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"Tutto può accadere,
tutto è possibile e verosimile"
Due piccoli scenari si alzano sul teatrino, di là Alexander, il Bergman bambino, guarda dentro il piccolo mondo, lontano dal mondo grande che sta fuori; poggia a un lato il capo sognante e triste, per qualche istante; poi si alza e va per le stanze stranamente vuote, chiamando Fanny, mamma, gli altri, non privo di stupore per quel silenzio. Giunge alla camera della nonna dove non perde l'occasione di salire sul letto disfatto. Si affaccia alla finestra gelata; giù fiori carichi di colori sembrano ancora residui accesi di quel mondo fantastico di poco prima; un carretto passa, senza colore. Alexander si rifugia sotto il tavolo e immagina ancora: una luce irreale nell'inverno entra dalla finestra e una statua si muove; finché uno scroscio d'acqua dissolve l'illusione, spegne il carillon, fa apparire nonna Elena che lo chiama.
Nell'introduzione meravigliosa sono già contenuti tanti dei temi che il film di Bergman raccoglierà e che del resto il regista aveva affrontato durante l'intera sua produzione. C'è già il tempo in quell'orologio sospeso tra le statuette meccaniche, lo spettro della morte, quella grande assenza improvvisa. C'è, soprattutto, il piccolo mondo, il teatro e la famiglia, ciò che d'immaginato si aggiunge e si mescola al reale. Poi, c'è l'isolamento dal grande mondo, la curiosità e il timore nella mente di un bambino.
Ma più avanti ci accorgeremo che non manca nessuno degli argomenti cari all'autore: "Fanny e Alexander" è una vita, anzi la propria vita, artistica e non, raccontata attraverso gli occhi di chi ancora la deve vivere a chi già l'ha vissuta; la vita con la sua ricchezza, con tutte le sue miserie. Luoghi d'infanzia e personaggi riecheggiano in una memoria ripercorsa come già accadeva per esempio ne "Il posto delle fragole", dando vita ad avvenimenti tra il vero e l'immaginato. Fantasmi si alternano a figure reali; momenti di magia a situazioni davvero accadute. Una lanterna magica è avvicinata più e più volte sopra le pareti buie, ed è da lì, da quel freddo esistenziale, in quella luce diversa che suggeriva curiosi bagliori e nuove ombre, che il giovane Ingmar cominciava a guardare; a inventarsi un piccolo spazio in cui ragionare, uno spazio in cui provava a scrivere con l'immaginazione alcune risposte alle tante domande che una condizione infelice gli sussurrava e gridava. Lì trovava la felicità dell'incoerenza illogica, nelle sue marionette, in quel loro mondo che non sentiva il bisogno delle promesse e delle regole di un Dio o di un padre, nato dunque da una reazione emotiva a confronto di un grande disagio.
Raccontato con estrema semplicità, ma soprattutto con profonda intensità artistica e narrativa, "Fanny e Alexander" è anche il testamento registico di Bergman, idealmente l'ultimo e forse il più ambizioso (sicuramente il più costoso) dei suoi film, e il più autobiografico. Fu concepito per la televisione come film a puntate e poi adattato e accorciato per il grande schermo.
Si presenta come un'opera eterogenea, intima ma mai chiusa, curata nei dettagli, recitata benissimo; un'ulteriore riflessione sul rapporto dell'uomo con l'irrazionale e un mirabile riassunto di tutta una carriera.
La storia è ambientata a Uppsala (il paese in cui nacque Bergman), in Svezia, nei primi del '900.
E' Natale, l'avvenimento attorno a cui si raccoglie l'intera famiglia, qui quella borghese degli Ekdhal. Natale come il momento di unione e confronto, il periodo in cui si torna a parlare di Dio. Natale quale rito ricorrente. Natale delle recite e delle lunghe tavolate. Natale, anche, con i suoi oggetti luminosi, con la sua atmosfera di magia, con le sue vie innevate percorse dalle fiaccole e dai bambini.
Il primo grande periodo dell'opera si apre sotto il segno della vivacità. Il rosso predomina, che per Bergman è il colore dell'anima. Il teatro e la casa, i due piccoli mondi popolati, ne costituiscono gli ambienti. E' un inizio che può essere accostato in qualche modo al cinema di Fellini, quel fratello d'arte con il quale il regista svedese ha trovato da sempre diversi punti in comune: in entrambi gli autori si avverte una simile ansia verso un affrancamento dalle costrizioni, in primo luogo religiose, che solo l'immaginazione potrà e saprà offrire.
Conclusa la festa, a sera, i partecipanti si ritirano dentro le stanze; ed ecco inscenata in breve, con i suoi difetti e le sue debolezze, tutta la varietà dell'universo umano di Bergman: le grandi e piccole confidenze, i dissidi, gli intrecci amorosi, i tradimenti, le bugie, i discorsi, gli scatti di riso e quelli di pianto; mentre i bambini nella loro camera accendono un proiettore, un'altra piccola lanterna magica.
Eppure la vitalità di questo periodo è già attraversata da una vaga angoscia: è il periodo iniziale e dunque quello destinato a trascorrere, a finire per primo. Quasi come se le tavole imbandite e gli ambienti addobbati aspettassero un qualche castigo per l'allegrezza e l'abbondanza; o il calore delle stanze, ricche di oggetti e persone, fosse già pronto a lasciare posto al respiro invernale.
Qui ci sono presentati svariati personaggi, alcuni dei quali fondamentali: nonna Elena (probabilmente un ricordo della vera nonna dell'autore), con la sua saggezza sentimentale, colei che sorregge e attorno alla quale ruotano i raggi famigliari; Fanny che è forse la proiezione della sorella minore di Ingmar; la madre con la sua ingenua cedevolezza e soprattutto il padre, Oscar, direttore del teatro cittadino. Troviamo in quest'ultimo il primo dei fantasmi di "Fanny e Alexander"; la sua persona, modesta e umana, inquieta e profonda, presenta però tratti completamente opposti a quelli del padre anagrafico di Bergman: egli è il padre buono, il padre inventato, già morente sin dal principio dell'opera; il padre amante dell'arte del teatro, quello mai avuto, solo in quel luogo di fantasia vivente.
E' lui il portatore silenzioso di quell'angoscia di cui si parlava, che si accascia affranto, staccandosi dal treno festoso degli altri famigliari.
Dopo la piccola rappresentazione che apre il periodo, egli recita un breve discorso, una morale apparentemente molto semplice ma che profila l'ultima sofferta tappa dell'intenso percorso artistico di Bergman:
"... capita a volte che il piccolo mondo riesca a rispecchiare il grande mondo tanto da farcelo capire un po' meglio (...) il nostro è un piccolo spazio fatto di disciplina, coscienza, ordine e amore."
Il piccolo mondo, dicevamo, è in primo luogo il teatro. Quel teatro che in verità si affacciava in quasi ognuna delle pellicole del regista, talvolta costituendone l'assunto principale, come nel caso de "Il volto", e in cui si mettevano in scena anche i conflitti e gli affetti famigliari, o le difficoltà di una comunicazione mai veramente libera da maschere.
Per un intervallo non breve, quel piccolo mondo è stato la chiesa. Un teatro freddo che non poteva offrire conforto, privo di luci e di spettatori. In "Luci d'inverno", sotto un palcoscenico che era l'altare, una donna avanzava al prete-attore (anch'egli schiavo di un ruolo) la proposta di accettare il suo amore terreno in cambio di quello di Dio, il suo amore vicino, non eterno ma che sapeva consolare, che rispondeva.
E' in altre parole ciò a cui invita la morale del padre, di amare il piccolo mondo, soprattutto di amarne gli imperfetti abitanti.
Tuttavia la enuncia in un tono che egli stesso riconosce come comicamente solenne, con pena e urgenza, dacché sente la morte vicina, che sin dalla prima inquadratura gli ha tolto il sorriso degli altri.
Essa arriva, proprio sul palcoscenico. La morte, per Bergman, ha da tempo smesso di giocare a scacchi. Nell'episodio grave della scomparsa del padre, simboli ricorrenti nell'opera dell'autore (su tutti il pendolo fermo) si alternano a immagini di crudo realismo: il secchio del vomito, le medicine, la stretta di mano ghiacciata, nella sequenza successiva le grida straziate della madre. L'avvenimento ci è ancora raccontato dalla prospettiva di Alexander, attraverso l'incomprensione e la rabbia di un bambino. Quella rabbia che lo porterà a ripetere parolacce durante la celebrazione funebre (così diversa da quella natalizia che si è da poco conclusa) o a inventarsi storie, o a rifiutare l'obbedienza, ora ad avvicinare più volte la sua lanterna magica su pareti sempre più oscure. Il fantasma del padre appare com'egli stesso aveva presentito in punto di morte. Appare con un abito chiaro. Appare preoccupato, di frequente, con gli occhi fissi sui due bambini, lontano e ancora in famiglia.
Anche il periodo di conoscenza tra la vedova madre e il vescovo Vergerus (un nome non nuovo nella filmografia dell'autore) ci viene narrato dal punto di vista di Alexander, un momento cinematograficamente molto breve, intravisto appena dal bambino che ne è tenuto a distanza. La morte del padre e la conseguente unione tra il vescovo e la madre di Fanny e Alexander segnano di fatto la fine del primo grande periodo del film e l'inizio del secondo.
La donna e i due figli si trasferiscono nel vescovado sotto richiesta del vescovo stesso.
L'ambientazione e i personaggi cambiano completamente, tutto perde di vitalità e s'irrigidisce. Il rosso e i colori caldi del primo periodo lasciano spazio a tinte sbiadite e quasi inesistenti. Le stanze ricche di oggetti a mura spoglie, inflessibili. Le tavole imbandite a mense grigie. Le domestiche allegre a serve contrite. I tendaggi a inferriate. Un'atmosfera che rimanda senza dubbio al cinema di Dreyer.
"Voglio che tu e i tuoi figli veniate nella mia casa senza avere nulla"
Chiaramente la disciplina che intende imporre il patrigno non è la medesima di cui parlava il padre durante il suo discorso iniziale.
In questo nuovo clima di austerità e di privazione anche la religiosità, descritta a inizio opera mediante le recite e le letture serene, assume un valore opprimente. Il vescovo, l'uomo vestito di nero (si noti il contrasto con l'abito chiaro del fantasma del defunto), impersona ora il vero padre di Bergman, quel pastore luterano che mai seppe unire l'affetto di un genitore a un'educazione incentrata sul rigore e sul castigo: in lui, nei suoi metodi duri, l'autore individua la causa prima della propria inquietudine esistenziale. Ed è probabilmente da quell'ordine obbligato che, di contro, Ingmar maturerà la sua confusione emotiva e poi creativa, ovunque ossessionata dal dubbio, recante ancora i solchi di quel timbro severo.
Al contempo, il vescovo rappresenta la convinzione di una giustizia e di una verità assolute che minacciano la morte della fantasia, la fine della contemplazione lieta di quel grande mistero che per Bergman non sa essere fede in quel Dio.
Vergerus è il male attorno al quale si prosciuga tutta la vita, un demone che ha stregato la madre, rapito i bambini, distaccandoli dalle loro cose, dalle loro persone, dal loro piccolo mondo, per condurli in un grande mondo che è infine prigione.
I suoi abitanti - la madre e la sorella del vescovo, le domestiche, un'enorme zia allettata da un male oscuro - hanno un aspetto serioso, sciupato. L'immaginazione di Alexander si spinge ora e cerca riscatto in scenari ombrosi. Qui gli spettri sono spettri veri, spettri di un racconto del terrore: la prima moglie e le figlie del vescovo, morte tra le gelide acque del fiume che scorre sotto le finestre della casa.
Il patrigno più volte è ripreso di spalle o ne viene inquadrata solamente la mano che inquisitoria si avvicina ai bambini, dai quali non ottiene che rifiuto; un rifiuto che è intanto rabbia nei confronti della condiscendenza della madre, ora in attesa di un bimbo da quell'uomo. Nell'intransigenza di quel silenzio, s'ode ogni tanto il flauto del vescovo che ripete una dolce sonata di Bach. Piove, tuona, Alexander viene punito e rinchiuso assieme a Fanny in soffitta.
Dall'altra parte, lontano, il racconto entra a intervalli nella casa di nonna Elena, in una sala luminosa e avvolta da un candore morbido, etereo, quasi l'ambiente e i famigliari si fossero ora vestiti degli abiti del fantasma di Oscar. Lei siede al centro, padrona di quella serenità e della gioia, ma in pensiero. Nel frattempo riceve visite, riordina fotografie. I bambini devono essere salvati, eppure sa che la proprietà del patrigno è un regno inaccessibile anche per lei.
Serve una magia o un miracolo; avverranno entrambe le cose. Un vecchio e inaspettato illusionista entra in scena e tenta un numero di sparizione con una cassapanca; ma quando il trucco viene scoperto dal vescovo, alza furioso gli occhi al soffitto e un bagliore, simile a quello che nell'introduzione aveva fatto muovere la statua, lo rischiara, esaudisce il prodigio, salva i bambini.
E' forse la più inattesa tra le tante sorprese che "Fanny e Alexander" ci regala, un momento in verità inedito nel cinema di Bergman: quel Dio per l'autore eternamente muto, durante un episodio di un film di fine carriera, improvvisamente sembra rispondere, addirittura interviene ed è risolutore.
Ora, non crediamo sia necessario cercare ovunque coerenza in un'opera in cui non si vuole vi sia coerenza, oppure attribuire a questo episodio un valore eccessivo. Il bagliore che investe l'uomo potrebbe essere non altro che un proiettore accesosi sulla scena; poiché Bergman sa bene che le possibilità offerte dal suo mestiere non gli escludono qualche licenza, né di forzare irrealmente una situazione a proprio piacimento. E seppure l'inesplicabile per il regista non sia più conciliabile con il concetto cristiano della fede, egli non ha mai finito di ragionare sul mistero che lo governa e di rappresentarlo. Anche Dio è una marionetta a cui si possono applicare i fili; e proprio per via del suo silenzio, a cui anche l'illusionista sembra rivolgersi con atteggiamento polemico, sarà lo stesso autore a dovere intervenire.
Con questo colpo di scena si conclude anche il secondo grande periodo del film e veniamo introdotti nell'ultimo quadro.
A questo punto abbiamo ampiamente percepito quanta importanza assumano le scenografie in "Fanny e Alexander"; l'ambientazione e i personaggi cambiano nuovamente, con un effetto che ricorda quello del passaggio di scenario in una rappresentazione teatrale.
Torna il rosso dell'anima e del sipario, ma trasformato, adesso più cupo e diffuso, che alcune note ipnotiche di un pianoforte accompagnano.
La casa dei burattinai è un luogo labirintico, convulso, di forte visionarietà, ricchissimo di oggetti e cristalli, vegliato da grandi marionette-fantasmi. Esso rispecchia, con le sue tinte oblique, l'attuale stato d'animo di Alexander dopo l'esperienza subita con il patrigno. Un luogo affascinante ma anche pauroso e arcano: i bambini vi entrano non accompagnati dalla madre e i nipoti dell'uomo anziano sono due fratelli orfani.
E' la stanza estrema della fantasia di Alexander, un ripostiglio di teatro e dell'irrazionale, quasi la lanterna magica non si spegnesse più o i bambini vi fossero rifugiati dentro.
Lì si perde e rincontra il fantasma buono del padre.
Rifiuta la sua presenza, quella degli uomini, quella di Dio.
"La morte non cambia nulla".
Si torna a parlare del silenzio di Dio, che nemmeno si degna di un riso.
"Un Dio di cacca e piscia che se esistesse vorrei prendere a calci in culo": Dice il bambino.
La nuova casa è luogo irreale, luogo magico, luogo pericoloso.
E' come se i fili adesso li tirasse Alexander, in uno stato di trance, dentro una confusione di simboli e cose.
C'è una porta che non deve aprirsi.
C'è un nipote che dorme, talvolta canta.
Una mummia si muove, s'alza la marionetta di un Dio satanico.
Telepatia, illusione, spiriti, specchi, pratiche esoteriche, mistero.
E mentre dalla sua camera distante il patrigno mostra inaspettati attimi di pentimento, la madre reagisce finalmente alla sua prigionia. Come una torcia prende fuoco l'enorme zia malata; e il vescovo cade, avvelenato, ardendo. E poiché "tutto può accadere", attraverso la magia si materializza il desiderio atroce e più profondo del bambino.
Il terzo periodo, molto suggestivo e conturbato, si svolge nell'arco di una sola notte e s'interrompe improvvisamente, proprio come accade per un incubo.
Al risveglio si è giunti all'epilogo dell'opera.
Qui Bergman vuole la famiglia riunita a casa di nonna Elena in occasione di una nascita, l'evento più lieto, l'ultima delle diverse celebrazioni del film, dove viene ribadita la morale del piccolo mondo. I due bambini e la madre siedono al grande tavolo circolare assieme agli altri, il rosso e il bianco si sono mescolati nelle tonalità del rosa.
E si riattiva l'umile umanità imperfetta di Bergman, fatta di semplici auspici e di lievi confidenze: si cullano i piccoli, si discute sull'idea di riaprire il teatro, si torna soprattutto a parlare di avvenire.
Ma la pace acquisita, a cui si è arrivati in non poco tempo, si rivela infine una conquista soprattutto apparente: poiché così come il fantasma del padre si mostrava con il suo abito bianco nei luoghi in ombra in cui Alexander veniva a trovarsi, improvvisa fa qui la sua comparsa la tunica nera del vescovo con la croce al collo; un fantasma stavolta concreto, che atterra con una spallata il bambino.
"Non ti libererai di me"
Gli dice, e così è stato. In uno degli ultimi film del regista la figura di quell'uomo si allunga più che mai prepotente, da grande e unico antagonista non sconfitto; e se sarà lo stesso Alexander a congedare il fantasma del padre buono riconoscendone l'insufficienza, quello del vescovo è al contrario un fantasma vivo, indissolubile, autentico, il ricordo impresso del vero padre e della sua educazione gelida e costrittiva. Egli è anche Dio, il suo silenzio severo, a cui Bergman non si è mai davvero abituato.
Il nucleo dell'opera non è l'espressione del timore per quella minaccia, è piuttosto lo sfogo sincero di una vita e di una carriera già convissute con la tormentosa certezza di non potersi liberare di quello spettro; e una confessione di chi incontra da sempre il regista, quando si ritrova a percorrere da solo corridoi in penombra.
Il piccolo Ingmar allora si rialza, va nella stanza della nonna che siede sulla poltrona. Le si avvicina, posa sulle sue ginocchia il capo sognante e triste; e l'ascolta, e immagina ancora...
"Non ti libererai di me"
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 13/10/2010 11.48.00
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