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Giuseppe Di Noi, un geometra italiano residente in Svezia con la bella moglie, torna con la consorte in Italia ma viene fermato al confine ed incarcerato senza sapere il motivo, per una denuncia di cui era all'oscuro. La moglie, abbandonata con i figli al posto di frontiera, comincia ad indagare e chiedere spiegazione dell'arresto del marito.
Finalmente si riesce ad apprendere, dopo tante difficoltà, la motivazione dell'arresto: omicidio preterintenzionale di un cittadino tedesco. Intanto l'uomo passa nell'inferno del mondo carcerario, da Regina Coeli a Sagunto (provincia di Salerno), denunciando disperatamente la sua innocenza ed "estraneità ai fatti". Riesce a dominarsi soltanto grazie all'amicizia di un detenuto condannato per omicidio colposo, Saverio Bardarscione, che gli consiglia di non agitarsi inutilmente ("Niente è mai semplice quando si ha a che fare con la giustizia.") .Intanto Giuseppe tenta inutilmente di parlare con il giudice, e capisce che deve procurarsi un avvocato. Diventa suo malgrado protagonista di una ribellione carceraria che genera poche ore dopo in una rivolta. Ritenuto diretto responsabile della rabbia dei detenuti, viene nuovamente trasferito in un carcere di massima sicurezza, con detenuti violenti e recidivi, dove vive in un clima di perenne violenza, ma riesce finalmente a provare la sua innocenza...
Ispirato all'inchiesta televisiva "Verso il carcere" di Sanna, e sceneggiato dallo stesso Emilio Sanna e Sergio Amidei, con la collaborazione di Rodolfo Sonego, "Detenuto in attesa di giudizio" è uno dei più corrosivi film di denuncia italiani mai realizzati. Uno script che è figlio legittimo del cinema di Zampa, di Rosi, del fin troppo dimenticato Elio Petri, al quale si accosta con un'apporto ideologico forse meno evidente, ma più razionale.
Ancora oggi, a distanza di decenni, il film è in grado di scatenari ampi dibattiti sulla funzione della "giustizia", sia guardando al passato relativamente recente che rappresenta, sia riflettendo sulle reazioni dello spettatore di oggi, come per esempio la discussa legge sull'indulto approvata dalle Camere con l'ausilio del Ministro della Giustizia (Art. 174 dell'Ordinamento Italiano del Codice Penale).
Con lo stesso indulto, del resto, non si cancella il reato, ma la pena, costringendo lo stato a sborsare ingenti somme per i processi a carico dell'imputato, a differenza dell'amnistia, mediante la quale lo stesso stato rinuncia a perseguire determinati reati, estinguendoli in capo al reo.
Tutto questo potrebbe non c'entrare nulla con il film, ma la storia di Giuseppe Di Noi non può far altro che ricordare decine di casi celebri, come quello del giornalista di Lotta Continua Massimo Carlotto, condonato dopo molti anni dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Lo stesso indulto, atto di clemenza di ispirazione politica e sociale, oggi è diventato un atto impellente per sopperire allo sfoltimento della popolazione carceraria degli ultimi anni, sovrappopolata in modo preoccupante, quasi un correttivo alle disfunzioni della legge penale.
E' chiaro che il film di Loy racconta la storia di un cittadino ingiustamente incarcerato per omicidio preterintenzionale e non affronta quei temi che appassionano e dividono gli italiani di oggi, ma per ovvie ragioni la storia del film rimanda inconsciamente a interrogarci sul nostro rapporto indiretto col mondo della detenzione e della giustizia.
Dovendo analizzare il film per i suoi aspetti meno riusciti, direi che non tutto è focalizzato efficacemente in alcuni aspetti, e in altri la direzione registica di Loy enfatizza proprio la dimensione bozzettistica della vicenda.
Lo stesso personaggio della bellissima moglie di Giuseppe è analizzato banalmente, secondo lo stereotipo corrente dell'Italia nei riguardi delle donne nordiche di allora (o di oggi?). Non è - effettivamente - abbastanza complessa la sua figura rispetto all'odissea del marito, sembra confusa tra l'incomunicabilità con la lingua italiana e lo smarrimento (del resto comprensibile) del reato di cui l'uomo viene accusato.
Altrettanto carente resta l'imputazione: dovessimo guardare il film con gli occhi di oggi, con i tanti "incidenti" provocati sul lavoro, probabilmente il personaggio di Giuseppe non uscirebbe indenne dal nostro criterio di giudizio rispetto all'indiretta responsabilità della morte di un cittadino tedesco.
Ma, a ben vedere, proprio quest'ultimo aspetto è anche uno dei riferimenti più interessanti del film: è il riferimento alle ferite morali lasciate dall'Italia della seconda guerra mondiale, nella deportazione fascista e nazista, di cui il personaggio di un inerme cittadino tedesco dal nome impronunciabile serve da monito, e da tragica memoria.
Le sequenze dei treni che "deportano" i prigionieri da un carcere all'altro restano di una drammaticità coinvolgente: memorabile la sequenza dell'arrivo in un treno superaffollato pieno di gente spensierata che si accinge a insultare i detenuti con cori di condanna giustizialista: in quel frammento, oserei dire, è racchiusa un po' della nostra immagine anche contemporanea nei riguardi dei detenuti e del nostro spesso pragmatico modo di assimilare condanna e detenzione.
Nello stesso scompartimento, è emblematico il "miraggio morale" di un finestrino con le serrande abbassate, l'unico, quello del compartimento che "ospita" i prigionieri.
Nonostante alcuni scompensi narrativi e una certa inconscia propensione parodistica (cfr. il poliziotto che guarda con ghigno sardonico i detenuti all'interno delle celle) il film è durissimo, coraggioso e inesorabile (quasi) come la via crucis di Giuseppe e la drammatica realtà che lo coinvolge.
Forse potrà sfuggire ai più, ma la sequenza della rivolta carceraria sottolinea ancora una volta i diritti negati della giustizia, e senza eccessivi fideismi di parte, riesce a coinvolgere direttamente lo spettatore davanti alle responsabilità delle singole parti, o all'impotenza del sistema giudiziario: i prigionieri reclamano a ragione i loro diritti, le guardie ostentano un cinismo o un'insofferenza che è spesso rea di una società individualista, arresa alla burocrazia e all'apologia del Reato come "privazione", senza riflettere sulle conseguenze della detenzione e l'annientamento morale di tutti gli individui.
Sono tutte reminescenze di un cinema italiano che ormai non esiste quasi più, salvo qualche lodevole eccezione, capace di affrontare la vicenda di Giuseppe mettendo a nudo principalmente i disastri emotivi e morali di una persona innocente, e successivamente il dissenso sulla nostra "giustizia civile".
Tante cose sono cambiate da allora, fortunatamente in meglio, e a ragione qualcuno dirà che oggi si assista praticamente all'annientamento del termine "giustizia", mentre è forse più semplice e certo non meno traumatico aggiungere che è proprio l'ordinamento giudiziario in toto ad avere un fortissimo bisogno di rinnovamento.
Infine, l'epopea del personaggio-Sordi, per una volta lontanissimo (ha vinto per l'ottima interpretazione il premio più prestigioso della sua carriera, il David di Donatello come miglior attore) dalle commedie di costume e dai suoi personaggi più tipici, dove ruota un'ineffabile senso di accettazione del conformismo morale italiano.
L'attore è, manco a dirlo, straordinario, per quanto "il" Di Noi (come vorrebbero i verbali dei commissariati di polizia, guardacaso) non sarà mai ricordato nell'immaginario collettivo popolare come un Dante Fontana o (per tornare indietro con gli anni) Nando Moriconi.
L'emblematica forzatura di alcuni aspetti del suo personaggio (l'italiano che ha fatto fortuna all'estero, elegante, una bellissima moglie nordica, etc.) esalta ancora di più il senso di indignazione degli spettatori davanti alla requisitoria di Loy e Sanna.
Il trattamento disumano a cui viene sottoposto l'uomo, fra l'altro innocente (ma a questo punto è un particolare) giustifica anche scelte stilistiche forse eccessive (si veda Giuseppe "responsabile" di una rivolta) o magari enfatizzate (come nell'allucinato "incubo" in flashback del finale), comunque necessarie, soprattutto nel secondo caso, a suggerire la drammaticità perenne della vicenda.
A tutto questo si aggiunge il coraggio di mettere in luce, attraverso la ritualità di drammatici codici, la violenza e i soprusi all'interno del sistema, quasi assecondando la consapevolezza che, spesso o talvolta, è il sistema stesso a sviluppare tali brutalità: tipo il "farsi Sant'Antonio", secondo il gergo carcerario.
La bravura di Loy si manifesta una volta di più nella sequenza della rivolta (dove i detenuti dalle loro celle reclamano i diritti sanciti dalla costituzione, in attesa di processi che non vengono mai programmati) in cui la mdp segue scrupolosamente i volti disfatti, sudati, feriti, e il disperato bisogno di essere ascoltati: lo stesso Giuseppe, "unito" per una volta da quel coro di emarginati, o l'"amico" Saverio, dall'altra parte della barricata, tradito dalle sue stesse, inutili, aspettative.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 11/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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