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Il ritorno in Europa di Paul Verhoeven, dopo circa vent'anni di esperienza hollywoodiana, sancisce soprattutto una rivalsa e un rifiuto alle regole dello star-system americano, cosa di per sè abbastanza atipica e paradossale per chi ha sempre ritenuto il cineasta olandese perfettamente integrato in un cinema di consumo, di alta spettacolarità, esteticamente e formalmente idoneo al grande pubblico.
Per quanto tutto ciò non sia completamente vero, Verhoeven rimarrà per anni autore sottovalutato e tacciato, con inguaribile snobismo, di bieca superficialità. Tutto a causa del successo internazionale di film come "Basic instict" o alla cronica incapacità dei critici di comprendere il potenziale creativo di film di genere come "Robocob", "Atto di forza" e "Starship troopers".
Resta francamente incomprensibile aprire un dibattito tra cinema commerciale e non, visto che dell'esperienza americana di Verhoeven restano anche film che non hanno ottenuto lo stesso successo delle pellicole sopracitate, come "Showgirls".
Visto all'ultima edizione della Mostra di Venezia, "Zwartboek" (o "Black book", secondo i canoni della distribuzione internazionale, se preferite) mantiene le sue promesse e probabilmente è il suo film più emblematico: da una parte il regista mostra la sua indubbia capacità visiva, dall'altra esplora i territori piu' consueti che gli hanno procurato fama ricchezza ma anche diversi detrattori.
Per inciso, "Black book" è un film difficile da amare/odiare, va amato alla follia o rifiutato in toto, a seconda delle modulazioni. Anche descriverlo diventa un'operazione ben ardua, e questo fa comprendere quanto davanti a un'opera di disarmante (o apparente?) facilità lo spettatore si trovi in difficoltà, empaticamente avverso alla propria coscienza, oppure costretto suo malgrado a godere la spettacolarizzazione romanzesca della storia.
Tratto dal libro "Grjis Verleden" ("Passato grigio") di Chris Van Der Heyden, il fim racconta la storia di una cantante e soubrette ebrea olandese, Rachel Stern che, nel settembre 1944, tenta assieme alla famiglia una disperata fuga dai territori occupati dai nazisti. Purtroppo Rachel e la sua famiglia subiscono un'imboscata e lei diventa la sola sopravvissuta allo sterminio guidato dal feroce comandante nazista Franken.
La donna si allea alla Resistenza capeggiata da Kelpels che la introduce come Ellis De Vries nei salotti delle SS, per sedurre e ingannare l'ufficiale nazista Muntze, di cui però si innamora perdutamente. Nonostante questo improvviso sentimento per un nemico e con l'aiuto dell'amica Ronnie (eccellente l'attrice belga Halina Rijit) persevera nella sua doppia identità fino a diventare, attraverso tortuosi malintesi (l'uccisione di parecchi compagni da parte dei nazisti) una traditrice della causa che ella stessa ha portato avanti con cinismo e determinazione.
"Black book", frutto di una lunghissima gestazione (si dice che la sceneggiatura sia stata scritta nell'arco di quasi vent'anni), è un film irritante, ma anche coraggiosamente politically uncorrect, mettendo in rilievo una decontestualizzazione storica e sociale capace di scatenare ancor oggi orde di oppositori e integralismi comprensibili, ma fuorvianti. Non a caso anche la proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia ha trovato, incontestabilmente, sia lodi che critiche da parte della stampa europea ed internazionale.
Non si tratta però, tacciano i dissenzienti, di mera operazione reducista, nè di atipico biopic condotto sul filo della memoria, e (non solo) di realtà storica riprodotta nello stile romanzesco e nella ridondanza di un format di derivazione hollywoodiana (il "polpettone velleitario") o nello spirito dei crismi letterari europei (il feuilleton d'autore). Sarebbe ingiusto tributare una derivazione stilistica che pure è evidente, limitandosi alla collocazione cinematografica dell'opera, senza tentare di esplorare tangibilmente i vari aspetti della storia, il significato profondo dell'operazione di Verhoeven.
Erika Stern non è un personaggio simpatico: per certi versi non lo era nemmeno il protagonista del Pianista polanskiano, per quanto io stia citando un film che è antitetico a "Black book" in quanto perfettamente coerente con la storia e le aspettative emotive del grande pubblico o della critica tradizionale.
Dice l'esimio Mereghetti commentando negativamente il film "non siamo convinti che si possa giustificare ogni cosa nel nome del proprio ideale". Beh, francamente nessuno è convinto di questo. Forse dovremmo ristabilire un contatto con l'epopea della Storia (con la S maiuscola sì) e pensare che, in fondo, sia davvero strumentale credere che dovremmo sentirci in pace con noi stessi assistendo alle fughe tormentate della protagonista e, quindi, all'ombra retriva (empatica) che proietta su di noi. Forse dovremmo giustificare l'esistenza di questo film pensando che in fondo non è detto che dobbiamo ad ogni costo partigianeggiare con lei, perchè ci piacerebbe vederla vittima e non esclusivamente protesa a difendere la sua esistenza e quella degli altri.
Il problema è un'altro: nel descrivere abilmente e con grande stile (perchè questo film ha, nel bene e nel male, stile da vendere) la doppia identità della protagonista, divisa tra un recente passato che sembra precluso, e un presente di duplice inganno/ragione/(in)coscienza (Ellis De Vries, spregiudicata femme fatale alla corte del nazismo e amante di un'ufficiale), l'autore racconta, come pochi sono riusciti a fare, la radicalità dell'esperienza della guerra, dove non esistono solo eroi o persecutori, ma anche e soprattutto personaggi che si muovono oligarchicamente all'interno del proprio habitat, a seconda della loro esperienza.
Tutto questo è molto rischioso, certamente: anche perchè Verhoeven sfiora spesso il kitsch, gira spesso con enfasi producendo iconografie superflue della sua vanità (l'uso della violenza retriva e istintuale, l'eros come imponente e convenzionale porno-soft sulla decadenza dei corpi, etc.). E oltretutto NON ci insegna semplicemente, come dicono i detrattori, che la Resistenza Europea sia stata capace anche di tradire i propri ideali di giustizia e democrazia, ma che è attraverso i parametri del Conflitto e della Ragione che si creano quelle dinamiche che portano l'uomo ad arrestare e confondere nella crudeltà (emblematica la sequenza in cui Erika viene letteralmente coperta di escrementi dai suo compagni e ivi accusata di tradimento) il proprio idealismo.
In un certo senso noi spettatori riconosciamo a questo film, che è ben lungi dall'essere un capolavoro, un'audacia che sarebbe improbabile trovare nel cinema tradizionale. Ma, come spettatori e come esseri umani, la nostra incapacità di appoggiare la causa e il doppiogiochismo della protagonista ci rende perfettamente consci che anche davanti a un'epilogo drammatico e frutto di un'ingiustizia "casuale", noi avremmo sostenuto la tragica sorte di Erika.
E tutto questo perchè è insopportabile convincerci della bontà delle sue scelte, del sentimento "amorale" che essa vive, dell'inflessibilità soggettiva della sua nuova identità come eroina di un universo che ha distrutto tutte le sue radici precedenti (a tratti sembra una tragica via di mezzo tra Natalia Ginzburg e Leni Riefenstahl).
La stessa Rappresentazione del nazismo, che Verhoeven descrive con ineffabile glamour come una semplice egemonia di interessi economici e lussuria (ma era, purtroppo, ben altro) diventa teatro di intollerabili contraddizioni, che mettono a nudo il monolitismo dei ruoli prescelti: lo stesso ufficiale Muntze, amante e nazista tradito, sembra vivere spesso nel miraggio asettico e disciplinare della sua appartenenza. Ed è la stessa protagonista, impersonata da un'attrice sensibile come C. Van Houten, a rivelarci quanto il miraggio dell'appartenenza possa essere doloroso almeno quanto la definitiva separazione.
Fin dalle prime immagini Verhoeven tenta di coniugare la sua forse sincera invettiva pacifista (Erika nello Stato di Israele nel 1956, creato dalle Nazioni Unite otto anni prima per raccogliere l'esodo degli ebrei dall'Europa del dopoguerra) con il respiro antiideologico (per qualcuno indubbiamente reazionario) della vicenda.
Il libro nero è dunque, fin dal titolo, un film che scatenerà dibattiti e che ha già provocato polemiche, opera di un'autore imperfetto ma piu' intellettualmente vitale di quanto si creda (v. il sorprendente finale) e, malgrado tutto, legittimato dalla protervia con cui si passa questo film esclusivamente per un mega-prodotto di consumo: l'uso degli steroidi -che qualcuno continua a voler vedere- non legittima di certo il bisogno omertoso di boicottare o sottovalutare un'opera come questa, malgrado i suoi evidenti difetti formali.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 06/02/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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