Recensione disastro a hollywood regia di Barry Levinson USA 2008
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Recensione disastro a hollywood (2008)

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locandina del film DISASTRO A HOLLYWOOD

Immagine tratta dal film DISASTRO A HOLLYWOOD

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Immagine tratta dal film DISASTRO A HOLLYWOOD

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"Disastro a Hollywood" è un film ambientato quasi completamente nel noto quartiere della fabbrica del cinema hollywoodiano, in un'atmosfera corale impregnata di grandi fermenti ed effervescenze, ricca di azioni e dialoghi eccessivi ma dal tono veritiero, reale, che si piegano gradualmente nell'ironico, per finire via via nel divertimento più puro. Il film tratta argomenti seri ma lo fa in un modo farsesco, spassoso, quasi burlesco, suscitando un riso benefico che rimanda all'uscita dalla sala le considerazioni più meditate sull'industria hollywoodiana.

Il film si avvale di numerose e riuscite parodie, situate qua e là sul crinale di un gioco di caricature appena avvertito, con oggetto alcuni personaggi reali di Hollywood.
La pellicola mantiene per gran parte della narrazione un tono umoristico elevato, acceso, concepito sapientemente lungo un pensiero di spettacolo immerso nel costume, legato alla vita privata dei personaggi e ai paradossi più comuni del cinema hollywoodiano.
Il filo principale del racconto è avvolto da gag caratterizzate da situazioni estremamente imbarazzanti, talvolta grottesche, talmente ben costruite da apparire spesso irresistibili.

"Disastro a Hollywood" narra alcune vicende di due film in cantiere, uno in corso di realizzazione e di studio, preso nella fase di montaggio, che desta forti polemiche tra il regista alcolista Micheal Wincott, europeo, e il produttore Ben (Robert De Niro) per una particolare scena particolarmente sanguinosa e violenta che vede l'uccisione a bruciapelo di un cane durante una vicenda chiave del film; l'altro, in fase di preparazione, non riesce a decollare per via del mancato rispetto del contratto da parte di Bruce Willis, contratto che prevedeva tra le altre cose una recitazione senza barba. L'attore invece insiste nel voler sostenere il ruolo con la barba lunga, giungendo in seguito ad un compromesso, quando dalla porta di un caravan apparirà rasato solo da un lato del volto.

Il film, forse un po' inconsapevolmente, pone al centro della storia la questione della follia, cioè di quelle forme di pazzia e mania tipicamente hollywoodiane che si ripetono periodicamente, già note ai più da molto tempo, caratterizzate da alcuni assurdi contrasti tra produttori, registi, attori, legati a motivi futili o a spinte innovative esagerate da parte degli autori dei film; il tutto immerso in una bellicosità irrazionale e contraddittoria che sembra di per se stessa voler fare spettacolo.

Tra il team dell'opera filmica dominano le smanie e gli accanimenti più autoritari, effimeri, come il desiderio di imporre agli altri le proprie idee paranoiche, quelle eccessivamente strane, convulse, animate da forti pulsioni compulsive, capaci di portare sempre più lontani dall'obiettivo principale, centrale, il raggiungimento del quale richiederebbe invece una seria applicazione dei metodi professionali più razionali.

Il film si sofferma sulle difficoltà più comuni che si incontrano nella progettazione e realizzazione delle pellicole standard, quelle dagli ingredienti e dai contenuti canonici, scelti opportunamente per il mercato, funzionali a un ipotesi di successo, quindi ben equilibrati seppur banali, e dallo stile definito.

Le scene di "Disastro a Hollywood" mostrano anche i numerosi e faticosi compromessi tra produttore, regista ed attori, necessari a volte per soddisfare una pluralità di esigenze, spesso fumose, frutto di idee ossessive non più filtrabili in un discorso razionale che finiscono per sfociare in decisioni un po' deliranti, rischiose, che danno ai due film aspetti insoliti, tali da renderli paradossali e a volte ridicoli.
Simili problemi, così veri e cruciali, indubbiamente sono presenti nel cinema reale con una certa frequenza, e vengono trattati mirabilmente da Levinson ("Rain Man", "Sesso e potere", "L'uomo dell'anno") in una forma arguta, sul filo di una comicità del tutto nuova, leggera e sapientemente depurata, demoralizzata da ogni vecchio tabù visivo, che riesce a dare spettacolo utilizzando al meglio il meccanismo della commedia.
Il merito di Levinson è stato quello di aver capito che non viviamo più tempi in grado di apprezzare un film, che ha per oggetto di studio un altro film, in una forma da commedia drammatica, e di aver quindi scelto per questo genere di pellicola la forma della commedia brillante.
Ormai solo la commedia leggera sembra in grado di parlare del cinema destando divertimento, suscitando un certo interesse di pubblico e di critica.

Pur vivendo di un'atmosfera leggera il film pone tra le righe una questione etica precisa, importante, che ruota per buona parte del film intorno alla legittimità o meno di superare in un film la soglia del buon gusto, quel confine della così detta saporosità narrativa, stabilito, fissato da una lunga tradizione civile, che se superato può far sfociare le commozioni suscitate dalla pellicola, in un caos di disagi emotivi, troppo trasgressivi, provocando nella maggior parte degli spettatori uno shock emozionale dagli effetti imprevedibili, alcuni certamente regressivi rispetto a un certo ordine di valori acquisiti da tempo.
Ecco allora che uccidere con una pistola un cane, coprotagonista con Penn della scena chiave del film, sparandogli un colpo in testa e mostrando il sangue che spruzza sulla cinepresa, può rappresentare una novità assoluta per il cinema, probabilmente anche un po' pericolosa, perché apre un'incognita importante sul suo effettivo valore estetico e sulle conseguenze psichiche che essa può provocare, sopratutto in chi va al cinema per ritrovare esteticamente qualcosa che lo riguarda e per scoprire un po' più inconsciamente una soddisfazione inaspettata.
Dare per un attimo agli spettatori l'immagine agghiacciante di un animale innocente e amato come nessun altro dall'uomo, che muore in modo orrendo mentre cerca di capire istintivamente cosa stia succedendo in una certa situazione esistenziale del suo padrone, può coinvolgere solo le persone malate di sadismo o quelle affette da gravi distorsioni sociali, quest'ultime forse del tutto incapaci ormai di apprezzare il buon gusto cinematografico affetti come sono da sentimenti negativi di vendicatività sociale, ma lascia tutti gli altri nell'indifferenza o nella indignazione assoluta.
Il regista alcolista Michael Wincott insiste per non tagliare quell'orrenda scena di sangue, aprendo quindi con il produttore un contenzioso duro, irriducibile, persistente, di estrema portata trasgressiva, e quando il film andrà a Cannes la proiezione lascerà alla fine la maggior parte degli spettatori sbigottiti e confusi, dimostrando tutta la debolezza dell'opera.

Il film racconta due settimane di vita di Ben (Robert De Niro), un produttore di mezza età a rischio di siluramento nonostante un passato di notevole successo.
L'uomo si dibatte tra gli odi e le ambiguità sentimentali di due ex mogli, frutto di due matrimoni falliti con tanto di figli trasgressivi a carico, un regista alcolista, ostinato e delirante che si oppone alla modifica del finale di un film incentrato sulla morte del personaggio e del suo fedele cane, recitato da Penn, un attore primadonna in sovrappeso e con la barba lunga (Bruce Willis) restio a ritornare in forma per girare il film.
I finanziatori dei film sono anche propensi a sciogliere i contratti in corso se il percorso delle due opere incontrasse delle difficoltà, lasciando nei guai Ben.
Ben è ancora affascinato dell'ultima moglie Kelly (Robin Wright Penn), che però va a letto con un altro.

Catherine Keener interpreta Lou, una executive, una specie di boss di Hollywood che vuol sempre avere ragione.
Michael Wincott è Jeremy, convulso regista dell'ultimo film di Ben. Stanley Tucci è Scott Solomon uno sceneggiatore che è alla prima difficile sortita con Ben. John Turturro interpreta Dick Bell un estenuato agente Hollywoodiano che soffre di coliche e che è afflitto da un rapporto sbagliato con i propri clienti, impostato in modo non troppo professionale.
Kristen Stewart interpreta Zoe, figlia di Ben che nonostante la minor età ha già all'attivo numerosi rapporti sessuali con agenti nevrotici.

Una foto di copertina per una famosa rivista che elenca i trenta produttori più potenti lancia un allarme: chi viene fotografato ai lati rischia infatti di rimanere in breve tempo fuori gioco. Ben rimane terrorizzato dalla foto ed è costretto a impostare il suo rapporto con il team dei suoi due film in un modo molto più puntiglioso, tradendo alla lunga ansia e preoccupazione.

Bellissimo il finale a Cannes, dove viene proiettato il film con il cane, di Michael Wincott, e alla fine una doppia sorpresa per tutti allieterà la visione.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 07/05/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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