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Fornire un resoconto dettagliato di ciò che è un film come "Buongiorno, Notte" è assai arduo. Come per gli altri film di Marco Bellocchio, una delle teste di serie del cinema italiano, esso rivela una complessità stilistica e tematica così articolata da scoraggiarne un'analisi in chi si avvicina a questo suo capolavoro. Questo per la delicatezza dell'argomento trattato (il rapimento e i cinquantacinque giorni di prigionia di Aldo Moro nella Primavera del 1978), e per la profondità della sceneggiatura, e infine per la qualità tecnica della mise en scene cinematografica, la quale, lungi dall'essere mero esercizio di stile, si pone come immagine formale del discorso che sfoglia, inquieto, le pagine dello script.
E con una sceneggiatura il film inizia. "Una sceneggiatura... che strano.", dice Mariano (il capo dell'intera operazione, interpretato da Luigi Lo Cascio) rovistando fra le cose del Presidente, appena rapito.
Il problema di un film come "Buongiorno, Notte" è che è facilmente ascrivibile, catalogabile. Di solito l'etichetta di genere è "storico", ossia di una pellicola che tratta (in maniera romanzata) un fatto realmente accaduto del passato. Lo spettatore allora guarda al film come una semplice rivisitazione, vuole rivivere eventi che magari ha esperito direttamente o di cui invece ha sempre sentito parlare tramite racconti, interviste, lezioni, articoli e libri. Un fatto come quello del sequestro e dell'omicidio dell'allora Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse è bene o male un fatto verso cui ogni italiano di media cultura è spinto prima o poi a confrontarsi. Ma perché narrare eventi così tragici e ambigui? Perché dovremmo voler rivedere l'agonia di colui che in fondo, al di là del dibattito politico, è stato un grande italiano? La risposta che ci diamo è probabilmente che questo è il mandato di un cinema civile di cui Bellocchio, Bertolucci, Giordana e Pasolini sono stati i principali promotori. Un cinema sociale, storico, politico che non ha nulla da invidiare alla letteratura di analoghe tendenze, un cinema che ha dato in ogni stagione del cinema italiano risultati di grande respiro. Ma "Buongiorno, Notte" esce nel 2003, a venticinque anni dalla tragica scomparsa del deputato; questo avvalora ancor più la tesi di un'appartenenza totale del film al genere dei film "storici", portandoci a considerarlo dunque una rivisitazione di un fatto importantissimo e cruciale della storia italiana, che sconvolse l'opinione pubblica anche estera e che modificò (in parte) gli assetti politici e istituzionali del Paese. Un modo del cinema di confrontarsi con una realtà tragica e destabilizzante le coscienze, il che è avvenuto e avviene spesso in campo artistico in ogni parte del mondo. Il problema è che quella di Bellocchio, se accettiamo in linea di principio essere una rivisitazione storica del caso Moro, è sicuramente e problematicamente una rivisitazione sui generis.
Scena #1: La casa
Chiara e Ernesto sono una coppia di giovani borghesi, lui ingegnere lei impiegata statale, lavora alla biblioteca. Cercano una casa tranquilla e appartata per condurre un'esistenza normale, quasi sicuramente in attesa di figli.
Se non sapessimo di cosa parla il film la cui scena iniziale rappresenta questo ritratto, saremmo portati a crederlo davvero.
E invece Chiara ed Ernesto sono due ventitreenni affiliati alle Br e scelti da esse per vivere con Aldo Moro e processarlo dopo averlo sequestrato. Ma il passaggio fra l'illusione e il disincanto è stranamente morbido. Da subito, dalle prime confortanti e rassicuranti parole dell'agente immobiliare ("Come vedete è una realtà molto tranquilla, molto riservata, anche come avete visto dov'è posizionata la palazzina...", parole ironiche), dagli sguardi semplici e un po' persi dei due, dalla loro bontà e tranquillità quasi infantile, capiamo che "Buongiorno, Notte" sarà un film particolare e per nulla facile da seguire.
La vera protagonista del film, o perlomeno la co-protagonista insieme a Maya Sansa, è presentata da subito: è una casa. Una casa in penombra, ma ripresa nelle ore primo pomeridiane. Deve ancora essere abitata, ma ben poche scene dei 100 minuti di durata del film saranno ambientate fuori di essa. La scena dopo è invece ambientata di a mezzanotte. È la notte di Capodanno del '78, anno cruciale ("Meno cinque, meno scandali, meno rovine!" dice il conduttore del programma televisivo in cui si fa il tipico countdown del 31 dicembre) e vediamo Chiara e Primo (Giovanni Calcagno), il suo ragazzo, ovviamente un brigatista, che stanno conducendo una serata tranquilla, insieme. Quando cominciano a scoppiare i fuochi artificiali, Chiara corre fuori eccitata e felice e i due si tengono abbracciati in un bacio giovane e senza pensieri. La scena dopo è l'esatto negativo di questa ed è capace di comunicare un disagio che già si era accennato nelle sequenze immediatamente precedenti. I tre personaggi, ora presentati insieme, sono nevrotici e paranoici e lavorano alla preparazione della cassa da morto che poi sapremo trasporterà Moro da via Fani alla Prigione del Popolo. Chiara e Ernesto devono fingere di essere coniugi e sistematicamente si infilano la fede ogni volta che qualcuno suona alla porta, fede nuziale che puntualmente e con grande attenzione ogni volta si sfilano e ripongono via. Il ragazzo di Chiara si tiene nascosto. Le espressioni sono cambiate, il sudore, la frenesia, la concitazione fanno da padroni.
Scena #2: Edizione straordinaria
La scena va direttamente al cuore del film: ma noi non vediamo l'azione dei brigatisti, la strage della scorta morotea, non vediamo i tre protagonisti del film come gli assassini dipinti dai media e dall'opinione pubblica. Noi vediamo semplicemente Chiara che in una mattina qualsiasi, alle prese coi lavori di casa, come ogni casalinga italiana potrebbe fare quotidianamente, riceve la notizia dal tg straordinario che Moro è stato oggetto di un attacco terroristico. Chiara gioisce, ecco la differenza tra lei e le altre casalinghe di tutta Italia. Ma la gioia in un'operazione terroristica di così alto rilievo e rischio non è emozione destinata a durare. Chiara riceve in custodia il figlio della vicina (significativamente, una sua coetanea): un bambino. Un neonato, la Vita per eccellenza, contro la cultura di Morte che sta perseguendo Chiara nella sua esistenza. È qui che entra, con le sue note incerte e inquiete, perennemente ritardanti, eppure obnubilanti, affascinanti, metafisiche, la canzone che accompagnerà i gesti dei protagonisti per tutto il film: Shine on you crazy diamond, uno dei capolavori assoluti dei Pink Floyd. Vediamo Chiara spiazzata dalla presenza del bambino, protagonista inconsapevole di uno dei fatti più aberranti della storia italiana. Le atmosfere sospese e in funambolica tensione sono evocate magistralmente dalla musica, la quale tuttavia si limita al primo minuto di brano, in cui sostanzialmente abbiamo solo un tema di tastiere. È un'avvisaglia. Ma è forte. La presenza destabilizzante del bambino, l'introduzione di un pezzo musicale che è un'ode irrazionale e cosmica (non ce la aspetteremmo in un film del genere), la placida voce narrante del giornalista televisivo che commenta le prime reazioni alla strage di via Fani sono un sintomo di qualcosa che non va.
Scena #3: "Presidente, ha capito chi siamo?"
In una inquadratura straordinaria, Bellocchio fa entrare in scena il terzo protagonista della storia. Aldo Moro, Presidente della DC (interpretato da Roberto Herlitzka). Il neonato, specchio di inconsapevolezza (forse portatore di una simbologia collettiva?), è in primo piano, i brigatisti leggermente sfocati, faticano in secondo piano nel trasportare la bara del sequestrato. È una scena sconvolgente, proprio in virtù di questo sapiente gioco di piani cinematografici, proprio per la normalità banale, priva di qualunque tipo di sensazionalismo retorico, con cui è presentata. La sequenza seguente non è da meno: dalla luminosità rassicurante del mattino, infantile, quasi di sogno, del salotto si passa alla macabra e ossessiva tenebrosità del carcere. La cassa non entra nel vano appositamente adibito (un errore di calcolo assurdo per le Brigate Rosse), e questa è una delle molteplici tracce che Bellocchio dissemina nel film. L'impresa è riuscita, ma fino a quanto? Ernesto, il più inquieto e scettico del gruppo, lascia un'impronta evidentissima di sudore sul legno. I brigatisti sono alle prese con problemi logistici che poco si addicono all'immagine che collettivamente si è sempre avuta di loro (almeno fino a che non furono catturati). La trama simbolica innerva totalmente ogni singolo gesto e immagine. Bellocchio dirige tutta questa immensa scena con una fotografia espressionistica, alla Lang, alla Murnau, che incornicia e distorce il volto di Lo Cascio e dei suoi compagni.
Scena #4: "Qui Brigate Rosse, abbiamo portato l'attacco al cuore dello Stato. L'ostaggio è in nostre mani. Viva le Brigate Rosse!"
L'intera scena è scandita da tre servizi del telegiornale. Il primo mostra i corpi della scorta di Moro, trucidati al suolo. È l'unico momento del film in cui vediamo gli effetti della violenza brigatista. È quasi inaccettabile per uno spettatore, che sta cominciando ad amare i suoi personaggi, collegare quel sangue versato con i quattro ragazzi che si muovono inquieti sulla scena. Quattro ragazzi che osserviamo, in un memorabile primo piano, stipati sul divano a osservare il loro operato e soprattutto le reazioni. Innanzitutto quella di Enrico Berlinguer, presidente del PCI, che in un famoso comizio prese con decisione le distanze dalle strategie stragistiche del gruppo rivoluzionario. "Professionisti del crimine" li definì, davanti a una massa silenziosa di comunisti, i quali applaudirono a più riprese, suscitando la reazione stizzita di Ernesto e l'apostrofe del serafico e apparentemente più esperto e maturo Mariano.
Osserviamo i brigatisti muovere i primi passi dell'impresa terroristica. L'attenzione si sposta dalla politica ai dettagli: i pasti (il famoso "risotto" preparato dalle guardie carcerarie di Moro), la dedizione amorevole con cui trattano l'ospite, i farmaci con cui curare le difficili condizioni di salute dell'onorevole, l'emozione malcelata delle prime bussate alla porta della prigione ("Ha bussato! Moro ha bussato!"). E ovviamente l'inizio del Processo ("Vado io per primo, tu fai il secondo").
E notiamo anche le loro debolezze: Mentre alla tv, il neo Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, si appella alle famiglie, alle scuole affinché riconoscano i possibili esecutori del crimine, vediamo Chiara esausta, in camicia da notte. Il suo ragazzo la raccoglie delicatamente per portarla a dormire, e questo è l'ultimo atto che denota il loro status di coppia, l'ultimo atto d'amore tra i due. Nelle Brigate Rosse non c'è spazio per sentimentalismi borghesi, la lotta di classe, l'odio di classe è superiore. Ma la camera da letto, l'unica della casa, porta il vessillo di un crocefisso. Com'è possibile che i brigatisti, così maniacalmente attenti a sfilarsi le fedi nuziali, permettano al simbolo del Cristianesimo di troneggiare sulle loro teste? Una svista, una cautela mimetica, o qualcosa di più profondo? Una delle tante tracce di cui si parlava prima?
Nonostante la coralità, è sempre Chiara la protagonista. L'occhio del regista cade sempre su di lei, a sondarne gli impercettibili movimenti psicologici, che la giovane attrice è bravissima a rendere con una recitazione da premio Oscar immediato. E a lei si rivolge anche Andreotti: "Ma vivranno pure da qualche parte? Questi giovani, questi uomini, e queste donne purtroppo, che si lasciano mobilitare per azioni criminose di questo genere."
Scena #5: Primo sogno
Immagini antiche. Una panchina innevata. Il cinema di Bellocchio si confronta con vecchissime pellicole senza nome, rovinate, ma ancora capaci di veicolare la loro potenza suggestiva. Ci si chiede come mai il regista inserisca questi documenti (sono documenti?), che difficilmente possono essere sogni di una ventitreenne. Appartengono piuttosto a una memoria collettiva che si sta lentamente cancellando, che deperisce ogni giorno di più. Ma per ora sono solo sogni, sfocati e imprecisi. Sogni di una giovane donna che ha già scelto come sarà la sua vita, una scelta difficilissima, dolorosa, in ogni suo aspetto discutibile. Ma una scelta. E la sua profondità cominciamo a conoscerla, ad amarla a partire da questo primo, inaspettato e sconvolgente, sogno. Sono ricordi allucinati di infanzia? Ma Chiara apre gli occhi. La vediamo girare come un fantasma nella casa immersa nel sonno. Un'esile figura che ricorda i dagherrotipi di Emily Dickinson (poetessa, vedremo, molto importante per questo film). Chiara emerge, con il suo sguardo indimenticabile, dalla realtà notturna che è, grazie alla straordinaria fotografia di Pasquale Mari, ancora visivamente a metà tra luce reale e matrice onirica. L'inquadratura ricorda quelle che Kieslowski ha regalato al cinema, quasi inventandole, nel suo "Film Blu". Maya Sansa somiglia alla Juliette Binoche del capolavoro del 1993, e in un certo sono entrambe eroine, protagoniste assolute di un dramma umano e femminile. Dorme con lei Primo, che ha sostituito Ernesto, con il quale si era coricata. La pistola sul comodino. E nel periplo della casa che velocemente compie vediamo tantissime armi. Armi che stonano con la levità metafisica di quell'atmosfera. Chiara è un angelo in mezzo a strumenti di morte. E tutti e quattro sono angeli della morte. Assopiti, ma pronti a sparare, a trucidare, a sconvolgere. Ed è in questo frangente che avviene il primo incontro tra Chiara e Moro. Moro dorme, rannicchiato, impotente, debole, vulnerabile. Il Presidente della Democrazia Cristiana, uno degli uomini più amati e potenti d'Italia ("Scioperate! Ora che hanno rapito Moro, che era una persona così seria!"), ridotto su una brandina, con un impersonale pigiama grigio, da carcerato, con alcune costole rotte. Un Moro che poche ore prime si dirigeva a firmare il compromesso storico con Berlinguer e i comunisti, un Moro appena uscito dalla chiesa per la messa quotidiana delle 7. Un Moro strappato alla vita normale, la vita pubblica e privata (vedi la foto del nipotino Luca, che il "capo" ordina di bruciare insieme a tutto il resto), un Moro che ora non è più una persona, ma è solo l'incarnazione del Potere, dell'Istituzione, del SIM. Chiara osserva Moro, ci si chiede cosa pensi.
Scena #6: Una stella, nell'ascensore
Una delle poche scene al di fuori della casa. Chiara, immagine sociale accettabile dell'operazione di guerriglia, è l'unica a mantenere il suo impiego. La vediamo muoversi con circospezione, timidezza, riservatezza e soprattutto terrore puro nel suo tranquillo ambiente lavorativo. E in una pennellata memorabile Bellocchio ritrae gli umori del popolo borghese italiano, quel popolo che le Br pretendono di trascinare nella rivoluzione rossa. E le cose, è chiaro, non stanno proprio come vogliono loro.
"Secondo me è scappato con l'amante!"
"Secondo me tu sei deficiente!"
"Ci vogliono i campi di lavoro!"
"Ma quante cazzate dite?"
"Ma stai zitto te che fai il servizio civile, sei un vigliacco!"
"Ah perché se non fai il soldato, sei un vigliacco?"
"Sei peggio dei terroristi, loro almeno rischiano la vita."
Un breve e divertente scambio di battute, eppure fortemente significativo. Indicativo di una serie di umori, ideologie, prese di posizione confuse e viscerali. Non c'è precisione, rigore, filosofia. Il popolo, sebbene quello ritratto sia essenzialmente piccolo-borghese, non riesce a stare dietro alla ferrea pragmaticità dei brigatisti. Centro della scena è Chiara, osservata per la prima volta al di fuori del suo reale ambiente. Un pesce fuor d'acqua, una ragazza dimessa, introversa, silenziosa. Ed è qui che interviene un altro dei protagonisti del film: Carlo. Coetaneo di Chiara, energico e ironico, non ha bisogno di presentazione, e Briguglia è, come di consueto, abile a utilizzare la sua fisicità per veicolare la statura di chi sta interpretando: Carlo rappresenta l'ala moderata di sinistra, l'ala berlingueriana. Quella contro cui remano le Br. E Carlo è attratto da Chiara. Non si sa quanto lei lo sia da lui, ma Bellocchio lo introduce in maniera magistrale. È qui che compare uno dei libri-guida del film: "Lettere dei condannati a morte della Resistenza", edito da Einaudi. Carlo lo sta leggendo, mentre Chiara riceve una telefonata dalla zia. Il contrasto tra l'umiltà borghese da ragazza qualunque di questa scena e il terribile segreto che si porta dentro è molto forte, rafforzato dalla stucchevole banalità del dialogo fra le due. In questi minuti molto rilassati, Bellocchio inserisce come sempre un elemento destabilizzatore: in una sequenza che rievoca quella celeberrima de "Gli Intoccabili" di De Palma, vediamo le persone degli uffici fuggire spaventati dall'ascensore. Una donna raccoglie quello che sembra sangue dal muro in cui è sistemata la mdp. Ci aspetteremmo un attentato, e invece è una stella, la stella a cinque punte, simbolo delle Brigate Rosse. In questa memorabile scena corale, Bellocchio ritrae lo sconcerto degli astanti, l'angoscia, il terrore che caratterizzarono e segnarono indelebilmente gli Anni di Piombo. Chi simpatizza per le Br e la loro guerra armata? "Se si ribellano anche gli impiegati, è fatta", dice entusiasticamente Primo. Nel frattempo, Chiara continua a osservare dallo spioncino Aldo Moro, che vediamo assorto e preoccupato. Il rapporto fra i due si limita a un'osservazione consapevole e inconsapevole, uno scrutarsi quasi timoroso e reverente, colmo di curiosità.
Scena #7: Secondo sogno
Non è più corretto in realtà parlare di "sogno". Quelle immagini in bianco e nero, che ritraevano un paesaggio rurale e innevato, con una tecnologia filmica da primo Novecento, sono probabilmente estratti di pellicole che Chiara ha visionato veramente e che ora affiorano alla memoria mentre lei è assorta, sotto le coperte. Chiara ha uno sguardo ambiguo, riflessivo, che denota problematiche nascenti. Il tarlo del dubbio ha cominciato a insinuarsi nelle pieghe cerebrali della protagonista? Bellocchio spende molto tempo in inquadrature silenziose, immobili, pensose su di lei. Primi piani intensi, rivelatori che preludono quasi sempre a un evento minimale, ma fortemente significativo. Qui per esempio assistiamo a un momento toccante e chiarificatore: Chiara allunga la mano per cercare quella dell'uomo che forse ama, e invece trova quella del "capo", sicuramente il combattente più disinvolto e a suo agio fra i quattro. Chiara cerca l'amore, ma trova solo le ragioni (fisiche) della sua lotta, le conseguenze di quello che è in tutto e per tutto un sacrificio. La costrizione di "vivere col proprio ragazzo" e di doverlo trattare essenzialmente come un camerata, senza riconoscerlo per quello che è davvero. Le ragioni della guerra su quelle del cuore. Ma lo spazio per elementi di libertà, di svago, quasi di divertimento c'è ancora: un ladro che cerca di entrare nella notte, una giornata di sole, il saluto cordiale tra i vicini, il piacere di un caffè, persino un canarino di cui prendersi cura. E ovviamente lo spazio per il Processo a colui che incarna, che è la Democrazia Cristiana, "il prigioniero" (questo è anche il titolo del libro, scritto dalle brigatiste Anna Laura Braghetti e Paola Tavella, che ha ispirato il film). È qui che per la prima volta vediamo il confronto tra le due parti politiche, tra i due uomini del potere, quello borghese e quello proletario.
"Ma forse avete sbagliato persona, io non ho alcun potere istituzionale, non ho incarichi di governo."
"Ma tu sei la Democrazia Cristiana. Noi non vogliamo processare te come persona, privato cittadino, padre di famiglia; ma ciò che rappresenti, il simbolo, la funzione, il partito che tu incarni, così come io rappresento tutto il proletariato."
"Il mio partito è un partito autenticamente popolare, è un grande partito di massa, fatto di gente umile, operai, contadini, impiegati..."
"Tu parli di "gente", noi invece parliamo di "classe", di "lotta di classe" appunto, di "odio di classe"."
"Ma io non riesco a odiare neanche lei. Non credo che l'odio di classe, la lotta di classe sia il motore della Storia. La gente ha paura, vuole vivere in pace. Il mio partito è proprio il partito della tranquillità, della normalità, della carità, del modesto benessere."
Ma torniamo al "sogno". Cosa rappresentano quelle immagini? Il discorso comincia a farsi chiaro: sono i primi passi del cinema russo, che inevitabilmente ritraeva la realtà sociale del tempo, in un neorealismo che spicca per il suo splendore icastico e silenzioso. Alcune persone, un'immagine di Lenin, un tratto ferroviario e una locomotiva che avanza lentamente e infine il volto desolato di una bambina, che assomiglia incredibilmente a Chiara. Perlomeno nella forza sconsolata dello sguardo, quello di chi è stretto, senza averlo desiderato e deciso davvero, nella morsa della Storia.
Scena #8: La classe operaia deve dirigere tutto
E così, nella sua compassata e quasi onirica tranquillità, nel rumore (solo di fondo) inquieto appena percettibile finora emesso, il film decolla. O perlomeno si avvia verso una china inarrestabile, inesorabile, e sempre più grottescamente definita. Le scene centrali del film sono quelle più retoriche, in un senso solo parzialmente deteriore. È qui che forse maggiormente prendiamo le distanze dai nostri protagonisti. Il Processo continua, e si fa sempre più ambiguo: si parla solo tangenzialmente di politica. E il Moro che ne viene fuori è più l'uomo-Moro, che il politico della Dc. Un Moro che secondo un'interpretazione più che discutibile rimase fedele a quel partito che l'avrebbe di lì a poco pubblicamente sconfessato, un Moro che non si piegò al processo.
"... Lei mi chiede di confessare, ma nel sacramento della confessione il pentimento è obbligatorio; ma di cosa mi dovrei pentire? Non sarei credibile, di tutta la mia vita, non sarei credibile. E soprattutto io dovrei confessare dei fatti che lei sembra conoscere, ma che io ignoro. Quindi io dovrei inventare, dovrei mentire per ottenere la sua benevolenza. Lei mi parla continuamente di processi proletari, ma mi spieghi cos'è questa giustizia proletaria, come funziona, quali sono le leggi che la regolano."
"La giustizia proletaria non è la giustizia borghese. Ti voglio ricordare che la giustizia proletaria prevede la pena di morte, senza il ricorso in appello o in cassazione."
"Libertà o morte, diceva qualcuno. Eh, certo non mi potete mica condannare all'ergastolo. Vorrei scrivere a mia moglie. E anche ai miei amici di partito."
Questa, che forse è la scena cruciale del film, è anche la più lugubre. Inizia con un funerale, è in sé la cronaca di una morte annunciata, e termina con una distorta litania da invasamento ideologico. È qui che Bellocchio affronta i temi più spinosi del caso Moro. E cosa di meglio che mostrare? Mostrare i funerali della scorta di Moro, la visione devastante delle famiglie distrutte, gli sguardi seri e contriti dei politici di ogni fede (quelli che la scorta la gettarono direttamente nelle fauci dei massacratori), far sentire le parole del celebrante, violente, contro quegli "sciagurati assassini" per cui è impossibile provare pietà. Ma le parole non devono essere l'unico suono. È qui che ritorna, inaspettato e sempre accennato, l'inquieto tema di Shine. Canzone dal titolo emblematico, "Brilla, tu folle diamante". Ed è quasi inevitabile, forse scontato e vagamente retorico, identificare quel diamante nel drappello brigatista, sempre più strano, sempre più allucinato e incomprensibile. Incomprensibile nelle sue richieste, allusorio nel suo pronunciare una sentenza che pare decisa a priori, senza tener troppo conto che Moro confessi o no. "Ha capito?", "Non lo so se ha capito".
E mentre le immagini del funerale si dissolvono in un'immagine del Cristo crocefisso, vediamo in una posa quasi analoga Raffaella Carrà, assurta chiaramente a simbolo della borghesia nell'ottica del film. È Ernesto che cambia annoiato i canali della tv, interpretato ottimamente da Piergiorgio Bellocchio. È una scena crepuscolare, tranquilla. Un salotto come tanti in quell'Italia democristiana e pacifica che proprio loro vogliono smantellare. La donna che sgrana i fagiolini, l'uomo che dà da mangiare al canarino, Mariano (l'intellettuale di famiglia) che scrive. E parodicamente è proprio lui ad accorgersi del disagio silenzioso di Chiara, non il suo ragazzo legittimo, che fischietta spensierato, più attaccato all'animale che alla sua amata. "Chiara, ma sei stanca?". Nella straordinaria luce fotografica che come sempre la immortala, Chiara appare, in questo triangolo psicologico, un'eroina proletaria da film di Scola. Viene in mente soprattutto la Sophia Loren di "Una giornata particolare". Vestita come se fossero ancora gli anni '20, costretta nel silenzio (nonostante la libertà sessuale degli anni '70) delle mansioni casalinghe da un gruppo di uomini che chiaramente non la capisce, cova in segreto la sua ribellione. Ribellione che, come per l'indimenticabile personaggio di uno dei film più profondi sul Ventennio, non avverrà se non a livello personale. E la Loren era lì davvero una proletaria, ma Chiara cos'è? Per ora, della sua crisi sappiamo solo quel fugace, ma potente sguardo di odio che lancia a Primo.
E qui interviene l'ultimo servizio giornalistico della sera. In un'intervista a Galloni, vicesegretario della Dc, si trova il pretesto per l'ultimo, allucinato fotogramma di una crisi: all'ennesimo appellativo di "volgari assassini" i brigatisti scoppiano. Già Chiara aveva dimostrato un guizzo di vitalità all'apostrofe del sacerdote, come se non si accettassero le normali conseguenze del "mestiere". Come se i brigatisti volessero essere amati, o semplicemente capiti, o meglio rispettati da quell'istituzione che loro vogliono colpire a morte. Come se dentro di sé non riuscissero ad accettare di aver ucciso per la rivoluzione. In una celebre intervista di Zavoli a Mario Moretti (il cui profilo è facile intravedere nel personaggio di Mariano), alla domanda se Moro gli fosse mai mancato da allora, l'ex-dirigente del gruppo rivoluzionario rispose:
"Io non ucciderei mai una persona, mi si creda o no non mi interessa, io non riesco ad immaginarlo. Però questa è stata la mia vita, non posso averne un'altra... e purtroppo non sono neanche un attore."
E forse è da questa mancata sintesi personale, deriva quell'attaccamento, quell'appoggiarsi psicologico alla gloriosa ideologia stalinista con cui si chiude questa scena straordinaria. In quella litania, che ha del mostruoso e del retorico insieme, del "la classe operaia deve dirigere tutto" e in quelle trionfali e geometriche immagini propagandistiche dell'URSS, in quella esplosione di vita, di sicurezza, di grandezza, e infine nel sorriso del grande dittatore Stalin si celebra la figliolanza minorenne di un gruppo che storicamente non ebbe alcun senso, o forse ne ebbe solo teoricamente. Furono forse semplicemente i colonnelli di un esercito che non c'era, di un popolo armato che mai li avrebbe seguiti.
Scena #8: "Io ho già risolto: non sogno più"
Torna Carlo, lo scrittore. Torna Moro. Tornano i servizi al telegiornale. Tornano Chiara ed Ernesto, nella finzione marito e moglie, nella realtà due personaggi accomunati da un grande disagio e da un immenso dolore. Sono scene dimesse, che a volte strappano un sorriso, eppure terribilmente tristi, amare.
Bellocchio è abile nel portare avanti, su due piani differenti, due crisi in atto, due tremende trasformazioni. Quella ufficiale e quella particolare: Moro è disconosciuto dallo Stato e dai partiti ("è da ritenere che la lettera è stata materialmente scritta da Aldo Moro, ma non è moralmente a lui ascrivibile", dirà il premier Andreotti), trattato come un schizofrenico sotto effetto di droghe e coercizione mentale. Chiara continua in quel processo di dissociazione interiore nei confronti della lotta armata, e a lei si aggiunge inaspettatamente Ernesto in un dialogo dalla dolcezza e amarezza inenarrabili. È qui che comincia a farsi strada una rappresentazione simbolica che dominerà per il resto del film: il padre-Moro. Non più solo "il presidente", "l'onorevole", l'emblema della Democrazia Cristiana, l'istituzione politica da processare e condannare. E neanche il padre borghese, quello sposato a Eleonora, con figli e nipoti. Bensì un'entità ideale, contraddittoria, complessa, con cui ogni membro del nucleo deve confrontarsi. Innanzitutto Mariano (Mario Moretti), il più convinto, l'ideologo, il "capo" come lo chiamerà Moro più avanti, nella sua caustica, ma rispettosa ironia. Ed è nel terzo dialogo fra i due che possiamo apprezzare la formazione specificamente teatrale di Roberto Hertlizka, che consacra un Moro che poco ha di cinematografico, di politico, ma molto di shakespeariano, in un solipsismo sfumato, compassato, affidato a pochi elementi di caratterizzazione, eppure decisivi nella loro grande credibilità. Moro, da debole prigioniero con difficoltà respiratorie, diventa sempre più autorevole nel gruppo, sempre più parte di esso, sempre più capace di esercitare un magnetico fascino e carisma su quei, dopotutto giovani, rivoluzionari. E ancora il dialogo fra lui e Mariano partirà da premesse politiche e ideologiche per arrivare al personale:
"Hai paura di morire?"
"Perché me lo chiede?"
"Eppure tu credi nell'Aldilà."
"Anche Cristo nell'orto del Getzemani ha avuto paura."
"Mi ricordo che da bambino ero talmente infervorato dalla religione che speravo di morire per andare in Paradiso il più preso possibile. Che assurdità."
"Lei non ha paura di morire?"
"Ogni uomo un giorno deve morire, ma non tutte le morti hanno lo stesso significato. Io credo che la nostra superiorità consista in questo: noi siamo disposti a morire per le nostre idee, i comunisti sono così."
"Anche i primi martiri cristiani. In fondo la sua è una religione come la mia, anzi è molto più severa; per esempio disprezza il corpo, più di quanto facciamo noi cattolici. Un tempo il Cristianesimo era così, ma ora non più. L'ultima crociata è del 1270, l'ultima strega è stata bruciata in Svizzera, pensi, alla fine del Settecento."
L'impostazione di questo splendido dialogo è squisitamente teatrale. Caratteristica precipua del teatro rispetto al cinema è il concetto di spazio e di tempo. Il teatro ha valore e carattere universale, senza tempo. Ogni spazio è puramente immaginifico, a differenza del cinema dove raramente si è assistito a questa assenza totale di realismo, a questa idealizzazione delle coordinate storico-temporali della storia narrata (viene in mente la suggestiva e allucinata Berlino del "Possession" di Zulawski). Il dialogo fra Moro e Mariano è scenicamente teatrale, ma lo è anche formalmente. Scenicamente per una serie di espedienti tecnici: le musiche e i suoni sinistri che incorniciano e danno risalto ad alcuni momenti critici dello scambio dialogico, la fotografia, la recitazione, l'ambientazione. La sensazione di essere a teatro è forte. Ma anche formalmente è difficile concepire questo come il processo brigatista che effettivamente si svolse. Pare che a Bellocchio interessi più enucleare alcuni tratti psicologici e filosofici universali che potenzialmente possono esistere nello scontrarsi di due personalità storicamente così importanti. Bellocchio è interessato, più che a svelare i retroscena del rapimento Moro, a ravvisare in esso significati esistenziali, letterari. Moro e Mariano non sono solo personaggi storici. Sono anche e soprattutto attori di un dramatis personae che parte dalla Storia per entrare in una storia, per naufragare in un mare che è solamente letterario, nella fattispecie cinematografico. E quella che traspare qui è la prospettiva di uno scontro, l'eterno vecchi e giovani, padri e figli. Moro è, come la sua religione, vecchio e stanco, e forse saggio. Di sicuro pacifico, disarmato, ma, almeno agli occhi dei giovani brigatisti, colpevole. Eppure la sua analisi sulle affinità tra marxismo estremo e Cristianesimo è estremamente lucida e incontrovertibile. Mariano sembra il figlio prodigo, e in effetti lo scopriamo provenire da una famiglia cattolica. Moro è sempre più una figura in trasfigurazione, sempre più iperuranico. Ormai siamo lontanissimi dalla vicenda propriamente politica. Bellocchio è fedele a una poetica dell'invenire, del trovare nel fatto storico qualcosa che agli occhi del cronista, del reporter, e quindi secondariamente del lettore informato, è sfuggito. Nella ricerca del verosimile narrato, lo spettatore scopre in una serendipità consolatrice e onirica nuovi significati rivelatori. Lo stessi atteggiamento di Moro non è quello del "grande statista", della volpe di partito, del politico delle "convergenze parallele"; le parole di Moro sono perfettamente intellegibili, a differenza di quanto accadeva nella realtà, e sono parole riflessive, filosofiche, da soliloquio teatrale. "Libertà o morte, diceva qualcuno". E Mariano è d'altronde sempre più strano. Una figura particolare, quasi l'immagine della follia che animava i brigatisti, il deturpamento più grande dell'ideologia politica, la fedeltà a precetti deliranti e paranoici, che vedono nemici ovunque. Mariano è una figura dolce, ma crudele. Capace di qualsiasi cosa, in grado di passare dalla dolcezza più umana (proprio in questa scena lo vediamo uscire dallo stanzino di Moro, incontrare Chiara e salutarla come un padre saluterebbe una figlia) alla più spietata inflessibilità. E lo stesso Mariano entra in conflitto con la figura paterna morotea, almeno nella prospettiva della Chiara-bambina che osserva dallo spioncino. Questo simbolismo delle figure, questo simbolismo "famigliare" è uno dei punti di forza del film: la casa, protagonista del film, ospita una vera e propria famiglia, i cui rapporti gerarchici sono continuamente sfumati e messi in discussione. I membri leggono "La Sacra Famiglia" di Marx-Engels e non si chiamano tra loro "compagno" come ci si aspetterebbe. Vivono insieme, perseguono un obiettivo comune, si scambiano le gentilezze tipiche di un nido affiatato e interessato al reciproco bene. Ma che famiglia è questa, che tiene il proprio padre incarcerato? Di qui assume un significato nuovo la figura innominata del ragazzo di Chiara (il nome lo sappiamo da internet): in una famiglia l'incesto non è ammesso. I due, che prima si amavano, hanno sublimato il loro in un rapporto fraterno. Ma il vero gemello, la figura speculare e omozigote di Chiara è Ernesto. Basterà un dialogo del genere a misurare la similarità della loro condizione:
"Che c'hai?"
"Perché, si vede che sono incazzato?"
"Sì"
"Mi manca Giulia"
"Si capisce"
"Vorrei fare quelle cose che si fanno normalmente e invece non posso neanche chiamarla al telefono"
"Eh lo sai..."
"Sì sì, lo so. Ma io per lei metterei la mano sul fuoco"
"Ma noi siamo soldati"
"Ma quali soldati! Io neanche l'ho fatto il servizio militare"
"Compagno Ernesto, un po' di entusiasmo rivoluzionario!"
"Sei andata a guardarlo cinque minuti fa! Sembri mia madre col rubinetto del gas!"
"È che devo sempre assicurarmi che ci sia, che non è tutto un sogno. Quando lo vedo mi rassicuro."
"Perché, vorresti che fosse tutto un sogno?"
"Non lo so, una cosa o l'altra"
"Io ho già risolto, non sogno più."
La "brigata-famiglia" è verticistica: i tre fratelli (il ragazzo di Chiara è il maggiore, il figlio modello, addirittura ammesso all'istruttoria del processo) rispondono all'autorità di Mariano, che da fratello è diventato padre. Lo scontro politico diventa generazionale e sociale, nel microcosmo della casa, gerarchico e istituzionale. La distorsione degli equilibri deriva dal fatto che Mariano, da figlio, ha rovesciato il padre costituito, Moro. Da presidente della DC è perfetto per incarnare il padre d'Italia, contro la cui autorità di ribellarono quei gigli della borghesia che erano i brigatisti. Era uno scontro che, mascherandosi da lotta proletaria, si rivela sostanzialmente uno scontro tra borghesi. E non è un caso che Chiara sia orfana. Di chi essere figlia? Si chiede. Da una parte la fede nella lotta di classe, dall'altra la fedeltà a una figura paterna che manca da troppo tempo. E oltre alla fedeltà, la necessità. Contro alla spietatezza del "noi comunisti siamo disposti a morire per le nostre idee" (dalla quale, emblematicamente, Chiara fugge spaventata), si erge la figura consolatoria e rassicurante di Aldo Moro, un uomo caritatevole e saggio, che neanche riesce a odiare i suoi carcerieri. E allora quando Mariano abbandonerà la casa, ingessato in un impermeabile avvocatizio più grande di lui per raggiungere i vertici dell'organizzazione terroristica, sarà da non sottovalutare lo sguardo invisibile della figlia-Chiara.
Ma anche Carlo, uno dei personaggi maschili con cui davvero Chiara si confronta, è importante per questo processo di catarsi. Carlo rappresenta tutto quello che Chiara sarebbe stata se non avesse intrapreso quella difficile strada. E probabilmente sarebbe stato il suo ragazzo, come peraltro fingerà di fare in una scena successiva. Briguglia, uno dei migliori attori italiani emergenti, dona al suo scrittore quell'ironia un po' folle e ingenua tipica di chi è giovane, ma già maturo e libero nel pensare, e di chi forse crede, con umiltà, di cambiare le cose senza la violenza (siamo negli Anni di Piombo, la violenza imperava). Carlo è naturalmente attratto da quella ragazza, così simile a lui, ma così incongruente nei dettagli, così opposta alle sue modalità di pensiero, ma solo a livello di intuizione. Carlo non sa cosa ci sia in questa ragazza di strano, eppure lo avverte. È molto diretto e sincero, al punto che rivela di essere in nuce uno scrittore. Ma la cosa più sconvolgente è che Carlo ha scritto la sceneggiatura che stava leggendo lo stesso Moro, una sceneggiatura che si chiama Buongiorno, Notte . Lo scenario, la prospettiva iper-letteraria del film si radicalizza, rivelando un complesso gioco di scatole cinesi. Se Carlo Passoscuro è sceneggiatore del film di cui è anche co-protagonista, qual è il significato che dobbiamo assegnare all'intera opera e alla vicenda narrata? Si stanno perdendo i legami con la realtà storica, che finora abbiamo creduto essere la matrice informante il film. Può forse venire in aiuto l'imprescindibile opera sciasciana, "L'Affaire Moro"?
La tesi di fondo del pamphlet del '78 è un mea culpa. Dell'autore, degli intellettuali (si ricordi la polemica del nikodemismo, scatenata da Amendola), dell'uomo-Sciascia. Nel tratteggiare un ritratto di Moro e dei brigatisti assai poetico, e assai poco radicato nella realtà storica dei fatti e delle testimonianze, ma piuttosto fondato sull'autorevolezza critica di uno scrittore all'epoca assai influente sul dibattito politico e letterario, il maestro di Racalmuto si interroga sulle responsabilità innanzitutto dello Stato nell'aver, non solo lasciato solo il proprio fedele uomo, ma anche di averne offeso e calpestato la dignità. Tuttavia ben presto il discorso, da lucidamente politico, diventa sempre più letterario. Sulla scorta delle ricerche borgesiane sulla matrice della realtà, l'autore arriva alla consapevolezza di una sua attiva, anzi primaria responsabilità nella follia brigatista. È la realtà politica che informa la vita del romanzo, o è letteraria la matrice che produce la storia? Sciascia sembra tenere davvero in conto la seconda ipotesi. È quella che si chiama "profezia auto-avverantesi", quella che per esempio aveva agito da principio a "Il Contesto" in cui si parlava di stragi di giudici, qualche anno prima che con l'assassinio del procuratore Scaglione nel ‘71 cominciassero davvero. Sciascia vive un dissidio che lo riguarda in primo luogo come scrittore, nell'"allucinazione di aver generato quella realtà", nel rendersi conto di un rovesciamento di rapporti gerarchici, a un livello che riguarda non solo la pagina scritta, bensì la vita di persone innocenti, a partire da Moro.
È questa la posizione di Bellocchio? Se certamente vi si può ravvisare un certo pirandellismo, in questi sei personaggi in cerca d'autore che partono dalla realtà politica per arrivare alla funzione-simbolo di caratteri universali, non si può certo affermare una comunanza di vedute. Va detto che "L'Affaire" fu scritto a caldo, durante quei mesi tragici, e fu pubblicato quando ancora si era nell'occhio del ciclone delle inchieste parlamentari e dei j'accuse politici. "Buongiorno, Notte" può considerarsi una risposta all'Affaire, trent'anni dopo. La vicenda è ancora relegata a una dimensione totalmente letteraria, ma di certo non la si considera matrice della realtà degli Anni di Piombo. L'intento piuttosto sembra quello di passare dall'invenire (di Sciascia) all'inventio, mutuando un termine significativo dalla retorica antica. E "Buongiorno, Notte " è un film profondamente retorico, nel senso migliore della parola. Una film che non si accontenta di introdurre una nuova storia alla Storia già gridata dai documenti e dalle testimonianze processuali, ma che cerca anche di convincere dell'assoluta realtà di questa lettura. È l'opera di un regista dichiaratamente di sinistra, un grande autore che ha sempre fatto del cinema engagé la sua marca stilistica, che si confronta con un fatto doloroso, seppur ormai lontano.
Scena #9: "Sventolando la rossa sua bandiera, vittoriosi e al fin liberi siam"
Una delle scene più significative del film. Non per una particolare ricchezza di contenuti o di risorse tecniche impiegate, quanto piuttosto per il terribile, sanguinoso, irrisolvibile contrasto che mostra. Quello fra i comunisti e i brigatisti. Sotto il vessillo ormai totalizzante della dialettica vecchi-giovani, Bellocchio mostra la fede nei valori della storica sinistra italiana (invero, stalinista?) di un gruppo di attempati parenti di Chiara, e quelli della nuova sinistra, delle Brigate Rosse, che di sinistra hanno ben poco.
Ma ciò che più colpisce di questa scena è la solarità in cui si consuma questo tacito dissidio. Le parole di Carlo profumano di ideali vitalistici, pascoliani, fideistici, quelle del fratello di Chiara rivelano un cinismo di connivenza totale con la strategia di tensione del gruppo rivoluzionario, quelle del parente che tiene il suo piccolo comizio sono ormai cristallizzate e prive di un reale pensiero innovativo, un aspetto tipico della vecchiaia. Sono tutti comunisti, eppure hanno sentimenti, idee, convinzioni completamente opposte. Da un lato l'ingenuità universale di Carlo, un letterato intelligente, ma forse un po' fuori dai giochi, dall'altro la sconcertante presa di posizione dei due fratelli, ricordiamocelo, orfani. E anche il cenacolo di anzianotti partigiani, la cui unica funzione è rimasta quella di commemorare i morti; che siano i genitori di Chiara, o che siano i gloriosi ideali della Liberazione poco cambia. E in mezzo sta la presenza silenziosa di Chiara, della quale con difficoltà cerchiamo di interpretare gli sguardi profondi, per focalizzarne un possibile pensiero, o giudizio sulla scena di desolante tristezza che le si presenta. Il vecchio Charlie risulta grottesco nel suo intonare una marcetta che ben poco ha di liberatorio, e l'altro sembra addirittura disperato nel lasciargli la parola. Quello che Bellocchio ci presenta, in una magnifica giornata di sole, degna di uno spinello sul prato, alla commemorazione dei propri defunti genitori, è un comunismo ormai deragliato. Nella forma distorta della rappresaglia armata, nello scollamento puro degli intellettuali sognatori, nell'imborghesimento ormai inveterato della gloriosa affermazione partigiana degli ideali democratici e libertari. E l'unica che in questo teatrino del buon comunista (che non disdegna di recitare "l'eterno riposo", rivelando la presenza di un'altra ideologia che nella cristallizzazione della formula mostra il suo cancro peggiore, il Cristianesimo) continua a brillare di luce propria (una luce purtroppo così complessa, contraddittoria e sofferente) è Chiara.
Scena #10: Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.
Climax e condanna.
Moro è ritenuto colpevole, è il primo passo del maxi-processo al regime della Dc, quel processo che secondo l'ultimo Pasolini delle "Lettere luterane" era da istruire nei confronti del partito per una serie di capi d'imputazione che andavano dai disastri ecologici, alla rivoluzione antropologica, dalle malversazioni alle collusioni mafiose. Non si è mai capito se le Brigate Rosse furono unanimemente d'accordo nel prendere la fatale decisione, forse l'ala "trattativista" rappresentata dalla Faranda era disposta a trattare anche solo la liberazione di un prigioniero, forse no. Ma il fatto che rimane, sconvolgente e unico, irripetibile e tragico, è che Moro fu condannato a morte.
In una scena che meriterebbe presumibilmente l'attenzione esclusiva del personaggio-Moro, Bellocchio sceglie di soffermarsi sugli inflessibili brigatisti, gli assassini. È il contrario di ciò che fece Kubrick nel suo "Orizzonti di gloria", che aveva toccato i punti più alti dell'indagine estetica sul tema della condanna a morte, almeno nel cinema. Qui il problema sono appunto gli "assassini".
"Ma cos'ha?", chiede Mariano a Chiara. "Non lo so", risponde Chiara sempre più chiusa nel suo ermetismo psicologico.
Il problema è Ernesto. I due figli minori della famiglia brigatista mostrano i segni già conclamati di una crisi e Mariano, un uomo rovinato dall'ideologia, ma non per questo stupido, se ne accorge. Chiara matura il definitivo distacco. Quasi presaga di un terribile e silenzioso sconvolgimento in atto, corre disperata alla cella di Moro e vi trova i due figli maggiori nell'intento di condannare a morte il padre. La cupola brigatista era ben lungi dal non essere gerarchizzata. È quasi come se ci fossero proletari e borghesi anche all'interno dell'organizzazione terroristica che vorrebbe eliminare questa distinzione, a favore esclusivo dei primi.
Nonostante tutto, il viso di Mariano è sfigurato dal dolore e dalla terribile responsabilità che si sta prendendo. Addirittura si racconta che Moro visse fino all'ultimo nell'illusione di essere stato assolto. Anche in via Caetani. È il punto in cui Lo Cascio dimostra di essere l'attore italiano più talentuoso del nostro cinema oggi. Mariano supera il brigatismo cronachistico, giudiziario, storico a cui siamo abituati ed entra in quell'universale letterario di cui matrice di verità è solo la letteratura stessa. La storia di Bellocchio entra in quel mondo fantastico che descriveva Borges nelle sue "Finzioni". E diventa anche uno dei personaggi più belli del cinema di sempre.
Come rappresentare un dissidio? Ci sono molteplici modi. Ma Bellocchio ha scelto il migliore. Esattamente come Sciascia, il regista romano parte dalle splendide e controverse lettere morotee dalla prigione del popolo, uno dei capolavori della letteratura italiana. In una delle lasse dell'Affaire Moro, Sciascia riporta la famosa epistola alla moglie, quella in cui il marito-Moro dà il suo addio alla famiglia. È la lettera più intensa e lirica dell'epistolario moroteo, è breve e condensa tutto ciò che era rimasto da dire a un Moro senza più parole per i suoi "amici" di partito, che lo hanno lasciato solo. Sciascia commentò la lettera osservando un passaggio dal Moro-statista, al Moro-uomo, pirandelliano nell'essere passato dalla forma delle maschere borghesi alla vita vera, quella contraddittoria e complessa, ma forse liberatoria del personaggio novecentesco, ma anche manzoniano nel suo morire lirico, nel suo abbandonare il potere e ricordare i tempi felici in cui ancora non ci si era macchiati le mani con questa sporca realtà della vita. Moro come Vitangelo Moscarda, Moro come Desiderio, il padre di Adelchi. Sono sovra interpretazioni, ma quel che è certo è che ormai Moro ha capito di essere giunto, in un modo "assurdo e incomprensibile", alla "prova conclusiva". E allora, abbandonate le vestigia del politico, Moro è più che mai un uomo di fronte alla morte. E Chiara, attenta lettrice delle lettere dei condannati, si rende conto di essere diventata lo stesso strumento di morte, ideologico e repressivo, che aveva trucidato tutti quei ragazzi solo trent'anni prima. Alla memoria di Chiara affiora l'ultima lettera di dolcissimo amore di un ragazzo qualunque, ormai corpo senza nome, ma di cui rimangono imperiture le sconvolgenti e bellissime parole.
"Amore mio,
domattina all'alba il plotone di esecuzione della Guardia Repubblicana Fascista metterà fine ai miei giorni. Ma ciò che voglio dirti in punto di morte è che tu sei stata il mio primo e solo e unico amore e che, se fossi vissuto, ti avrei chiesta in sposa e ti avrei fatta felice."
Il processo di catarsi arriva al suo zenit e Chiara si scioglie in un pianto che non ha nulla di liberatorio e consolatorio. È la matura e definitiva resipiscenza del personaggio. È una consapevolezza silenziosa e repressa, giocata tutta nell'interiorità dilaniata della protagonista, ma che necessariamente non può avere alcun riscontro pratico nella trama del film. Arriviamo a comprendere il senso di quelle stupende, quanto terribili immagini in bianco e nero di un passato tragico neanche troppo lontano. Tra le tante, si preferisce pensare alla soluzione più banale e bella, quella meno analitica e più romantica. Funzionali alla rappresentazione di una presa di coscienza e di una dissociazione violenta, quelle immagini di condanne a morte sono il sempre-uguale dell'ideologia, la triste litania della morte necessaria di chi non è in sintonia con il sogno dell'omologazione dottrinale. È la vita, nella sua più alta tragicità, che si scontra con le ragioni di un'idea, che sia nera o rossa. È la bellezza e la tenerezza dei sentimenti umani, della fede cristiana più autentica, degli affetti famigliari, di quello spontaneo e dignitoso attaccamento alla propria vita, che vorremmo, tanto, continuare a vivere. È il canto della rima sabiana fiore-amore, la più antica e la più bella, contro la tirannide di ogni meta-narrazione, di ogni dittatura che impedisce la libertà degli amori umani.
E, qui sta la classe di un grande regista, ad accompagnare questa catarsi è la voce straziata di Clare Torry nella celeberrima "The Great Gig in the Sky", l'altro pezzo dei Pink Floyd che accompagna il film. il regista racconta di avere scelto le musiche dei Pink Floyd "perché esemplari del senso di ribellione e disperazione di quegli anni ". È una scelta significativa dal momento che è una canzone pressoché senza testo, è un immenso assolo vocale, straziante e metafisico, dolente, ma liberatorio.
"A ciascuno una mia immensa tenerezza, che passa per le tue mani."
Scena #11: Lei ha figli?
Immediatamente consecutivo al dissidio silenzioso di Chiara avviene quello, ben più rumoroso e violento (quanto episodico), di Ernesto. Il problema è sempre quello: gli affetti. Al rigorismo inumano dei due capi, Ernesto oppone la spontaneità animale dell'amore per la sua ragazza. Nel furibondo scambio verbale tra i due passa esemplarmente tutta la contraddittorietà dell'ideologia interna delle Br:
"È con gente come te che dovremmo fare la rivoluzione? Gente che per forza deve scopare con la fidanzata? Le nostre compagne devono essere Br come noi!"
"Io sono un lupo! Non voglio altre femmine se amo la mia!"
È chiaro che Ernesto, una persona vera, ma plagiata irrimediabilmente dall'ideale della rivoluzione armata, parla un linguaggio diverso da quello dei suoi compagni: l'amore. Le Br aspirano a un mondo che a loro dire sarebbe migliore, ma nel pacchetto completo della lotta allo Stato è compreso il sacrificio di se stessi, la più totale e aberrante disumanizzazione del singolo.
È in questa prospettiva che assume particolare valore l'insolito colloquio che avviene tra Mariano e Moro. Il presidente sembra aver ritrovato la calma e il raziocinio, dopo essersi abbandonato a un dolente pianto disperato, analogo forse a quello di Chiara. Del grande statista democristiano, professore universitario, capo di partito, è rimasto il nonno che scrive al nipote di due anni. E per la prima volta vediamo che le sue argomentazioni incrinano fuggevolmente il muro dottrinario della sicurezza brigatista. Contro questo muro erano rimbalzate tutte le lucide e disincantate verità dell'imputato-Moro, ma ora il processo è finito, Mariano non è più il giudice e Moro non è più l'imputato. La commedia grottesca del potere e della giustizia è finita e ora sono due uomini a confrontarsi. Sono persone che si portano dietro un'identità, una storia, una vita, delle scelte. E la scoperta più eccezionale è venire a sapere che Mariano, da qualche parte, ha un figlio. È padre anche lui, e ora tornano tantissime cose. È un padre che ha rinunciato alla sua paternità, esattamente come è un uomo che ha rinunciato alla sua umanità. E l'intuizione più bella di Bellocchio è che Mariano, sconvolto per il litigio e l'abbandono del figlio-Ernesto, va a cercare consolazione da Moro, qui significativamente presentato nel suo ruolo di padre-di-padre, ovvero di nonno. È qui anche che si occhieggia quello strano e presunto rapporto di solidarietà tra prigioniero e carceriere che traspare persino da alcune lettere di Moro. Si cerca la collaborazione del Santo Padre, affacciata dallo stesso Mariano, non si capisce bene se per parodia o estrema illusione.
È la parte anche più onirica del film, o meglio il punto in cui l'onirismo prende definitivamente il sopravvento sull'ordito reale della trama. E ovviamente ha come protagonisti le due grandi, speculari, vittime dell'intera storia: Chiara e Moro. La resa tecnica è così accurata e raffinata che non distinguiamo più se gli interlocutori di Chiara siano reali o immaginari. E anche qui la scelta musicale è superba, con il Momento Musicale n°3 op. 94 per archi di Franz Schubert, un brano fantasmagorico ed evocativo. La sensazione è quella di un piacevole spaesamento, di un effetto straniante che ricorda quello suggestivamente evocato da Calvino ne "Il Sentiero dei Nidi di Ragno" con il personaggio-bambino di Pim. E in effetti Chiara vive di questa dimensione infantile e mitica, il suo fanciullino la porta a ricreare un universo altro, un meta-mondo dove Moro, il papà che ha perso troppo presto, le chiude il libro lasciato aperto prima di addormentarsi e la contempla silenziosamente e amorosamente durante il sonno. Non è propriamente un sogno quello di Chiara, anche se potrebbe ricordare la concezione greca di sogno, come "apparizione". La grandezza di questo film sta nell'averci regalato, con le pallide, ma intense forze dell'arte, una visione pacificata di quell'immensa tragedia storica che fu il rapimento Moro (e in generale l'azione armata delle Brigate Rosse). Una visione di immensa dolcezza, di cauta e meditata riflessione, completamente disarmata, ma forse per questo, fortissima.
Scena #12: "Pensi che lo ammazzeranno?"
L'ultimo, fondamentale, dialogo tra Chiara e Carlo avviene anch'esso all'insegna dell'onirismo. la fotografia, la musica e i movimenti dei protagonisti e della mdp intervengono espressionisticamente a modificare l'ambiente della biblioteca, che ormai siamo abituati a conoscere. È un luogo che inconsciamente amiamo, per la tranquillità che emana e perché lo associamo allo splendido personaggio di Carlo. Ma qui diventa luogo di tensione, di elettricità, di tempesta in arrivo. E infatti accade che i due abbiano uno strano, quanto suggestivo dialogo che ha il pregio, ma forse il difetto, di chiudere il complesso meta-discorso avviato da Bellocchio fin dalle fasi iniziali del film. Nonostante sia un episodio straordinario, forse pecca di didattismo, laddove si voglia a tutti i costi spiegare con parole ciò che fino a un momento prima si era riusciti a rappresentare perfettamente con risorse squisitamente cinematografiche. È un'operazione leggermente artificiosa, ma d'altronde era anche difficile concludere il complicato rapporto tra i due personaggi, e bisogna ammettere che Bellocchio vi è riuscito egregiamente.
"Pensavo alla lettera che ha scritto Moro alla moglie. Mi ricorda un libro che mi leggeva sempre mio padre: "Lettere dei condannati a morte della Resistenza."
"Moro è ancora vivo. In quel libro i condannati a morte sono stati tutti ammazzati. Ma Moro è ancora vivo."
"Pensi che lo ammazzeranno?"
"Certo se loro non ammazzassero la gente non sarebbero niente. Sono pazzi, e stupidi. Questo mi fa paura."
"Io non ti capisco, anzi mi fai rabbia! Parli dei brigatisti come se fossero dei dementi, ragionieri che si masturbano con PlayBoy e poi vanno in giro ad ammazzare la gente! Ma gli altri non li vedi? Le facce del potere democristiano e tutti i loro servi e la loro ipocrisia!"
"I brigatisti sono peggio, perché gli vogliono imitare! Ma pensa al delirio dei loro comunicati: pensa se gente che scrive così ci dovesse governare."
"Perché tu come scrivi? La tua sceneggiatura è falsa dall'inizio alla fine, assurda, inverosimile! L'immaginazione non ha mai salvato nessuno, la realtà è tutta un'altra cosa."
"Ma l'immaginazione è reale! È reale immaginare che nel gruppo dei sequestratori c'è una donna."
"Come una donna?"
"Sì ho cambiato tutto il finale. Io ho immaginato una ragazza, molto giovane, una che è entrata nella lotta armata non perché si è letta tutto "Il Capitale", un po' una come te."
"Che c'entro io?"
"Una come te, me la sono immaginata un po' come te: giovane, bella, ma che fa di tutto per nasconderlo. Questa ragazza vuole salvare il prigioniero, però non vuole tradire i suoi compagni."
"Ma perché dovrebbe farlo? Come può una terrorista convincersi in meno di due mesi..."
"Ma tu perché vuoi sempre una spiegazione logica? Perché di colpo ha orrore per l'assassinio! Perché non ci crede più! Anzi! Lei si infuria con se stessa per essere stata così cieca, così stupida! Deve fare qualcosa, deve assolutamente farlo per non impazzire."
Tutti i temi, prima inespressi a livello razionale, ma affidati sapientemente al potere del linguaggio visivo, saltano fuori con prepotenza in questo dialogo drammatico e decisivo. Carlo rappresenta lo spaesamento di quegli intellettuali che negli anni '70 si dichiaravano, più o meno esplicitamente, "né con lo Stato né con le Br". Erano personaggi lucidi e disincantati, ma che avvertivano la tragicità della situazione storica e politica di quei giorni e ne soffrivano. Si reagì nei modi più disparati, ma alla fine il punto di vista su cosa siano state le Br espresso da Carlo è la sintesi definitiva di un intellettuale e artista di sinistra come Bellocchio. Eppure Bellocchio non si limita a fornire un resoconto della sua sintesi personale sul fenomeno-Br, e in questo sta l'intrinseca bellezza del film. Bellocchio vuole incidere, vuole creare, ricreare, riscrivere la Storia. E l'operazione, per quanto rischiosa, è perfettamente riuscita. Dove sta lo scarto con Sciascia e il suo "Affaire Moro"? Sta nell'aver tagliato i ponti definitivamente con la politica e lo statuto reale dei fatti storici. Laddove Sciascia vedeva una compromissione di nessi tra letteratura e realtà (politica), ponendosi automaticamente a fautore diretto del secondo momento, con la matrice del primo, Bellocchio rinuncerà a questa operazione (francamente delirante, sebbene affascinante), relegando ogni discorso meta-narrativo nella sfera dell'arte. L'arte, l'invenzione, l'immaginazione sono reali quanto la realtà dei fatti ed è in questo dominio che l'artista di ogni fede politica può spaziare liberamente, reinventando, innestando su fatti storici realmente avvenuti, discorsi diversi, più ampi, più fantasiosi, più incredibili e insospettabili, risvolti insperati e forse liberatori.
Scena #13: "Liberatelo, senza condizioni"
Siamo ormai alle fasi finali. Si cerca Moro in improbabili laghi, si cerca, ma non si vuole trovare. E Moro scrive l'ultima lettera, quella indirizzata al Santo Padre, affinché un'autorità morale sopra le parti si muova per fare l'impossibile.
È una scena felice dal punto di vista inventivo e narrativo, ma è una scena che fa trasparire anche la critica ironica del regista nei confronti del comportamento vergognoso che i due Stati tennero nei confronti del presidente Moro. Bellocchio affida la sua sferzante critica a pochi e nascosti elementi. Questo criticismo è lampante nelle scene ambientate in Vaticano, dove assistiamo a una curiosa rappresentazione teatrale del personaggio religioso.
Al papa Paolo VI infatti, che sta scrivendo pagine e pagine di risposta all'appello moroteo, viene recapitato un bigliettino firmato col marchio della Presidenza del Consiglio dei Ministri recante una curiosa frase di gusto epigrammatico: "semplicemente, senza condizioni". Il papa capisce di non avere diritto di parola e getta via ogni foglio che va a sparpagliarsi al suolo, cancellando definitivamente ogni possibilità di riscatto per il prigioniero. Le suore, serve di un potere eminentemente temporale, si chinano diligentemente e rapidamente per raccogliere gli inutili fogli.
Ma è nella scena immediatamente precedente che Bellocchio dimostra la sua raffinatezza, anche nel campo delle accuse. Moro ha scritto la sua lettera e domanda un parere ai brigatisti, rivolgendosi a loro come se fossero nuovi compagni, amici, consulenti di partito. Sembra il politico che ha appena finito di scrivere un comunicato, un discorso da tenere in Parlamento, oppure un padre di famiglia qualunque che legge ai suoi figli già grandicelli una lettera cruciale a un superiore. Moro è più solo che mai, rispetto alle sue vecchie conoscenze e amicizie. i suoi sequestratori diventano paradossalmente i suoi compagni di lotta, e quelli contro cui si lotta sono coloro che dovrebbero liberarlo. Fatto ben lungi dall'essere accaduto nella realtà, quel che è certo però è che non si fece alcunché per cercare davvero Moro. Figurarsi per farlo rilasciare. Ci sono ancora tantissimi punti oscuri, ma fu la stessa moglie di Moro a denunciare, più che i brigatisti, le autorità interne, la loro inettitudine e i loro tentativi di facciata di liberare il marito.
Nella scena Moro e Chiara per la prima volta s'incontrano davvero. Non si può dire "faccia a faccia" perché è un incontro solamente verbale. Però c'è ed è, nella sua brevità, fortissimo; Moro è, nella sua stanca e consueta ironia, un padre rassegnato. Chiara è invece la figlia combattiva che s'infuria indignata per la sottomissione con cui il suo bene più grande sta affrontando una battaglia per la vita. In questi minuti passa tutta la paternità e la figliolanza dei protagonisti. Più che Moro, sono i brigatisti a luccicare per la loro immensa fragilità. Senza Mariano, sono persi. Ernesto si ritrova a pomiciare con la fidanzata, il ragazzo di Chiara abbandona ogni cautela e si mette a fischiettare in giardino, follemente disperato per la fuga dei canarini (una fuga emblematica), Chiara sembra l'unica ad avere in mano la situazione, sostituendosi quasi inconsapevolmente a Mariano. Ma il suo rinnovato attivismo ha una matrice diversa: Chiara è intenzionata a salvare Moro e la sua rassegnata, fredda e formale lettera al Papa è come sbattere la testa contro il muro della nuda verità.
Scena #14: "Il momento è tragico"
La Casa sta perdendo di importanza. Mariano è assente e con lui l'alienata lucidità rigorista dell'organizzazione. I topi ballano e l'inquieto e sempre più sardonico occhio del regista si avventura in altri luoghi della vicenda, in altri punti della Storia in cui può celarsi o palesarsi la verità. Moro, un fantasma libero e amletico, si aggira irrequieto per la casa, di notte, meditando e sfogliando qualche libro. E allora, in una carrellata memorabile, Bellocchio ci porta in giro per l'Italia, per osservare ciò che il rapimento Moro fu all'esterno e non più all'interno, e lascia a noi spettatori la facoltà di riflettere su queste enigmatiche scene e formulare forse un giudizio.
La prima immagine, la prima parte del focus, ci porta dall'edicolante. Qui assistiamo a un normale dialogo borghese: "Senti posso dirti una cosa? Tuo marito ti tradisce", riferendosi la vicina a Ernesto. Abituati allo stile di Bellocchio, perennemente ammiccante a enigmatiche correlazioni, ci chiediamo cosa possa significare una scena del genere. Probabilmente nulla, o forse riesce proprio a rappresentare quell'Italietta perennemente uguale e civettuola, amante del gossip cinico e sfrontato, figlia dei peggiori anni '50-'60, quelli della televisione e di quei processi mediatici e sociali, nonché antropologici che tanto spaventavano Pasolini. La seconda, in cui Bellocchio mostra tutto il suo virtuosismo, nella climax ascendente e discendente dell'Arresto (che ricorda quelli raccontati da Solženitsyn in "Arcipelago Gulag"), presenta la grande protagonista di questa carrellata, la polizia. Non è difficile riscontrare, nella cattura dell'innocente Carlo e nella salvezza della colpevole Chiara, la critica feroce alle forze di polizia che gestirono in modo imbarazzante e ridicolo i giorni del rapimento: le forze di difesa dispiegate dallo Stato in quei giorni furono ingenti, ma non valsero a nulla. Ma ciò che soprattutto fu scandaloso fu la quantità assurda di arresti, la cattura e il fermo di massa di sospettati assolutamente innocenti che l'Italia vide in quei mesi di grande tensione. Carlo, scrittore pacifista, ma di sinistra, rappresenta le vittime simboliche di uno Stato fantoccio che si divertì ad arrestare senza presunzione di innocenza migliaia di persone comuni, ma che non fece nulla di quello che realmente si doveva fare: cercare Aldo Moro, trovarlo e sbattere in carcere i sequestratori, solo loro. Magistrale l'ultima immagine, fatta di due fogli di giornale che svolazzano giù per la tromba delle scale, nel più completo e simbolico abbandono. È la Repubblica che si rivolta contro i suoi giovani, i suoi intellettuali, i suoi uomini di pace e cultura. È la Repubblica che uccide se stessa.
Ed è un maresciallo dei carabinieri uno dei tanti partecipanti della folkloristica seduta spiritica che a Bologna si tenne nei salotti annoiati e conniventi dell'alta borghesia (vi partecipò anche Romano Prodi), da cui spuntò fuori il famoso nome di "Gradoli" che voleva indicare una via romana in cui si nascondeva un covo brigatista, ma che fu dalla polizia "confuso" con un borgo del viterbese che si ritrovò all'improvviso nell'occhio del ciclone, completamente invaso e assediato dall'esercito, completamente saccheggiato. La seduta spiritica è forse il punto in cui Bellocchio osa di più: chi non fosse informato con precisione dei fatti di quei mesi potrebbe confondere ciò che avvenne realmente con le fantasie di un regista che ha già dimostrato parecchia immaginazione. Ma in effetti la sua ricostruzione è splendida, in un gioco di luci da burlesque, che ricorda il miglior Fellini decadente. Il richiamo finale alla "luna" riecheggia alcuni noti passi del Furioso di Ariosto e apre a scenari sempre più ultramondani. Chiudendo questo splendido quadrato di immagini salienti, il regista si butta a capofitto nello sperimentalismo più visionario, dimostrando un autentico talento da simbolista. Mai come ora si fa sempre più visibile l'eredità felliniana, la fedeltà al grande principio del "mostro, non dimostro". Il messaggio del regista è chiaro: si cercò davvero Moro? I carabinieri che in massa stanno proprio dietro la porta del covo brigatista, chiacchierando amabilmente, non possono che darci una risposta che ha la forza sconcertante dell'immagine. Ma Bellocchio non corre il rischio del didascalismo e sta piuttosto allo spettatore informarsi altrove sulle negligenze di quei giorni.
Scena #15: Brilla, pazzo diamante! (un epilogo)
L'ultima scena di questo capolavoro assoluto del cinema italiano e mondiale è una scena di sguardi. Accadono tante cose senza dubbio, ma quello che ci fa gridare al miracolo è la sapienza magistrale con cui Bellocchio ordisce una trama di sguardi che da soli significano un film intero. In realtà "Buongiorno, Notte" per quello che rappresenta, per il messaggio e la storia che racconta può essere perfettamente riassunto in questi ultimi intensi minuti. Potrebbe fungere persino da trailer se ciò non contravvenisse alle leggi della fruizione estetica moderna (dico "moderna" perché nell'antichità avveniva il contrario: tutti sapevano la storia a menadito, mentre era la variazione sul tema, soprattutto a livello linguistico, che importava). Eppure tutti sappiamo come sia finita questa storia. Certo forse i particolari osceni non sono ai più noti, per esempio (ed è la scena finale, ironica, ma anche maestosa) che, in ossequio al testamento (letterario) moroteo, non furono fatti i funerali di Stato per Moro, i quali avvennero in forma del tutto privata, ma fu comunque indetta una cerimonia in San Giovanni in Laterano a cui presenziarono tutti i politici (e ovviamente il Pontefice) che Moro tanto aveva vituperato nella fase finale della sua prigionia. Si poneva quindi per Bellocchio il problema di un doppio finale: uno, noto e antico, doloroso e inguardabile; un altro invece misterioso e incomprensibile, di profondo valore simbolico e specificamente artistico.
Come tutte le notti prima di un tragico epilogo, soprattutto un epilogo consapevole, la situazione è pessima. E lo è in questa terribile notte brigatista, in cui vediamo affrontarsi i due schieramenti che si sono lentamente, ma con la "precisione casuale" di un orologio impazzito, formati durante tutto il film; le verità che Moro e i suoi due figli minori sputano in faccia ("Vaffanculo! Faccio quello che dici tu, ma è l'ultima volta, poi non mi vedi più!") agli altri due sono inutili, anche se fanno male.
È proprio ciò che succede in queste drammatiche scene conclusive. E, come si diceva, è il trionfo degli sguardi, perché le parole sono ormai inutili. Il linguaggio è affidato alla scrittura, alle lettere, quelle ultime parodiche lettere che Mariano chiede a Moro di scrivere "per fargli passare il tempo", ma anche ai messaggi nascosti ("non mangiare") che Chiara invia al prigioniero. Eppure di parole ce ne sono ancora, pesanti e definitive, in quell'intelligente processo, perdurante da ormai due ore, con cui, in un crescendo di acrimonia, il regista smonta e smantella alla radice la follia dell'ideologia proletaria:
"Ma non lo capite che diventerò un martire? L'idiota di cui si serviranno per annientarvi? Quando la televisione – non ci vuole molto a capirlo! – i giornali mostreranno le foto del mio cadavere la gente non potrà capire! Vi odierà!"
E Chiara, che vuole difendere suo padre fino all'ultimo, lancia il suo unico e micidiale (anche se ovviamente inutile) attacco contro le perversioni omicide di Mariano e della cupola brigatista:
"Ma se anche il Papa si è inginocchiato! Ancora non vi basta? Perché no? Ha fatto impressione anche a tanti compagni..."
"Ma hai letto bene? Tanta disponibilità, ma sempre senza condizioni, è una presa per il culo! Chiara, non ci vogliono riconoscere."
"Ma perché dovrebbero riconoscervi se voi non riconoscete loro?"
"Dici "voi"? Non sei anche tu dei nostri?"
"Sì, ma non capisco perché dobbiamo ucciderlo. Niente mi convince che sia giusto farlo, posso dirlo?"
"Chiara questa è la prova per noi che non devono esserci limiti umanitari nella guerra rivoluzionaria. Non esiste un'azione che non si può fare, per la vittoria del proletariato è lecito uccidere anche la propria madre. Quello che oggi sembra inconcepibile, assurdo, disumano, è in realtà un atto eroico di supremo annullamento della nostra realtà soggettiva: il massimo dell'umanità! Noi dobbiamo ragionare così. Infatti sono tutti d'accordo, i compagni di base, la direzione, tutti d'accordo..."
"Ma tutti chi!? Siamo noi che da quasi due mesi viviamo con lui, nella stessa casa, nella stessa prigione. Solo noi abbiamo il diritto di decidere!"
Ma è negli sguardi che si gioca lo smantellamento totale di quell'insensato (o in una certa logica di potere, sensatissimo) omicidio che fu il caso Moro. Chiara si chiude in un mutismo atroce che niente dice, ma tutto rivela. L'eccellenza istrionica di Maya Sansa (attrice fenomenale che purtroppo si vede poco sugli schermi) raggiunge il culmine nel suo educato, ma maligno e sprezzante sorriso rivolto a un Mariano completamente perso e stravolto, forse consapevole della totale assurdità della sua vita e delle sue azioni.
"Non saremo più degli eroi, ma degli assassini."
Chiara attua, silenziosamente, un piano folle. Eppure non sembra volerlo del tutto. Ma soprattutto (forse è qui l'unica lacuna strutturale del film) a chi è diretto il piatto avvelenato? Lo sguardo preoccupato che lancia al suo ragazzo quando sceglie di mangiare la minestra avvelenata sembrerebbe escluderlo dalla lista dei bersagli. A Mariano? A Ernesto? Ma è davvero reale quel piatto di minestra?
L'ipotesi più plausibile sembra a questo punto quella per cui nulla di ciò che riguarda Chiara e le sue azioni in queste fasi terminali del film sia reale e che quindi appartenga a quella finzione di cui si è parlato a partire dal colloquio con Carlo e che quindi in definitiva sia questo uno dei due finali della storia. Ma l'empasse ermeneutica si ha quando addirittura nella finzione le azioni di Chiara diventano irreali; in sostanza che vi sia una finzione della finzione, una meta-finzione. Questo costituisce un problema per la comprensibilità della sceneggiatura. Non c'è infatti alcun morto quando i tre uomini conducono fuori un Moro bendato, prossimo all'esecuzione, ossia quando assistiamo al finale vero della Storia e del nostro film.
Eppure la parabola della micro-storia di Chiara è per noi la più commuovente, affascinante e misteriosa. La ragazza, nella casa in penombra, apre i chiavistelli della porticina che separa Moro dalla libertà. E Moro, dopo aver atteso che tutti si siano addormentati, se ne va, senza fretta, mettendosi il paltò, senza salutare nessuno. È un fantasma, un'eminenza del passato. E come in una cerimonia spiritica lo spirito è finalmente libero di andarsene libero verso altri mondi. Ma Moro appartiene alla Storia, all'Italia e quindi questi altri mondi diventano una strada qualunque di Roma, nel grigio mattino di un passeggiare solitario e pensoso. Rievoca quella bella quanto inquietante immagine che Sciascia regalò in chiusura del suo libello, quella di un Moro i cui passi echeggiano soli nelle stanze vuote del Palazzo del potere. Bellocchio ha scelto di eliminare ogni raffronto con la politica e ci ha donato alcuni fra i fotogrammi più suggestivi e romantici che il cinema italiano possa vantare. Lo sguardo finale è del grande attore Roberto Herlitzka, che ha saputo incarnare un personaggio indimenticabile. Uno sguardo sereno, enigmatico, liberatorio. forse uno sguardo che più riassume l'ultima verità del caso Moro, di tutta la storia di quegli anni, di tutti la storia di questo Paese. Moro fu lasciato solo. Sarebbe bello che ogni spettatore si chiedesse qui, nella chiusura di questo lavoro critico e di questo film, dove se ne stia andando quel fantasma del nostro recente passato, e dove stia andando anche questa nazione, destinata forse, per dirla ancora con Pasolini, "a più enigmatiche correlazioni", che forse significa solo a una storia sempre più assurda.
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Recensione a cura di Terry Malloy - aggiornata al 05/09/2012 16.02.00
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