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I pionieri del cinema hanno inciso profondamente sullo schermo attraverso la Rappresentazione della Storia di una Nazione. La "Birth of a Nation", tracciata da Griffith nel suo controverso capolavoro e successivamente amplificata e pure tributata da Peter Bogdanovich in un suo film ("Nickeleodon").
Oppure, ancora, rievocata dal lirismo di Cimino ("Heaven's gate") e dall'epicità di Scorsese ("Gangs of New York").
E proprio questa Rappresentazione cinematografica celebra il suo declino prima che l'Ottava Arte festeggi il primo, storico Centenario della sua esistenza.
Agli esordi della carriera, Bogdanovich, giovane regista e sceneggiatore televisivo (aveva debuttato con un documentario tv, "The great professional: Howard Hawks" sul celebre regista) si guarda indietro con lo stesso timore reverenziale per cui sente di essere rappresentante e guida di una Nuova Generazione di registi indipendenti americani (il già affermato Corman, Monte Hellman, Sarafian, Mulligan, Pollack, Altman, Mazursky, etc.) verso un futuro che "non c'è": un giovane autore che crede che "tutti i buoni film siano stati già fatti" non è il massimo per le aspettative dell'industria cinematografica.
Bogdanovich ammette la sua smodata passione per Hawks, al quale ha appena dedicato un documentario, e condivide le teorie del Gran Vecchio quando, nelle interviste, si dimostra deluso dalle nuove prospettive del mezzo cinematografico.
Probabilmente Bogdanovich è stato per gli States, almeno all'inizio della carriera, ciò che Truffaut fu per la Francia: non esisteva negli Usa un movi-mento singolare paragonabile alla Nouvelle Vague Francese, ma l'iniziazione professionale dei cineasti francesi e americani non è affatto dissimile.
Anche Bogdanovich, del resto, come i colleghi francesi, è stato critico di cinema e giornalista appassionato, un vero cultore di cinema classico - di Hawks ma anche di Ford, Stevens, Hitchcock - e proprio nella sua carriera cinematografica egli ha "proiettato" negli spettatori la sua passione per il Cinema.
Per il suo esordio, il regista chiama in aiuto Roger Corman, abilissimo stratega di film indipendenti a basso costo e (spesso) di grandissimo successo, e un regista tanto geniale quanto anticonformista come Samuel Fuller (lo stesso personaggio di Sammy Micheals è in realtà il nome ufficiale del regista).
Fu proprio Fuller a riscrivere la sceneggiatura, e Corman a suggerire molte idee e certe ambientazioni di esterni che hanno dato vita al risultato finale: un film ambivalente, giocato su due personaggi ambivalenti, antitetici, ma alla fine uniti da una diversa ottica di terrore, la Maschera (l'attore) e il Volto (l'assassino).
"Targets", distribuito in Italia con diversi sottotitoli ("Bersaglio mobile" o "Bersagli umani") racconta due vicende parallele che, per una curiosa fatalità del destino, si intrecciano nel finale: la prima è quella che vede protagonista un vecchio attore di horror, Orlok (Karloff, in un ruolo squisitamente autobiografico) che, nonostante sia ancora corteggiato da giovani cineasti (cfr. lo stesso Bogdanovich nei panni di un'assistente registico) decide di ritirarsi e per farlo parteciperà alla proiezione in un drive-in di un suo film (si tratta di "I Maghi del Terrore" di Roger Corman).
L'uomo si considera ormai un "dinosauro", icona di una tipologia di Horror Vittoriano che perde il confronto con la Realtà Contemporanea.
Ma è proprio la peggiore Realtà quella che invade la vita di Orlok, nel modo più inconsapevole e inatteso: la seconda storia è quella di Bobby, un giovane di buona famiglia, felicemente sposato e appassionato di caccia, che finisce presto per perdere il senno ("Non so cosa mi sta succedendo... Mi vengono delle strane idee") uccidendo i componenti della sua famiglia e seminando sangue prima in autostrada poi nel drive-in dove l'attore-Icona vede corrodersi per sempre il senso autoriale della sua esistenza di divo.
L'orrore quotidiano supera di gran lunga l'Iimmaginazione dell'immaginario collettivo.
"Targets" è un esordio a basso costo che ancora oggi sorprende ed affascina, perchè nonostante il budget limitato ogni situazione, ogni singolo episodio, ogni fotogramma sembra studio di un progetto ambizioso e professionale.
In realtà tutto è frutto di un'abilissimo lavoro d'equipe che ha lavorato in fase di montaggio sostituendo a più riprese le lacune, fino a rischiare più volte di lasciare il film incompiuto, per ovvie ragioni economiche.
Gli aneddoti sul film, come le immagini "vietate" girate in autostrada su suggerimento di Roger Corman, raccontano principalmente della capacità del cineasta di credere nel suo progetto fino in fondo, anche a costo di doverlo abbandonare da un momento all'altro senza riuscire a superare le difficoltà tecniche ed economiche del film.
L'idea di "Targets" è probabilmente più opera di Corman che dello stesso Bogdanovich: del resto, un regista che vanta una carriera ultradecennale nel campo dei film a basso costo, che è tra i più riconosciuti cineasti del film a 3d, che ama manipolare lo script durante le riprese fino a ottenere qualcosa di diverso da quanto prestabilito, non può che avere un ruolo di tutto rispetto per un film che è, fra le altre cose, un'inquietante metafora sull'immagine e sui limiti del mezzo nella vita reale.
Nella sua artigianalità "Targets" mostra un linguaggio innovativo, e la stessa realizzazione del film è innovativa rispetto alle tendenze classiche di cinema, a cui il film peraltro si ispira.
E' beffarda ed ironica la dichiarazione di Bogdanovich che ammette senza mezzi termini che proprio il cinema che non ama "è il genere horror, e la fantascienza" (!?).
Lo stesso regista si vanta di aver realizzato il primo e unico horror della sua carriera, ma la collocazione "Horror" per un film del genere è assai riduttiva e scarsamente veritiera.
Più che un'omaggio all'Horror, "Targets" è il tributo ad un Cinema che guarda al futuro con l'impotenza del presente: l'Orrore diventa una profonda riflessione sulla crisi di un Cinema plasmato dalle circostanze della realtà, imprevedibilmente profetica per i tempi in cui fu girato, anticipando di decenni un'opera come "Redacted" di De Palma o i documentari di Micheal Moore contro il facile mercato delle armi negli States (cfr. "Bowling for Columbine").
Ma occorre tener presente anche il richiamo all'immagine, dove il terrore della visione è di chi lo procura nella realtà, e assistiamo ad una metafora certo meno elegiaca e più straziante e in anticipo coi tempi rispetto alla "Rosa Purpurea del Cairo" di Woody Allen.
La vicenda dello psycho-killer Bobby era ispirata a un fatto di Cronaca Vera avvenuto nel Texas, e il nome del vero assassino era Charles Whitman.
La vicenda di Orlok al tempo stesso rispecchiava la vita privata e professionale di Boris Karloff, ormai 81enne, in un film che è anche un testamento dell'attore ed una prova attoriale di grande bravura: Bogdanovich disse che tutto fu girato con assoluta spontaneità, che probabilmente il film riesce a rendere Karloff affine a com'era nella vita reale, e che lo stesso attore si disse alla fine soddisfatto del risultato finale.
Karloff, fedele al motto del film "gli attori non si ritirano mai", firmò un contratto per sei film da girare prima della sua morte (avvenuta nel 1969, a pochi mesi dalla realizzazione di "Targets") e, incredibilmente, tenne fede alla sua promessa "ufficiale".
"Targets", denuncia dei Nuovi Mostri di una società che ha dilaniato ed esaurito l'orrore della fiction Cinematografica, è anche un film particolarmente rischioso per i tempi in cui fu girato: le terribili ed emblematiche sequenze dell'assassino mentre spara, come un consumato tiratore, alle macchine in autostrada sono assai audaci per gli States d'allora, visto che nella collettività l'immagine Reale del Presidente Kennedy ucciso a Dallas è ancora vivida e impressa nella memoria di tutti, senza contare i parametri che oggi potremmo fare con vicende successive come Bel Air o (più recentemente) il massacro di Columbine School, ma anche un'altra tragedia contemporanea: il 20 Agosto 1987, a Hungerfeld (Berkshire) un uomo, Micheal Ryan, noto come "Rambo", violentò e uccise una donna, fece una sanguinaria rapina, sparò alla madre e successivamente, armato di una bomba a mano, un fucile automatico ed una pistola, sparò sui passanti inermi e sulle automobili in sosta, provocando la morte di ben 16 persone.
La grandezza del cinema è la sfida dell'uomo per difendere un'Idea e "Targets" si rivelò alla fine un'idea sorprendente di come si possa fare ottimo cinema senza affidarsi a budget miliardari.
Le sequenze degli spari sugli automobilisti inermi che attraversano l'autostrada sembrano uscite da un western di Boetticher, Mann o (appunto) Hawks (a cui Bogdanovich si ispira per diverse prospettive tecniche, come l'immagine in dissolvenza verso il finale) e la sequenza delle scalette sulle autocisterne, con l'assassino filmato di spalle, è un vero e proprio omaggio a Hitchcock.
Ma è soprattutto il finale, alienante e quasi irreale, a rendere indispensabile la visione del film: anche stavolta l'immaginario del Cinema ci porta alla fantascienza, magari a "Body Snatchers" o "The Blob", ma il realismo della vicenda sembra disposto a parodiare i generi per offrirne la cruda consapevolezza dell'Orrore nelle sue dimensioni reali.
La lunga parte dedicata al drive-in è sconcertante e atroce, riuscendo a oltrepassare veti e tabù e imponendo allo spettatore anche l'assassinio di un bambino; come direbbe lo stesso Bogdanovich oggi, la sequenza è terribile, ma l'uso rapidissimo della mdp che immortala e oltrepassa le vittime della follia di Bobby è tale che lo spettatore fatica a sentirsi coinvolto emotivamente solo da una visione: è prevedibile invece che resti influenzato e soggiogato dall'insieme degli "orrori" a cui assiste in un tempo relativamente breve.
Ancora più emblematico è l'insieme di avvenimenti che si succedono fino all'incontro imprevisto e imprevedibile tra il Mostro dello Schermo e un reietto ma indifeso e singhiozzante Mostro Contemporaneo: l'interruzione parziale della pellicola proiettata al drive-in e due ultimi, notevoli piani-sequenza: la fuga dell'uomo per una scala antincendio e la sagoma ambivalente, sorprendente e provvidenziale di Karloff-Orlok che avanza verso l'assassino ormai moralmente sconfitto, e lo disarma: emblematica la frase dello stesso Karloff - "Ed era solamente questo che mi metteva tanta paura?" - davanti al giovane neutralizzato tra le lacrime e lo spavento provato "come fosse uno spettatore qualsiasi".
Raccontato in questi termini, il finale fa pensare ad un film complesso, mentre in realtà ha l'indubbia capacità di analizzare le varie sfumature delle Paure ancestrali, mostrando come non sempre vittime e carnefici si possono presentare o comportare nel modo più consono ai loro opposti ruoli.
"Il film è basato sulla mia esperienza nei cinema" ammetterà più volte lo stesso Bogdanovich.
"Targets" resta comunque una vicenda imprevedibile pur nella sua apparente prevedibilità, fin dalle prime immagini.
Come insegna lo stesso Hitchcock, lo spettatore seguirà l'"indizio" e appianerà la strada che lo porterà alla soluzione.
Un attore occasionale come Tim O'Kelly è straordinario nel descrivere l'assoluta "normalità" rispetto a quei "Mostri di ieri che non reggono il confronto con i mostri del nostro quotidiano".
Il raptus omicida che lo coglie gradatamente è scandito da una serie di piccoli particolari, come l'entusiasmo immotivato della moglie e la scena-clou scandita dalle immagini di un televisore dove proiettano beffardamente "Anatomy of a murder" di Preminger, o la parola "Die" scritta con una macchina da scrivere che prevedibilmente non è ancora in mano a Jack Torrance.
Nella sua sorprendente capacità tecnica, forse il finale risulta eccessivamente didascalico e romanzato, ma per più di una ragione resta impresso nella memoria.
Un film, dunque, che sancisce lo smarrimento della Visione cogliendo soprattutto l'ottica di una brutale estensione delle nostre paure quotidiane, quelle presenti ovunque, e non solo nei cinema.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 05/11/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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