Recensione aparajito - l'invitto regia di Satyajit Ray India 1957
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Recensione aparajito - l'invitto (1957)

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locandina del film APARAJITO - L'INVITTO

Immagine tratta dal film APARAJITO - L'INVITTO

Immagine tratta dal film APARAJITO - L'INVITTO

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"Ecco finalmente il cinema neorealista che gli italiani non hanno saputo fare".

Questo fu il commento di Cesare Zavattini, dopo avere visto nel 1957 al Festival del Cinema di Venezia "Aparajito", la seconda fatica cinematografica del regista indiano Satyajit Ray.
"Pather Panchali" ci aveva messo del tempo, ma alla fine era diventato un film molto apprezzato dagli amanti del cinema d'arte di tutto il mondo. Ray poté così tranquillamente, senza assilli finanziari, girarne il proseguimento. In pratica seguì le orme della controparte letteraria, essa stessa molto apprezzata e che ebbe un seguito intitolato proprio "Aparajito" (L'invitto).

"Aparajito" (sia il libro che il film) abbandonano la dimensione lirica e corale di "Pather Panchali" e si concentrano sulla formazione sociale ed etica di un giovane delle classi inferiori. In primo piano vengono messi i sogni, le aspirazioni, i sacrifici, i conflitti interiori di chi vede per la prima volta un futuro davanti, una prospettiva, la possibilità di riscatto dall'ignoranza, dall'isolamento e dalla povertà. Il tutto rappresentato in maniera molto umana e sincera, evitando qualsiasi pretesa di insegnamento o esempio.
Questa miscela di emancipazione sociale, tensione etica, profonda e toccante umanità, era la formula artistica sognata dai teorici del neorealismo italiano. Da qui l'entusiasmo di Zavattini e di tutta la giuria di Venezia, che assegnò così il Leone d'Oro proprio ad "Aparajito".

Il film inizia proprio dove era terminato "Pather Panchali". Nella prima parte ci immergiamo insieme a Apu bambino e ai suoi genitori, nella vita di quella città molto particolare che è Benares. Anche qui gioie e fatiche e l'ennesimo scherzo del destino (la morte del padre), che porterà Apu e la madre a trasferirsi di nuovo in campagna, ospiti di un parente. Come vuole la tradizione, Apu è destinato a diventare sacerdote come il padre. Lui invece preferisce andare a scuola (il pomeriggio, dopo il lavoro al tempio) e diventa uno degli alunni più entusiasti e bravi della regione.
Con un salto temporale di alcuni anni troviamo Apu adolescente che si ribella a tutti i legami, gli obblighi e le tradizioni e si trasferisce da solo a Calcutta per proseguire gli studi (con grande sacrificio suo e di sua madre). L'ultima parte del film vede il fiorire di Apu e il lento, mesto declino della madre nella tristezza e nella solitudine.
Il contrasto fra i sogni e le ambizioni future, da una parte, i legami con gli affetti e le tradizioni, dall'altra, nobilita e arricchisce di pathos e bellezza il finale del film.

La prima parte ambientata a Benares si rifà stilisticamente ancora a "Pather Panchali". La mdp riesce perfettamente a riproporci l'essenza della vita delle persone nella maggiore città religiosa dell'India. Bellissime le panoramiche e gli scorci sulle ripide e soleggiate scalinate del Ghat (le rive del Gange piene di persone che si bagnano e pregano). La mdp, inseguendo Apu nei suoi giochi, ci conduce per i vicoli, in mezzo alla folla. Sbircia poi nei cortili delle case-condominio, inquadra i soliti muri scrostati e fatiscenti, indugia sulle soglie delle case, povere ma strapiene di gente dignitosa. Anche qui ai dialoghi di vita quotidiana della famiglia di Apu, si alternano riprese di templi, cerimonie religiose e la variopinta umanità che vive del culto delle acque del Gange.
La cesura del film è data dalla morte del padre, l'unico trapasso nella "Trilogia di Apu" mostrato direttamente. La scena, nonostante il pathos e la drammaticità, è molto misurata ed essenziale. Tutto il dolore e lo strazio vengono espressi in una ripresa simbolica, in cui il suono acuto improvviso di una musica spaventa e fa volare in cielo un nugolo di uccelli; una soluzione espressiva molto efficace e intensa.

La seconda parte è stilisticamente basata sulla soggettiva parallela di Apu e di sua madre Sarbojaya (interpretata magnificamente da Karuna Bannerjee).
Quest'ultimo personaggio emerge adesso in tutta la sua importanza e assume grande rilievo. Simboleggia un po' tante donne madri della prima metà del Novecento, che hanno passato la vita a lavorare, a rinunciare, per mettere da parte con grande fatica un po' di denaro, così da permettere ai propri figli di avere una vita migliore.
Questa è la scelta dura e dolorosa di Sarbojaya, che fa tutto in silenzio, senza farlo pesare; con il risultato di vedere suo figlio allontanarsi sempre di più, ormai preso dalla sua strada. Cosa rimane allora? Solitudine, malinconia, la piccola soddisfazione di vedere fruttare i proprio sforzi, ma il dolore nascosto di non poterne nemmeno godere di riflesso.
Ray indaga il suo disagio interiore con campi medi o primi piani, mettendo la figura della madre in rilievo tramite il gioco di luci e ombre. Si sente un po' il sapore del cinema russo (viene da pensare a "La Madre" di Pudovkin), anche se tutto è trattato in maniera misurata ed essenziale, molto naturale e sincera. E' difficile rimanere ad esempio indifferenti nell'ultima delicata scena in cui la madre appare prima della morte, dove crede di sentire la voce di Apu che la chiama. Accorre così alla porta per avere davanti solo la campagna solitaria assorta nella sera, con i grilli e le lucciole; un ultimo sorriso mesto e la mdp inquadra tutto, sfuocare lentamente nella notte.

In parallelo Apu percorre la sua strada formativa ascendente, che lo porta dalla grande curiosità e creatività, ispirata dai libri di avventure, esplorazioni, scoperte scientifiche (le letture tipiche dei bambini della prima metà del Novecento), al duro studio accompagnato dal lavoro in una grande città come Calcutta.
Il bimbo vispo e curioso ora è sostituito da un timido e sorridente adolescente con la peluria sopra il labbro. L'ambiente è sempre quello della povertà, dei muri sudici e scrostati, in più si aggiunge il duro lavoro serale in una tipografia. Adesso però c'è anche l'edificio imponente di una scuola con i suoi prati verdi e curati, l'amicizia di altri ragazzi come lui, il dischiudersi del mondo intero intravisto tramite la conoscenza delle arti. Forte è la voglia di partire, di andare all'estero. Ma il pensiero di sua madre in qualche maniera lo tiene legato. In cuor suo comunque vorrebbe rompere con il passato; lo dimostra il disagio e l'estraneità che sente adesso nei confronti della vita di villaggio. Ne fa le spese la figura e il ruolo della madre, identificato da Apu proprio con questo mondo con cui vorrebbe volentieri rompere i ponti.

Troppo tardi si accorgerà però di non avere capito il valore umano immenso che si nasconde comunque dietro quello che si considera vecchio e sorpassato. Sua madre non c'è più e adesso è proprio solo. E' proprio questo sentimento di smarrimento, di perdita, di responsabilità piombata all'improvviso tutta addosso, che viene descritto in maniera splendida e magistrale nell'asciutto e intenso finale. Ray ha l'intelligenza di evitare tutto ciò che sarebbe stato convenzionale, come ad esempio una scena strappalacrime e drammatica, con la riconciliazione commovente in punto di morte. Decide invece di puntare ad esprimere ciò che forma e lascia il segno nell'animo di un essere umano, che si trova ad affrontare una perdita dura come questa.
Nonostante la morte, le perdite, le incertezze, i rischi, la vita continua. Con tenacia, con determinazione, con i pochi oggetti di sua madre raccolti in un fagotto, Apu sa che la sua unica strada è affrontare il mondo.
La mdp ce lo inquadra di spalle in campo lungo che lascia per sempre i sentieri della sua infanzia.

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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 04/05/2011 15.05.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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