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C'è un momento davvero magico, nel film di Scola, quando tre dei più grandi attori scomparsi del nostro cinema partecipano ai provini del famigerato "Casanova", offrendo ciascuno la propria versione sulla figura del nobile veneziano. Ora vaga, goffa, eccessiva, teatrale, confusa o semplicemente utopica.
Ugo Tognazzi dichiara già la sua sconfitta per le differenze d'altezza con il "vero" Casanova, Alberto Sordi punta sull'effetto grottesco da grande schermo - citando a modo suo il "suo" Nerone e magari pensando al futuro Marchese Del Grillo - e Vittorio Gassman, istrionico più che mai, libera la sua maschera ammettendo che forse il personaggio è troppo accomodante e "romantico" per lui. La libertà di scelta, ovviamente, a Federico Fellini che scelse per il suddetto ruolo un'inquietante, ambiguo Donald Sutherland.
E' come assistere alla tardiva celebrazione (riesumazione?) di tre grandi artisti scomparsi, con l'aggiunta obbligatoria di un grande cineasta. Non è come credere di vedere la morte di un certo cinema Italiano?
A ricordare la figura di Fellini è facile cadere nella trappola agiografica di un Cinema che ha trionfato nel sogno ed altro ancora (Micheal Gondry, David Lynch? Che ne avrebbe pensato il regista italiano?), di personaggi-caricatura che fanno perno a un immaginario che soddisfa il ludismo della finzione scenica cinematografica. E proprio per questa sua caratteristica è evidente che la mise in scena, contrariamente a quanto dicono in giro, sia proprio tutto ciò che ci si aspetta e, aggiungiamo, più di quanto siamo disposti a sopportare.
Ma questi uomini seduti in riva al mare, come davanti a un paesaggio verista, cosa possono dirci come riflessione anche critica del cinema di Fellini, salvo celebrare il Maestro in un trionfo di manierismo che sembra sfuggire davanti agli entusiasmi della critica nostrana o degli spettatori della Mostra del Cinema di Venezia?
Gli applausi del Presidente della Repubblica fanno pensare quanto sia consolidata la tradizione che ostenta l'omologazione culturale sul valore indiscusso dei nostri Miti, come se fossimo davanti a Dei inavvicinabili e per questo compianti in eterno (e si fa lo stesso con Pasolini, dopo tutto il fango che è stato gettato addosso al regista-poeta friulano... siamo messi male).
E così l'ossessione del Casanova rivisto e corretto fuori dai canoni ordinari proprio da Fellini (tra Schnitzler e affini, ma creando lasua opera più intima e personale) ci sembra uno dei rari momenti autentici di un film-tributo che incorre, guardac aso, in tediosi asservimenti ("Ha fatto sognare milioni e milioni di spettatori di tutto il mondo", che novità) e che non esce quasi mai dai binari della sviolinata truccata vagamente da elucubrazione visiva.
Se il film riesce in parte a catturare l'arte visiva del cinema di F.F., ciò si deve principalmente alla facilità della rappresentazione esplicita del suo cinema. Non devono mai mancare soubrette e ballerine formose o "poppute", illusionisti e clown, mimi e tantomeno un "sosia" del maestro che si aggira di spalle con l'immancabile sciarpa (rossa) e un voluminoso cappello. L'effetto non si discosta poi tanto da quello di un vecchio varietà televisivo di Antonello Falqui, autore sempre molto vicino alle esperienze della Rivista Italiana degli anni 40’ e 50’. Un effetto che nei primi fotogrammi in b/n sembra ricondursi al chiassoso carosello in celluloide di "Nitrato d'argento", ultima e sopravvalutata prova registica di Marco Ferreri.
E' la parte biografica, romanzata in maniera francamente monocorde, ad attirare l'attenzione nella prima parte, con il giovane Federico che muove i primi passi nella redazione del giornale satirico "Marc'Aurelio", in compagnia di altre "penne" dal futuro roseo come Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Age e Scarpelli, Steno (Stefano Vanzina).
E' il Fellini vignettista che, come suggerisce il film, non ha mai dimenticato le sue origini (il recente Viaggio di G. Mastorna). E' il Fellini che lavora all'EIAR, e che collabora già a 19 anni ai dialoghi e alle sceneggiature di alcuni film di Erminio Macario.
Questa sorprendente (?) boutade paratelevisiva di Scola in realtà è piena di inesattezze: sulla data del film "L'amore" di Rossellini, per esempio, che è del 1948 e non del 1950, sulle - pur rarissime - prove attoriali ("Il mondo di Alex", di Mazursky).
Ma il tutto è anche piuttosto affettato, come la limitata libertà d'espressione in anni ancora dominati dall'ideologia fascista. Un sogno senza rimpianti, ne siamo poi certi? Non scherziamo, anche perché sotto le righe si sente pure una celata invidia di Scola per un talento tanto diverso dal suo. E' un modo comodo e rassicurante di raccontare un regista senza alcun ripensamento storico, filosofico e culturale sulla sua opera.
Non ne aveva certo l'intenzione ma chiudersi nell'ammirazione sconfinata di un'Italia che reclama i suoi Miti del passato, non è detto che sia la strada giusta da percorrere. Siamo così davanti alla retorica consapevolezza che dobbiamo ringraziare per tutta la vita, che richiama guarda caso alla sottomissione recidiva e meschina dei personaggi di Alberto Sordi, lanciato proprio da Fellini. O magari lasciato successivamente in balìa delle molte maschere Italiche sempre più diverse dal circo equestre umano ed esistenziale dello stesso regista - "Egli danza, egli... danza" (Orson Welles, "La ricotta", 1963, Pier Paolo Pasolini).
Il "ritratto" sembra sempre più assecondare il bisogno di Scola di dare voce ai morti, creando persino l'illusione che gli addii possano anche sopravvivere (vedi epilogo), mentre l'Artista "danza" davvero con la vita e la morte. Si possono così esaurire fotogrammi che ovviamente restano indimenticabili, "rubati" al baule dei ricordi, plastici e avveniristici, dogmatici assoluti di un'Italia in genuflessa ammirazione.
Lode al Maestro e alla nostra ludica morte.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 20/09/2013 16.19.00
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