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Kevin è nelle prime pagine della cronaca nera. Kevin con un arco e decine di frecce ha ucciso undici persone nella palestra della sua scuola. Kevin sta per compiere sedici anni. Kevin è finalmente il protagonista.
Ma scopriamo fin dal prologo (due immagini, una immobile, una sfrenata: egualmente inquietanti) che in "E ora parliamo di Kevin "la voce agente e sofferente del racconto è la madre, Eva, dietro le quinte della strage, che si sobbarca il dolore inconcepibile degli strascichi.
Da un libro (della giornalista Lionel Shriver) che è straordinario bisturi, chirurgico e metodico, un film che è come una lama rovente e penetrante che getta un'ombra dissonante e corrosiva sullo st(r)rato algido e ipocrita dell'istituzione familiare, borghese, scolastica americana (nel libro l'identità armena di Eva gioca una parte fondamentale nella sua idiosincrasia per gli yankees, giovando ad un'ulteriore presa di posizione contro le convenzioni e il sentimento di superiorità made in USA).
Lynne Ramsay compone una disarmonia visiva, tramite un'impostazione scenica che ci proietta dentro gli occhi di Eva, dentro la sua coscienza traballante, facendosi pugno nello stomaco che affonda dritto tra le ossa, diretto alle nostre paure più ancestrali.
Magistralmente, la consapevole telecamera della regista ondeggia nei recessi, nei sommovimenti dell'animo stritolato dal senso di colpa di Eva.
Ecco, Eva: la colpa primigenia è, forse, quella di non aver amato il figlio, un figlio difficile: ma merita davvero una pena di tale, devastante proporzione, per sempre condannata a pulire il sangue dalla facciata di casa, perché "lo so, andrò all'inferno"?
Non pone quesiti facili, "E ora parliamo di Kevin, né tantomeno dà risposte. Viaggia obliquamente al centro dell'inconscio di Eva, come forse di recente era riuscito a fare solo "Valzer con Bashir. Il vissuto, l'escoriazione, il passaggio nel trauma, più ancora che una sua rielaborazione o una sua espiazione. Eva ci è dentro, e ci trascina in questo tunnel di infernale sensorialità espressionista.
Quello della maternità scomoda e a volte negativa è un tema tabù, toccato ultimamente con mano (anzi, con la mdp) da "L'amore nascosto, mattatrice un'altra grande interprete come Isabelle Huppert: ma "E ora parliamo di Kevin parte dalle fondamenta, dal rapporto controverso già di pancia, e lo fa con un respiro visivo strozzato, dagli echi sonori spesso extradiegetici, che trasformano un cupo dramma in un thriller psicologico teso e angosciante, in un horror che spaventa soltanto accostando una musica lieta e cinguettante alla parata di Halloween di un gruppo di bambini, visti attraverso il tergicristallo dell'auto.
Mutante, coraggioso, disturbante: per noi italiani è uno sguardo improvviso, accecante quello della Ramsay, che si rifà a modelli alti quali Fassbinder e Bergman, ma è un'autrice che ha già un preciso e graffiante stile, e che ha impresso il suo tocco, affinato le sue capacità di visionarietà del quotidiano tramite le sue due precedenti opere, piccole ma apprezzate nei circuiti festivalieri (il fulminante esordio "Ratcatcher - L'acchiappatopi" e "Morvern callar").
Scandalosamente mancata la nomination agli Oscar per la migliore interpretazione di Tilda Swinton: tanto era raffinata in "Burn after reading", elegante in "Benjamin Button", innamorata in "Io sono l'amore" (per citare le sue prove più vicine nel tempo), tanto qui, in una sorta di controcanto, alla scoperta della passione carnale nella pellicola di Guadagnino, è scavata, schiantata, spettrale. Mentre è meno convincente, più che altro perché fuori physique du role, John C. Reilly. E soprattutto perché la relazione principale, quella vera e dolente, è fra la madre e il figlio: sorprendente Ezra Miller, intensità affilata, ben lontano dall'impatto surreale in "City Island", più vicina a quella ‘agita' in" Afterschool".
Kevin è un "prodotto del suo ambiente", come chiosava lo spietato Jack Nicholson/Frank Costello in "The diparte", ma del suo ambiente affettivo: che è vuoto, sgombro e bianco come quella casa troppo nuova e troppo grande, e decide di tradurre il mondo che lo circonda rendendolo congruente alla sua personalità, affinché sia, appunto, prodotto del suo ambiente interiore: scevro di futuro prossimo, iniettato d'odio, ramificato nella rabbia senza speranza, nel maniacale, freddo, calcolato sterminio di massa studentesca (suoi coetanei, probabilmente più felici, probabilmente più amati). Il sangue versato, come testimonia il colpo di scena finale, è rappresentazione di un male programmato ma tuttavia non congenito: conosciamo Kevin fin dal suo concepimento, da feto ad adolescente, e conosciamo così (percettivamente) il disagio respingente di Eva (nome omen).
Scopriamo che questo bisogno di imporsi, affermarsi, oltre tutto ciò che è di regola (etica, morale, umana, sociale), deriva da un'un'affettività da ricercarsi nel sentire materno (distaccato) e in secondo luogo in quello paterno (soffocante).
Kevin fa quello che fa per posizionarsi, stagliarsi anche in una luce buia e terribile, agli occhi della madre, che alla fine, vedendolo indifeso e sperduto come una sola volta era stato nella sua infanzia (bambino, solo per una sera), lo abbraccia e, in quella stretta, lo (ri)conosce.
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Recensione a cura di Fiaba - aggiornata al 19/04/2012 13.35.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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