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"Let me in" è il remake statunitense di "Lasciami entrare" ("Låt den rätte komma in", Tomas Alfredson, 2008), scritto e diretto da Matt Reeves (regista di "Cloverfield", 2008). E' il primo film prodotto, dopo trent'anni, dalla britannica Hammer film.
Esiste un diffuso preconcetto, nei confronti dei remake USA di pellicole europee, che diviene radicale se queste ultime sono un "cult", come il film svedese "Lasciami entrare". Tuttavia "Let me in" di Matt Reeves non è un'inutile copia dell'originale: è anzi persino più bello.
Fedele al film di Alfredson nell'intreccio, il film di Reeves è diverso stilisticamente, e si scosta in parte dall'originale per avvicinarsi allo spirito del romanzo omonimo di J. A. Lindqvist. Reeves, cioè non lascia nell'assoluta ambiguità la natura del rapporto tra la protagonista e l'uomo che l'accompagna e fa emergere con ciò più chiaramente la "morale della favola": ovvero la relazione amorosa come rapporto che può vedere da una parte un'egoistica necessità, dall'altra un volontario sacrificio di sé per le esigenze dell'amato.
Ma detta in questo modo è una riduzione troppo fredda di una storia al cui interno pulsano invece molte sfumature.
Apologia di un remake.
Si diceva del preconcetto verso il remake. "Let me in" è stato bollato, da chi ha amato il film di Alfredson, come un'operazione sostanzialmente inutile, per quanto non sfiguri del tutto nei confronti dell'originale. Si comprendono le difficoltà della Filmauro a distribuire il film in Italia: l'uscita nelle sale non è ancora stata prevista, e rischia di passare direttamente sul mercato dell'home video. Sarebbe un peccato: il film si discosta dai canoni commerciali del genere horror, ed è un gioiello che meriterebbe di essere apprezzato da un vasto pubblico.
L'operazione-remake va compresa senza pregiudizi. In Italia siamo abituati a masticare cinema straniero, non foss'altro che il mercato è dominato dalle pellicole americane. Negli Stati Uniti, il cinema straniero ha una penetrazione completamente diversa, ed è quasi fisiologico che spesso un film di valore come quello svedese, per poter essere apprezzato diffusamente, vada rifatto. Che le case di produzione lucrino su questo, è secondario: il prodotto può essere pregevole (si pensi a Michael Haneke, che nel 2008 ha concesso il remake del suo "Funny games" del 1997 a patto di essere lui stesso a dirigerlo: provocatore di genio come sempre, Haneke l'ha rifatto identico, firmando un film per nulla inferiore all'originale).
Se per noi è indifferente che la vicenda si svolga nella periferia di Stoccolma o nel New Mexico, assolutamente non è così per il pubblico americano. Tanto più che il tema della violazione dell'ambiente domestico è fondamentale, in quest'opera, ed esplicito sin dal titolo (vedremo perché). Mentre in Italia poi esiste il doppiaggio, negli USA la fruizione di un film straniero passa attraverso i sottotitoli, creando un distacco ulteriore.
Noi siamo nella condizione sia di poter confrontare i due film con obiettività, quasi fossero due rappresentazioni teatrali di un medesimo testo (è poi così che ci si dovrebbe porre nei riguardi di un remake, senza preconcette accuse di sfruttamento commerciale e scarsa fantasia), sia di giudicare dove e come l'indiscutibile maggior valenza tecnica di "Let me in" si traduca in una resa stilistica di alto livello, artisticamente autonoma e riuscita.
Una suite notturna.
Il film di Matt Reeves è un vero e proprio remake, più che una nuova trasposizione: la sceneggiatura ricalca quella del film di Alfredson. Episodi collaterali e plot secondari del romanzo sono ulteriormente asciugati (in particolare, si assottiglia il contesto del vicinato, e scompare quasi del tutto la figura del padre del ragazzo), per concentrarsi quasi del tutto sul rapporto tra i due giovani protagonisti. I tempi ne risultano intelligentemente dilatati: senza sminuire la suspense, la narrazione è gestita in modo da tenersi sapientemente lontana da stilemi commerciali che pretenderebbero un'esasperata concitazione degli eventi (a detrimento della loro risonanza emotiva).
Del primo film è mantenuto l'impianto: gli episodi prescelti e la loro concatenazione rispecchiano le ottime scelte di sceneggiatura del film svedese, fatte dallo stesso Linqvist, rispetto allo sviluppo (talvolta farraginoso) del proprio romanzo.
Una sola differenza significativa, rispetto al primo film: il flashforward dell'incipit di "Let me in", che si apre in medias res con una sequenza che innalza sin da subito il coinvolgimento dello spettatore, lasciando intravvedere una situazione di emergenza che verrà recuperata a metà pellicola. Una scelta, questa, che discende certamente dai canoni che vigono da anni nel cinema di genere con i meccanismi del thriller, ma si rivela efficace e per nulla fuori luogo.
L'approccio di Matt Reeves è molto rispettoso verso entrambi gli originali svedesi, romanzo e film: se può apparire convenzionale, trae invece molto vantaggio da una scelta cui giova l'assenza di pretenziosità "autoriale". Non sarebbe servito aggiungere elementi di originalità: anzi una sovrastante personalizzazione dell'ottimo materiale di partenza avrebbe nociuto, con esiti sconsiderati. Invece "Let me in" si avvale di scelte sempre felici in tutti i comparti "tecnici", che ne fanno un'opera di notevole qualità.
Anzitutto, si fa notare la messa in scena quasi esclusivamente notturna, cupa ma al contempo calda (a sottolineare intimismo e sentimenti), pur nel gelo della neve. Un "freddo calore" che si deve alla scelta di fare del rosso il colore dominante. La fotografia, affidata a Greig Fraser (tra i cui lavori spicca quello notevole per "Bright Star" di Jane Campion) è incentrata sull'emersione del rosso entro il nero delle tenebre. Il rosso è il colore dei lampioni e delle luci artificiali, che immergono le scene in un'ovattata atmosfera scarlatta.
La colonna sonora è magnifica. I rumori, le interpunzioni sonore (a sottolineare, mai eccessive, sussulti e sorprese), rivelano un lavoro di "perfezionamento" dell'originale. Ma ad essere straordinario è l'accompagnamento musicale di Michael Giacchino (autore delle musiche della serie tv "Lost" e di alcuni film Pixar, tra cui "Ratatouille" e "Up", per cui ha vinto l'Oscar): una partitura musicale determinante per la riuscita espressiva del film: inquietante e romantica, trasmette a volte desolazione, a volte tenerezza, con gradazioni e sfumature quasi impercettibili, ben amalgamate in una sola voce.
Le scelte visive di regia (profondità di campo, montaggio; realismo delle scene più crude nonché della loro dinamica – si pensi soprattutto al pre-finale in piscina) rivelano dimestichezza con uno stile al contempo classico (ad esempio nella creazione della suspence: si pensi alla sequenza del passaggio a livello, o a quella della pompa di benzina) e moderno – nella fisicità, nella prossimità che instaura tra spettatore e scena. Un'austerità che sorprende da parte di un regista noto sinora solo per "Cloverfield", film girato invece simulando una ripresa amatoriale, perciò ipercinetica e sciatta.
E' appena il caso di accennare alla qualità di aspetti più puramente "tecnici" come il trucco e gli effetti speciali. Più importante soffermarsi sulla bravura dei due protagonisti: Kodi Smit-McPhee, che interpreta Owen (Oskar nell'originale svedese) è lo stesso ragazzino di talento che affianca Viggo Mortensen in "The road". Chloe Moretz, che interpreta Abby (cioè Eli), ha un volto dolce, una malinconia, dei sorrisi che amplificano il fascino misterioso del personaggio, non meno inquietante – ma meno disturbante – rispetto alla Eli del film svedese.
Se l'insieme risulta meno disturbante, non è per questo normalizzato: le scelte espressive di "Let me in" amplificano la connessione tra la dolcezza di un romanticismo pre-adolescenziale ed il dolore che scaturisce dalla progressiva cognizione della "diversità", da parte del protagonista maschile.
"Scappare e vivere, o restare e morire".
In "Let me in" vi sono diversi riferimenti testuali a "Romeo e Giulietta". In particolare, il biglietto di Abby che Owen legge al suo risveglio dopo la notte trascorsa insieme (Abby si è coricata per... il giorno), è diverso da quello del romanzo e del film svedese, e recita: "I must be gone and live or stay and die". Segue la prima inquadratura veramente luminosa di tutto il film, in cui si vede il cielo (sottolineata dal passaggio musicale più sostenuto di tutta la colonna sonora).
E' quasi un biglietto di scuse con cui Abby si giustifica per la propria necessità di ripararsi dalla luce del sole per sopravvivere. Ma è soprattutto un biglietto d'amore. Tuttavia è un biglietto d'amore che si carica di una luce sinistra, se letto all'inverso, come premonizione del destino di Owen.
Si sconsiglia la lettura del prosieguo di questo paragrafo a chi non avesse ancora visto il film, precisando che in quanto stiamo per rivelare è contenuto il significato più intimo dell'opera.
Il destino di Owen è di seguire le orme dell'uomo che accompagna Abby dall'inizio del film, e che inizialmente appare il padre della ragazza, agli occhi di Owen come dello spettatore.
Nel film svedese non era chiarita l'ambiguità di questa figura (più che esplicita invece nel romanzo: l'uomo non è il padre della ragazza, ma un pedofilo che ha messo la sua vita al servizio di un bambino vampiro, fornendogli sangue e sostentamento. Nel film di Alfredson nulla era detto, nemmeno del fatto che il personaggio di Eli/Abby fosse un maschio evirato. Nel film svedese, di tutto questo si conservava solo un'inquadratura sul pube di Eli: una cicatrice al posto dell'organo maschile – inquadratura che risultava del tutto decontestualizzata).
Nel film di Reeves anche non si dice nulla di scabroso sul rapporto tra Abby e l'uomo; tuttavia, interrogata a riguardo, Abby fa una rivelazione precisa: "He wasn't my dad". Non è il padre. Assieme alla notizia sulla perenne età di dodici anni della ragazza, tanto basta per suggerire in modo esplicito allo spettatore che Owen è destinato a invecchiare affianco a Abby dodicenne, ricoprendo lo stesso ruolo servile di quell'uomo cui si sostituisce intenzionalmente. E, quel che è davvero notevole, Owen sa quello che lo aspetta. Forse non è pienamente consapevole dell'orrore cui va incontro, ma la sua è una scelta fatta in piena coscienza sia della radicale alterità cui si sta per confinare legandosi a Abby, sia dell'assenza di reciprocità nella relazione che va a instaurarsi.
E allora, ripensando alla frase di Shakespeare, "gone and live" suggerisce nientemeno che la libertà, che Owen rifiuta, di scappare da Abby per una vita "normale" in un contesto sociale "normale". Invece, la sua scelta è quella di "stay and die". Restare... e morire: non nel senso letterale del termine, quanto morire alla propria libertà individuale.
E' qui che si cela il significato segreto del film, che fa sporgere lo spettatore, come su un abisso, sull'antitesi tra libertà individuale e rapporti di coppia disfunzionali e squilibrati (in cui un membro della coppia si fa carico di un ruolo "servente" rispetto alle esigenze dell'altro).
C'è un pessimismo (venato di misoginia) che Reeves eredita dal romanzo di Lindqvist: Owen si innamora, ma – fuor di romanticismo – nulla lascia intendere che Abby lo ricambi, né che la loro futura relazione possa svilupparsi in modo diverso da quella, anaffettiva, che abbiamo potuto vedere nel rapporto tra Abby e l'uomo che l'accompagnava. Una forma di reciproco scambio: in cui Owen fornisce il sangue, e Abby una parvenza di quell'affetto che è sempre mancato ad Owen.
Lindqvist – e Reeves insieme a lui – ci portano anche a riflettere sulla presunta "normalità" che Owen rifiuta, e su quanto essa possa non apparire gratificante. Nell'adolescenza si percepisce in modo quasi patologico il conflitto tra la propria interiorità e il mondo "normalizzato" degli adulti, che appare squallido e svuotato di fascino. Nel finale, in cui splende la luce, Owen va verso il suo futuro, in compagnia – letteralmente – del suo fardello.
In fondo per questo che le favole affascinano da bambini: rappresentano un mondo di fantasia più affascinante della realtà. E l'horror – tanto apprezzato dal pubblico adolescente – non è altro che una virata in nero, colma d'inquietudine adolescenziale, delle fiabe per l'infanzia.
Ma se estendiamo il discorso agli adulti, ecco che il significato di "Lasciami entrare"Let me in" si carica di livido esistenzialismo, nel disincanto verso la realtà e le sue disillusioni. Ed allora la scelta di Owen, il suo sogno romantico, si rivela molto comprensibile, e suscita la nostra adesione emotiva.
"Queste case, queste strade, le piazze, le persone, tutto è soltanto come un'enorme malattia, capisci? C'è qualcosa di sbagliato. Hanno pianificato questo posto e tutto il resto perché fosse perfetto, no? E in qualche maledetto modo tutto è venuto fuori sbagliato". Questa frase, tratta dal romanzo di Lindqvist, racchiude come una sentenza il giudizio che "Lasciami entrare"/"Let me in" fornisce sull'ordinario benessere della società dei consumi, sulla civiltà occidentale per come essa si è andata configurando nella seconda metà del XX secolo.
E non è un caso allora che, nel film di Reeves, è posto un preciso accento sulla contestualizzazione del film all'epoca della Presidenza Reagan.
"Let me in"
Il topos del vampiro, si sa, è legato a doppio filo alla crisi del positivismo. "Dracula" di Bram Stoker (1897), lungi dall'essere l'iniziatore del filone, ne rappresenta piuttosto la "summa": ma il suo clamoroso successo, la sua imperitura reviviscenza cinematografica, sono indice del fascino immutabile che il vampiro ha esercitato, per tutto il XX secolo, e ancora esercita, sulla nostra civiltà.
Un fascino che scaturisce tutto dall'inocularsi – come di un'epidemia – di quanto di più arcano e ancestrale, caotico e pulsionale, entro le mura dell'ordine razionale del mondo borghese.
Ebbene tra le caratteristiche meno note di un vampiro c'è quella, del tutto particolare, che egli ha bisogno di un invito. Senza permesso, non può accedere nelle case. "Let me in", egli domanda...
Un dettaglio per nulla irrilevante: se il vampiro invade le nostre vite, siamo noi a volerlo. Esattamente come Owen...
Torniamo allora all'incipit del film – in cui si vede Reagan parlare agli Stati Uniti della minaccia "esterna" dell'"impero del male" (l'Unione Sovietica), in piena guerra fredda, all'inizio di quegli anni '80 che rappresentano l'avvento del neo-liberismo. Negli anni 2000, "impero del male" e "minaccia esterna" sono espressioni che scatenano, per gli Stati Uniti, paure esasperate dall'11 settembre, che nella coscienza epidermica del cittadino americano incarna l'incubo dell'invasione e della distruzione del proprio territorio, dentro casa. Ad opera di nemici esterni.
... Esterni?
Senza entrare nel campo minato delle dietrologie sull'11 settembre, è evidente che – anche al cinema – il crollo delle torri gemelle e la paranoia che ne è conseguita hanno iniziato a funzionare come indice di un male interno: una disfunzione sociale, economica ma anche esistenziale (si pensi alla bandiera rovesciata di "Nella valle di Elah"; a "Non è un paese per vecchi", allo stesso "The road"), i cui responsabili non si nascondono in una remota caverna dell'Asia, ma sono intorno a noi.
Ecco allora che comprendiamo meglio che mai come per il pubblico americano parlare di vampiri in una periferia di Stoccolma abbia poco senso e scarso appeal. L'esigenza di trasferire la vicenda sul proprio suolo risponde a una necessità quasi imprescindibile.
E' senz'altro prematuro individuare in Matt Reeves una poetica. Tuttavia, due film che non hanno davvero nulla in comune come "Cloverfield" e questo, hanno un potente denominatore che li unisce: collocandosi sulla scia dell'11 settembre (evento ben lungi dall'essere metabolizzato), trattano entrambi di una minaccia che si vorrebbe fosse esterna al sistema, ma che – più che pretendere d'essere esorcizzata – vuole essere evocata.
La destabilizzazione ha il suo fascino, e l'ordine costituito è avvilente come per un adolescente il mondo degli adulti. Com'era squallido il deprimente party su cui si apre "Cloverfield". Rispetto al controverso esperimento dell'irrisolto film del 2008, "Let me in" è molto più ricco di suggestioni e sfumature. Come le favole migliori, cela le proprie molteplici allusioni di senso ben in profondità nell'ordito della propria trama, e si rivela come la versione più riuscita e affascinante, credibile e complessa, del mito del vampiro ai giorni nostri, in un mondo sempre più spaventato da se stesso.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 16/03/2011 18.53.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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