dedito alle letture alte e al partito piuttosto che ai divertimenti, soprattutto quelli sessuali. Una sorta di "represso" che all'improvviso, in seguito ad una miccia che viene accesa, comincia a sentire questi impulsi e a farsi guidare, quasi ciecamente, da essi.
Ma Paolo Laurana non è solo questo; è anche l'uomo che, inconsapevolmente o meno, sfida la mafia, decide di non stare con le mani in mano a far sì che un altro delitto rimanga impunito o venga amputato alle persone sbagliate per fare in modo che i più potenti possano scamparsela come sempre. È l'uomo che si rende conto, e fa in modo che anche per lo spettatore sia così, di quanto sia marcia la società nella quale è costretto a vivere, di quanto siano ormai oleati i meccanismi che mandano avanti la stessa a suon di sotterfugi e illegalità che sono conosciuti da tutti, che si perpetuano alla luce del sole, con la sicurezza della connivenza e della complicità di tutta la comunità. Un uomo che per questo si ritrova solo, perché non è capito da nessuno, visto come una sorta di "sovversivo" che vuole rovesciare le logiche, seppur sbagliate ma funzionanti, del proprio mondo. E ritrovandosi solo non gli resta che rendersi conto, da comunista quale è, che "i bigotti hanno la confessione, gli americani la psicanalisi, ma noi... noi niente". Queste le parole che rivolge ad un'onorevole suo amico di partito (uno sfuggevole ma sempre convincente Leopoldo Trieste che pronuncerà la battuta forse più importante nella descrizione della società di allora: "Ma lo sai? Quando vengo qua mi sembra di essere nel Texas, non so a Dallas!") che gli dà la dritta giusta da seguire per il suo caso, ma poi si tira indietro quando c'è da fare nomi precisi e da immischiarsi in prima persona. Altro personaggio emblematico e molto significativo è il padre della vittima, ormai del tutto cieco, che cerca di ammonire l'amico Laurana per evitare che faccia la stessa fine di suo figlio: "Certe cose, certi fatti, è meglio lasciarli nell'oscurità in cui si trovano", "C'è, nella fine di mio figlio, qualche cosa che fa pensare ai vivi che mi fanno pena. E bisogna aiutarli, i vivi"
"Ma che cosa te ne importa?", dicono la mamma e la nonna di Laurana, indignate e anche preoccupate per il suo coinvolgimento nel caso. "Era un cretino", dicono i notabili alla fine del film quando si riuniscono in un angolo ben nascosto a raccontarsi tutte le notizie e le conoscenze del caso, in un finale quanto mai ironico e beffardo nei confronti dello sforzo e della lotta per cercare di cambiare "l'ordine malato" delle cose. Questo si è sempre pensato di Don Chisciotte che lottava contro i mulini al vento e lo stesso si pensa di Laurana quando ha deciso di continuare per la sua strada anche dopo aver scoperto la natura e la motivazione dell'omicidio sul quale stava indagando, oltre che ovviamente il nome del mandante e dell'esecutore materiale.
Un uomo, Laurana, che si farà abbindolare dai sentimenti, lui sempre così privo di essi perché appunto rintanato nel suo mondo fatto di studio e politica, e che alla fine, a causa di essi, non riesce a far venire a galla la storia di mafia e di tradimenti che sta dietro l'assassinio del farmacista e del dottore. Uno ucciso perché aveva scoperto magagne che avrebbe fatto meglio a non scoprire e l'altro perché semplice testimone del primo omicidio.
"A ciascuno il suo" è un film fatto di parole, ognuna delle quali assume un significato molto profondo e illuminante sulle logiche di un mondo ormai contaminato e interamente assuefatto alla mafia. "A ciascuno il suo" è un giallo in cui c'è un delitto e un misterioso colpevole da trovare seguendo gli indizi che un investigatore, provetto o meno, raccoglie nel corso della sua indagine. Ma "A ciascuno il suo" è anche e soprattutto un'ottima pellicola contrassegnata da una bellissima ed eterogenea colonna sonora (note melodrammatiche e intense si mischiano con altre frenetiche e molto ritmate), da una regia particolarissima e azzardata per l'epoca (che si fonda su moltissime carrellate, zoom e primissimi piani) e soprattutto da un livello recitativo molto elevato (non solo il grande Volontè, ma anche tutti i comprimari sono più che convincenti). "A ciascuno il suo" riesce ad essere entrambe le cose, senza confondersi e confondere lo spettatore, in maniera encomiabile.
E le parole di un altro "notabile" con le mani in pasta riecheggiano nella mente dello spettatore più attento e più sensibile, anche tempo dopo la visione della pellicola: "Il tempo dei poeti con la testa fra le nuvole è finito" "E' vero è proprio finito".
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Recensione a cura di A. Cavisi - aggiornata al 11/05/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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