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Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
"Another year" di Mike Leigh è un dramma-commedia che tratta di accoglienza ed emarginazione: dell'ipocrisia a volte impercettibile con cui teniamo a distanza chi apparentemente accogliamo.
Al centro del film vi è la coppia ideale, composta dai coniugi maturi Tom e Gerri (proprio così: come il gatto e il topo dei cartoons). Lui geologo, lei psicologa, coltivano un orto, vivono nei sobborghi di Londra e sono sereni.
Di mente aperta, sono il ritratto perfetto di due progressisti ormai alle soglie della terza età, che ricordano quando, da ragazzi (quarant'anni fa), si trovavano al festival dell'isola di Wight. Hanno un figlio, Joe, che fa l'avvocato e che si fidanza con Kathy. Gerri adora la sbarazzina Kathy, che entra subito a far parte della famiglia.
Una coppia che si vuole bene è sostanzialmente escludente e può celare (ai proprio stessi occhi) una tolleranza indulgente - e, spesso, un egoismo vagamente settario - sotto una disponibilità apparentemente benevola e sincera.
Mentre un anno trascorre (il film è scandito in quattro episodi, ciascuno per ogni stagione), il film ci racconta quanto sia ardua, per chi se la passa bene, la solidarietà.
Spesso Tom e Gerri si mostrano tolleranti. La tolleranza è un atteggiamento sottilmente ipocrita, quanto di più lontano dalla vera solidarietà, dal vero affetto.
In superficie essi paiono quasi due solerti e accoglienti samaritani verso i loro amici solitari e scontenti della propria vita. Ma non son poi così ospitali: le ellissi temporali del film celano il fatto che, in un anno, li invitano in realtà pochissime volte a casa loro.
Tom non disdegna il ricorso all'ironia. Per rincuorare gli amici ha sempre la battuta pronta: con discrezione vorrebbe sdrammatizzare la sofferenza degli altri. Proprio come la comicità di Tom e Jerry, i due coniugi si propongono di alleggerire il peso della solitudine dei loro amici facendo ricorso a un umorismo che vorrebbe esser terapeutico. Loro ne escono più belli; gli amici sorridono amaro, o non sorridono affatto.
Il dramma - il vero dramma - è che gli amici sono persino portati a vergognarsi della loro infelicità. Si sentono inferiori, si sentono in difetto. Non viene offerta loro nient'altro che una paternalistica pacca sulla spalla e si sentono anche in debito per questo.
"Another year" è quasi un film di vampiri.
Li immaginate Tom e Jerry vampiri?
Gerri e Tom si alimentano dell'infelicità altrui e ogni volta la loro dimora appare più linda, la loro felicità invidiabile (e inarrivabile). Felicità e infelicità si polarizzano: chi è infelice si sentirà ancora più infelice, nell'impossibilità di attingere a quella dimensione idealistica in cui si è rinchiusa la coppia perfetta. L'infelicità degli altri invece rafforza la bella immagine che hanno di sé Tom e Gerri. Ne hanno bisogno, per rimanere felici.
Ecco perché sono vampiri.
"Another year" lancia uno sguardo disincantato su quel che resta della fraternità.
Nell'ultimo episodio del film l'inverno (splendido come la fotografia viri in esso quasi al bianco e nero, e si mantenga desaturata, livida), un fratello che non si vedeva da anni subisce un lutto. Ci si ritrova in famiglia, i giovani nemmeno si riconoscono: erano bambini l'ultima volta che si erano incrociati. Alla desolante cerimonia funebre partecipano sì e no dieci persone. La metropoli è fucina di solitudini.
...E Mary?
Se i protagonisti del film son Tom e Gerri (due grandi attori d'oltremanica: Jim Broadbent e Ruth Sheen), c'è una deuteragonista: Mary. E' la sola, a parte Gerri e Tom e loro figlio Joe, a comparire in tutti e quattro gli episodi. Gli altri personaggi compaiono solo in uno o due episodi; Mary invece li percorre tutti.
Mary è una single di mezza età, segretaria presso lo stesso ufficio dove lavora Gerri. L'attrice Lesley Manville che la interpreta è straordinaria nel restituirci un ritratto appassionante e struggente di questa donna rosa dalla solitudine, che cerca disperatamente un compagno e nell'attesa di un incontro sempre più chimerico si fa male con l'alcool - mentre il tempo impietosamente scorre, e segna il suo corpo.
Mary, con candida ingenuità, commette l'impudenza di mettere gli occhi su Joe (nella parte del figlio di Tom e Gerri, un bravissimo Oliver Maltman, un attore che sembra il fratello più in carne di Michael Sheen, per quanto gli somiglia). E quando Joe si fidanza e presenta la ragazza a mamma e papà, Mary commette l'errore di bistrattarla. A questo punto l' "amica" Gerri sarà spietata. Mary, pur non venendo messa alla porta (non conviene, secondo buona educazione), non verrà mai più invitata. Si ripresenterà lei, dopo tanti mesi, a invocare compagnia. Allora Gerri, con assoluta convinzione di essere nel giusto, avrà il coraggio di dirle: "non ero arrabbiata con te. Mi hai solo profondamente deluso". Quindi la guarda, un po' si commuove e l'abbraccia. Mary non chiede altro.
Poco dopo arrivano gli altri per cena e la macchina da presa di Leigh, mentre chiacchierano in piedi in salotto, ne taglia via i volti e si sofferma su Mary, seduta in poltrona in silenzio. Esclusa.
Poi un piano sequenza, lento e avvolgente intorno alla tavola, va a posarsi sul primo piano di Mary. Gli altri stanno chiacchierando amenamente di vacanze e menzionano le più disparate località dove sono stati ai quattro angoli del globo. La interpellano, persino, lei che per problemi economici non è riuscita nemmeno a farsi il viaggetto che sognava: "tu ci sei stata alle isole greche?".
Chi è felice è un po' insensibile.
Lo sguardo di Mary è fisso e attonito. La sua sofferenza immutata. Una lenta dissolvenza sonora sottolinea la sua alienazione e spegne la frivolezza insopportabile di quei discorsi.
Nero. Titoli di coda.
Così si chiude il film: e ci scusiamo se lo si è raccontato, ma nulla si è svelato del finale, né dell'intreccio dell'ultimo episodio. Ci sono parse assai significative queste ultime inquadrature: su quelle ci siamo soffermati, perché Leigh chiude il film sul personaggio di Mary. Lei, la deuteragonista, è la chiave di lettura della pellicola.
"Another year" è un film dalla struttura drammaturgica inusuale (è uno dei suoi punti di forza), che si chiude sul primo piano insistito della deuteragonista, ma si apre in modo ancor più eccentrico sul prolungato primo piano di un personaggio che vedremo solo nelle primissime scene.
Si tratta di una paziente dell'ospedale dove lavora Gerri: una donna anziana che probabilmente non solo noi, ma nemmeno Gerri vedrà più. L'importanza che riveste questa figura è sottolineata dal fatto che Leigh ha voluto che ad interpretarla fosse la grande Imelda Staunton, indimenticabile protagonista de "Il segreto di Vera Drake" (Leone d'oro 2004). Si tratta di una donna che soffre d'insonnia, il cui sguardo perso nel vuoto rivela un abisso di infelicità e depressione.
In Gerri di fronte a lei non c'è commozione. Tant'è che quando questa tornerà a casa, racconterà al marito che non è stata una giornata facile, alludendo a un altro paziente che chiaramente non è la donna interpretata da Imelda Staunton. Quest'ultima, Gerri l'ha già dimenticata.
Leigh lancia così, in apertura di film, un indizio enorme che è anche uno specchio nel quale ciascuno spettatore può scrutarsi, per chiedersi quanta sofferenza lasciamo scorrere al nostro fianco senza lasciarcene intaccare.
Dove sta la solidarietà?
Per tutto il film seguiamo gli affettuosi rapporti tra Joe, il figlio avvocato, e i suoi genitori che tra di loro si compiacciono spesso di lui. E Leigh ce lo rende persino simpatico, con i suoi modi amabili e la sua intelligenza riservata ma frizzante. Ingannatore Leigh! Ci fa scordare che nella prima scena in cui ci mostra Joe (è anche l'unica scena in cui lo vediamo sul posto di lavoro, fuori dall'abbraccio protettivo della famiglia) egli è impacciato, umanamente inetto, disastrosamente insensibile di fronte a due persone asiatiche di cui sbaglia anche i nomi. Con pochi tocchi Leigh ci dimostra quanto di quei due poveretti a Joe non importi assolutamente.
Nei film di Mike Leigh si aprono squarci improvvisi su realtà parallele, che ci scorrono accanto e pacificamente chiudiamo oltre la nostra soglia (vedi il personaggio di Imelda Staunton, all'inizio).
Allo stesso modo nel suo cinema troviamo incastonati momenti o episodi apparentemente secondari che aggiungono tasselli importantissimi sulla natura di una persona.
C'è, per esempio, una frase che pronuncia Gerri, che svela in un attimo l'orgoglio e la presunzione che sono in lei. E' quando, nel corso di una conversazione, Mary parla delle persone di cui "loro due" si prendono cura: Gerri d'istinto, quasi punta sul vivo (e senza accorgersi di ferire l'amica: davvero ironica la scelta di farne una psicologa) rimarca il proprio status sociale superiore: "No, Mary: di cui io mi prendo cura. Non noi. Io".
Questa battuta ne ricorda molto un'altra, di un altro film di Mike Leigh, "Segreti e bugie" (Palma d'oro a Cannes 1996): il fotografo, protagonista di quel film, sottolineava con virulenza, parlando con il precedente proprietario del suo studio fotografico ora in disgrazia, come sia "suo" adesso lo studio (l'altro aveva detto "mio" come si dice "mio" di una cosa che non si ha più, senza pretese di possesso, ma unicamente perché si prova ancora affetto per essa).
Il disincantato umanesimo di Leigh
Con lo spettatore Mike Leigh sceglie di giocarsi le sue carte in modo sofisticato, quasi impercettibile: i suoi argomenti appaiono mimetizzati nel corpo dell'opera, al punto da esser quasi irriconoscibili se non si intercettano i dettagli rivelatori.
Il regista britannico ha cura di non svelarci brutalmente quei vizi che potrebbero anche essere i nostri. E' convinto della maggior forza che in effetti possiede un'opera, quando in essa siamo noi a scoprire da soli quei dettagli che, usciti dalla mimesi, fanno spiccare i contorni delle figure come non potrebbero mai risaltare, se fossero posti in piena luce.
E' tema che percorre l'intera opera di Leigh (si pensi ancora a "Segreti e bugie") la sottile (e inconsapevole) ipocrisia con cui chi "sta bene", pur usando sincera premura verso chi è "meno fortunato", sostanzialmente non fa nulla di concreto per migliorare la sua condizione e riesce solo ad amplificare il disagio, la soggezione dell'altro.
Mike Leigh appartiene a quella schiera di registi che sono prima di tutto superbi drammaturghi.
Uno di essi era Eric Rohmer. Il modo di fare cinema di Leigh, pur così distante, assomiglia - in questo "Another year" - a quello del compianto maestro francese nel non lesinare, mediante una sotterranea vena ironica, una ferocia quasi spietata, di cui ammanta una pellicola apparentemente amena (e che per questo rischia di esser vista come l'esatto contrario di ciò che è).
Il tocco personale di Leigh resta l'umanesimo. Egli dosa la ferocia e la nasconde entro una grande sensibilità per la dimensione umana di tutti i personaggi.
Non c'è la più lontana ombra di manicheismo. E' bene precisarlo, perché chi ha avuto la pazienza di seguirci sinora potrebbe pensare altrimenti che Leigh condanni alcuni e parteggi per altri scopertamente. Non è così: tutti sono/siamo uguali nel suo cinema. Male e bene non si distinguono affatto come la fortuna e la sventura esteriori.
E' proprio questa la qualità che più dimostra la grandezza dell'Autore: la capacità di delineare nettamente i principi della sua visione umana e sociale, senza trasformare neppure per un istante i suoi personaggi in marionette che dimostrano una tesi.
In questo Mike Leigh tanto ricorda, specie in questo film così minimalista, il grande scrittore americano di short stories Raymond Carver. E in fondo, questo film è un po' il suo "Short Cuts" ("America oggi", Robert Altman, 1993).
I personaggi di Leigh sono vivi, sfaccettati, complessi: egli si affida a un affiatato gruppo di attori che hanno lavorato con lui già in molti film, lasciandoli anche improvvisare sul set e ricavandone il meglio (oltre a Lesley Manville, Jim Broadbent e Ruth Sheen, occorre citare almeno Peter Wight).
La sua è una regia quasi invisibile, totalmente al servizio della recitazione.
E' un eccezionale direttore d'attori: crede in loro e nasconde la cinepresa. Nel suo cinema, poche ma sempre funzionali le scelte "originali" di messinscena (come quelle che abbiamo descritto relativamente a Mary nel finale). Leigh lavora sulla profondità di campo, sui primi piani, in modo classico e con mestiere, consapevole che quanto deve risaltare maggiormente è l'intensità dei caratteri e la veracità dei comportamenti.
A monte c'è l'arte dello sceneggiatore: Leigh, come si accennava, è grande drammaturgo. E questo "Another year" avrebbe potuto anche essere una superba pièce teatrale. E' semplicemente un magnifico film.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/02/2011 10.56.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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