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Nell'immaginario collettivo la parola Siberia evoca l'immagine di una landa disabitata, ostile ed inospitale. Soprattutto è sinonimo di luogo dannato e terribile, dove finivano i perseguitati politici o i malviventi, senza più fare ritorno. Eppure per qualcuno la Siberia ha rappresentato la rinascita, il ritorno alla fiducia nell'attività umana e nel valore della vita. Quel qualcuno non è altri che il regista Akira Kurosawa.
Essere artisti onorati e famosi, autori di splendide opere d'arte, non significa poi più di tanto nell'ambiente cinematografico. Se per caso un regista famoso incappa in un insuccesso, allora tutto il mondo gli si rivolta contro, gli si crea il vuoto intorno, nessuno vuole più rischiare soldi per qualcuno considerato in decadenza o "perdente". Ed è quello che successe a Kurosawa nel 1970, all'indomani del grande insuccesso del film "Dodes'ka Den", su cui aveva investito in pratica tutti i suoi averi e le sue mire artistiche.
Ritrovarsi all'improvviso incompreso, fuori dal giro, quasi abbandonato e inutile, deve essere stato uno shock terribile per una persona così sensibile e che aveva fatto dell'arte cinematografica tutta la propria vita. Nel 1970 i giornali di mezzo mondo pubblicarono attoniti la notizia che il grande maestro giapponese aveva addirittura tentato il suicidio.
Fu lo smarrimento di un attimo. Come Kambei (l'anziano samurai disoccupato de "I sette samurai") non si perse d'animo se non poteva più operare in ambienti alti e nobili e accettò volentieri di donare i propri servigi anche a chi era considerato di scarso valore e tenuto da parte. L'offerta da parte del regista russo Gerassimov di girare un film in Unione Sovietica (considerata agli inizi degli anni '70 una provincia secondaria e arretrata della cinematografia mondiale) fu quindi accettata con entusiasmo.
Kurosawa è sempre stato legato alla cultura russa. Fu uno dei pochi che ebbe il coraggio di portare sullo schermo i romanzi di Dostojevskij. Non fu difficile per lui trovare il soggetto adatto per questa sua "avventura" fuori del Giappone. Si ricordò di avere letto con entusiasmo da piccolo i resoconti delle perlustrazioni dell'esploratore russo Arseniev nella selvaggia e sconosciuta taiga siberiana. Più che racconti freddi e asettici erano delle descrizioni ammirate e partecipi della maestosità e della bellezza inquietante di quelle terre vergini. Arseniev rimase colpito soprattutto dal rapporto positivo e rispettoso che avevano gli abitanti di quelle zone con la natura, così ostile e inospitale. Gli rimase impresso soprattutto un anziano e umile cacciatore, chiamato Dersu Uzala (pronunciato con l'accento sull'ultima sillaba); un indigeno che presto diventò per lui una guida insostituibile e soprattutto un maestro di etica umana e di rispetto per la natura. La loro divenne una stretta e profonda amicizia, al punto da salvarsi reciprocamente la vita.
Il film di Kurosawa mantiene intatto ed esalta lo spirito degli scritti di Arseniev. I veri protagonisti sono infatti la Natura e l'Amicizia. E' un film anche sul valore e sul dovere della Memoria, del tramandare ai posteri il ricordo e le esperienze di chi ha già provato la vita e il mondo e che può così insegnare qualcosa ai nuovi arrivati.
Ritorna quindi anche in questo film il tema fondamentale di molte opere di Kurosawa: il rapporto umano fra un giovane entusiasta ed energico e un maestro saggio ed esperto.
Dal punto di vista formale "Dersu Uzala" può essere assimilato al genere western. Descrive infatti le avventure di un gruppo di persone "civilizzate" in un ambiente naturale ostile. E' grosso modo strutturato in episodi contenuti all'interno del flashback di Arseniev, in visita a quel resta della tomba del suo amico. La voce narrante di Arseniev fa da introduzione ai vari episodi del racconto.
Prima di tutto viene presentato l'ambiente in cui si svolge il film, cioè la taiga. Ciò che salta agli occhi è l'onnipresenza inconstrata della natura in ogni immagine. In tutto il film i primi piani si contano sulle dita di una mano. Dominano i piani lunghi o medi. Tutto è incorniciato o inframezzato dalla natura (alberi, acqua, neve, gelo, fuoco, buio, ecc.). La natura non è mai inquadrata in maniera spettacolare o panoramica (come nei film di Ford) ma sempre nei suoi aspetti umili o generici; nondimeno è resa misteriosa, inquietante e quasi animata dall'arte di Kurosawa.
In quest'atmosfera suggestiva avviene l'incontro casuale con Dersu Uzala, e veramente non c'è presentazione di "eroe" più prosaica e anticonvenzionale di quella fatta per questo piccolo indigeno cacciatore. Vediamo infatti avanzare dalle tenebre un ometto minuto che cammina dinoccolato con le sue gambette arcuate. Sembra più uno gnomo che un essere umano. Bisogna dare atto a Maksim Munzuk (tra l'altro una persona colta e istruita, era un musicologo) di avere reso Dersu Uzala in maniera assolutamente convincente e caratteristica.
In maniera umile e modesta dimostra ai "civilizzati" e istruiti russi che lui, indigeno e ignorante, ne sa infinitamente più di loro su come vivere e sopravvivere nella taiga. La prima cosa che insegna loro è la considerazione e il rispetto. Per Dersu ogni oggetto è come se fosse animato, come se fosse un essere umano e come tale deve essere trattato. Poi trasmette il valore dell'altruismo e dell'aiuto reciproco. Nessuno è estraneo in questo mondo e occorre preoccuparsi anche di chi non conosciamo o di chi verrà dopo di noi.
L'intelligenza e il valore umano di Dersu vengono mostrati soprattutto nello splendido episodio del lago ghiacciato, un episodio molto bello e formalmente perfetto su cui vale la pena soffermarsi.
Dersu e Arseniev decidono di avventurarsi da soli nell'esplorazione di un grande lago ghiacciato. Presto però si ritrovano sperduti, per giunta in mezzo ad una tempesta di vento mentre sta per fare buio. Il rischio imminente è quello di morire assiderati.
L'episodio inizia con splendidi campi lunghi e panoramiche sulla distesa immensa e infinita di ghiacchi e canne secche, illuminata da una luce tersa e cristallina, quasi irreale. Le inquadrature si susseguono varie ma uguali, a ritmo lento e monotono, rendendo perfettamente l'idea della dilatazione del tempo, come pure l'inquietudine crescente e la sensazione di piccolezza e minaccia incombente.
Una volta realizzato il grave pericolo, il ritmo della scena diventa frenetico, trasmettendo l'idea di urgenza e contrazione del tempo. La tensione sale alle stelle mentre assistiamo allo sforzo immane e sfinente di Dersu e Arseniev per salvarsi la vita.
L'idea ingegnosa di Dersu di costruire un riparo con le canne secche ha così successo. Arseniev lo ringrazia di cuore e Dersu risponde così: "Insieme si va, insieme si lavora, non serve grazie".
Dopo questo episodio molto drammatico, il film perde un po' di ritmo nella parte centrale.
Arseniev e Dersu si separano con molto calore e si ritrovano di nuovo casualmente nella taiga 5 anni dopo, ripartendo insieme per nuove esplorazioni. Il primo episodio della seconda parte è quello che riguarda le razzie della popolazione dei Kunkhusi e serve per dimostrare che anche in natura non tutto è rose e fiori ed esiste la cattiveria e lo sfruttamento. Questo episodio è stato completamente tagliato nella versione italiana.
Segue poi l'episodio avventuroso e drammatico della zattera in cui Arseniev ricambia il favore, salvando la vita a Dersu.
Tutta l'ultima parte del film descrive la decadenza di Dersu. Depresso per avere ucciso una tigre (per lui rappresenterebbe "Amba", la personificazione dello spirito della taiga che come un demone perseguita chi la uccide), riceve il colpo finale dalla constatazione che fisicamente non è più in grado di sopravvivere nell'ambiente difficilissimo della taiga.
Accetta perciò di vivere nella casa cittadina di Arseniev, ma per lui è come essere un pesce fuori dell'acqua: non può accendere fuochi, non può tagliare alberi, non può costruire capanne, non può sparare. L'episodio della vita in città serve a farci capire quanto il vivere civilizzato sia innaturale, coercitivo e quasi oppressivo.
Non resta a Dersu che tornarsene nella propria taiga, dove guarda caso perde la vita non per cause naturali ma per essersi portato dietro un oggetto dalla "civiltà" (un prezioso fucile di precisione).
Un film formalmente semplice, appassionante, visivamente sublime, dal messaggio così coinvolgente e attuale, non poteva non entusiasmare le platee di mezzo mondo. Così per fortuna è stato. Ha anche vinto nel 1976 l'Oscar come miglior film straniero, rilanciando in pieno le quotazioni commerciali di Kurosawa, il quale trovò così negli Stati Uniti i fondi per continuare a girare i capolavori della vecchiaia.
La singolarità di "Dersu Uzala" è il fatto che è l'unica opera in tutta la filmografia di Kurosawa che non si svolge in Giappone e che non ha attori giapponesi. Inoltre il fatto che sia considerato quasi unanimemente un capolavoro dimostra l'universalità dell'arte di Kurosawa, il valore assoluto, senza luogo e senza tempo, dei temi dei suoi film.
Questo in particolare dovrebbe fare parte delle opere d'arte da conservare di fronte ad una eventuale distruzione dell'attuale civiltà umana, per poter idealmente trasmettere i valori su cui ricostruire un nuovo futuro modo di vivere.
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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 25/08/2010 18.01.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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