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Il dottor Frankenstein, scienziato svizzero solitario in rottura con le università dell'epoca per il suo straordinario avanzamento negli studi galvanici applicati alla materia biologica, tenta di rianimare, insieme al suo assistente Fritz, una creatura umana costruita in laboratorio, composta da parti di diversi cadaveri ricavati da corpi disseppelliti al cimitero; il cervello del nascituro appartiene per sbaglio a un criminale ed è stato rubato da Fritz nel laboratorio della sua ex università.
Gli esperimenti avvengono in un vecchio mulino a vento abbandonato, utilizzando le numerose scariche elettriche prodotte da un forte temporale.
La creatura, distesa su un lettino, viene portata sulla sommità del mulino attraverso un rudimentale ascensore proprio quando il temporale viene a trovarsi sopra il caseggiato e trasmette la sua energia al corpo grazie a degli appositi elettrodi.
L'essere candidato alla nascita prenderà successivamente vita ma risulterà subito scomodo, di difficile controllo e amministrazione, a causa del suo forte desiderio di esplorazione dell'ambiente. Il suo atteggiamento istintivamente indipendentista lo porterà ad essere aggressivo, ad abbattere ogni ostacolo che gli si presenterà davanti, anche uccidendo, finendo poi per passare tra la popolazione del luogo come un mostro orribile.
Ricercato dal sindaco e dagli abitanti del paese per aver involontariamente ucciso una bambina, verrà individuato di notte dopo lunghe ricerche nei pressi di un mulino a vento mentre lotta con il suo creatore, il dottor Frankenstein. La loro lotta prosegue disperatamente dentro il fabbricato mentre al mulino gli abitanti appiccano il fuoco. Alla fine Frankenstein si salverà mentre il mostro rimarrà agonizzante.
Sulla scia del grande successo del film "Dracula" di Tod Browning, del 1931 (con Bela Lugosi nella parte del famoso vampiro), la Universal decide di fare un grosso investimento sul "Frankenstein" (1918), il romanzo di Mary Shelley, sempre ricavando il film da un adattamento teatrale, in questo caso quello di Peggy Webling del 1927, che trasposto nella pellicola perde ogni caratteristica ritmica del teatro confermando la bravura tecnica e l'originalità espressiva del grande regista inglese James Whale.
La Universal bissa il successo horror azzeccando praticamente tutto: sceglie bene il soggetto, il regista, gli attori, i truccatori, la sceneggiatura e i fotografi, ma soprattutto sa cogliere un momento molto favorevole al cinema horror, perché il film nasce in un contesto storico dominato da paure e ansie tra le più penose della storia dell'occidente a causa dei fantasmi dittatoriali che animano con grande bellicosità la propaganda politica di buona parte dell'Europa.
Tra le larghe maglie ideologiche di un mondo che si avvia verso l'intolleranza e il fanatismo compaiono qua e là miti fondamentalisti sulla scienza che, sapientemente distribuiti dai media - e pilotati dalle forze politiche più reazionarie per distrarre la popolazione dai nuovi orrori messi in cantiere dai governi di regime - diventeranno seriosi protagonisti spirituali di buona parte degli spettacoli filmici dell'epoca.
Il film è prodotto negli USA, ma come gran parte delle opere hollywoodiane di quel periodo risente della mano di artisti e autori europei emigrati negli Stati Uniti, che non potevano fare a meno di portare con sé parti del mondo antico da cui provenivano, rendendo in un certo senso interminabile l'emigrazione verso gli USA con la conseguente trasposizione senza fine di immagini importanti delle culture europee verso il nuovo mondo.
Il film alterna al mito della creazione della vita da parte dell'uomo - il cui tentativo pratico di realizzazione non può che essere fallimentare, procurando guai di ogni genere proprio perché basato sul sogno ad occhi aperti - la questione del diverso che uccide per paura ma che in realtà è innocente, buono, perché infantile, incontaminato com'è dai mali e dalla perversione presente nel potere politico e istituzionale.
Questi due aspetti si intrecciano filosoficamente quando lo scienziato paranoico Henry Frankenstein (Colin Clive) si rende conto di aver creato un essere non tanto imperfetto quanto libero, il quale per fruire della presenza della luce è costretto a uccidere, a fuggire dalla prigione verso la libertà, anticipando l'atto del parricidio per poter godere senza riserve della madre-luce intravista nella prigionia.
In questo film il mito della creazione da parte dell'uomo delude proprio durante la sua realizzazione pratica, quando nonostante il successo scientifico ottenuto da Frankenstein l'entusiasmo per il grande risultato si dissolve nel nulla non appena la creatura mostra l'intenzione di vivere in un modo diverso da quello cui l'aveva destinato l'autore.
Il mito come ricerca e applicazione di una favola ideale si infrange di fronte alla pulsione inconscia di possesso che si nasconde dietro la falsa coscienza di Henry Frankenstein.
Quindi la logica non può che essere sempre la stessa, quella nota nei misfatti abituali dell'uomo nel mondo, quindi creare per possedere, dominare, per stare sopra le cose e non dentro ad esse contemplandole e aiutandole a crescere, impedire la libertà piena di ciò che di umano si è creato per timore che essa possa giungere a una diversità, a una differenza altra, allontanandosi dalle idee educative e repressive che l'autore è bramoso di applicare, per soddisfare il proprio egocentrismo.
Il film, seppur in secondo piano, pone anche la questione dell'odio tra i diversi, un argomento di solito molto trascurato dalla cronaca e da una certa inconsapevole letteratura neoidealista, ma che in realtà assume sempre un importanza psicologica di studio notevole per le sue rilevanti variazioni di forma.
Fritz (Dwight Frye), assistente sciocco e deforme di Frankenstein, infastidisce ripetutamente col fuoco la creatura (Boris Karloff) appena nata, dandogli anche del mostro, fino al punto da farla reagire violentemente e portandola a uccidere il servo in virtù di una forza straordinaria.
Il timore di Fritz è quello di perdere, nell'ambito della servitù, la sua esclusività pulsionale con il padrone, che era certamente di tipo masochista, soddisfacente quindi per via perversa, ma la cui perdita gli avrebbe rotto un certo equilibrio psicologico costruito a fatica nel tempo, annullandogli gran parte del suo protagonismo nel gioco della servitù.
Vedendo ad un certo punto il suo ruolo diviso in due, anche nella sua mente si crea una scissione, cosa che gli fa perdere la sua compattezza psichica privandolo in un certo senso del piacere di servire.
Di grande impatto emotivo anche la scena del mostro con la bambina in riva al lago, lasciata sola dal padre per esigenze di lavoro; la creatura per la prima volta sorride, di fronte alla proposta della piccola di giocare con i fiori, e partecipa all'offerta ludica gettando le margherite insieme a lei nel lago, osservandole poi a lungo muoversi sulla superficie.
Il mostro dopo la luce ha scoperto ora la bellezza, quella che può dare una bambina come Maria, con la sua gioiosa disponibilità a giocare, e nonostante il cervello da criminale che gli è stato trapiantato parteciperà al gioco con felicità e segni di gratitudine.
Ma il mostro a un certo punto pensa che, come con i fiori, si possa far galleggiare anche il corpo della bambina e la prende amorevolmente sulle braccia lanciandola in acqua. La sequenza in cui la bambina si dibatte e affoga rimane coperta dal gigantesco corpo del mostro, Il regista Whale evita così allo spettatore la visione di una scena che difficilmente avrebbe sopportato senza percepire un pesante malessere.
La scena in cui il mostro sorride amorevolmente a Maria ha portato in seguito a diverse discussioni sui pregiudizi del tempo, intorno all'origine della malvagità e della crudeltà che nel film sono chiaramente intese come generate dalla conformazione del cervello; preconcetti socialmente molto gravi che come la storia dimostrerà causeranno per decenni lutti e dolori, trasformandosi in veri e propri delitti commessi dalle istituzioni poliziesche nei confronti di persone disadattate o malate, semplicemente sfortunate e impossibilitate a integrarsi economicamente nel sociale dell'epoca.
Da sottolineare nella composizione fotografica del film e nella tecnica del movimento della cinepresa due cose: da una parte il gioco luci-ombre proiettate sui muri, come quella dello scheletro anatomico mentre penzola da un elastico, nella scena in cui Fritz ruba il cervello nel laboratorio (una modalità linguistica tipica del cinema espressionista tedesco) e dall'altra il modo, in buona parte nuovo, di procedere della cinepresa: senza bruschi movimenti, con piccoli piani sequenza e angolazioni di grande effetto suggestivo come, ad esempio, la ripresa dal basso del mostro ricercato dalla folla mentre si avvicina minaccioso, in cima alla collina e, in un'atmosfera di grande drammaticità, al suo creatore; l'altezza del mostro appare sproporzionata, maggiore di quella che effettivamente era, incutendo allo spettatore mirabili emozioni di stupore e meraviglia.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 13/07/2010 15.33.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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