Recensione frozen river - fiume di ghiaccio regia di Courtney Hunt USA 2008
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Recensione frozen river - fiume di ghiaccio (2008)

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locandina del film FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO

Immagine tratta dal film FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO

Immagine tratta dal film FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO

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Immagine tratta dal film FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO

Immagine tratta dal film FROZEN RIVER - FIUME DI GHIACCIO
 

Il frozen river del titolo è il St. Lawrence River, che per un lungo tratto del suo corso costituisce il confine tra lo stato di New York e il Quebec, cioè tra gli Stati Uniti e il Canada.
Il territorio attorno d'inverno diventa un luogo quasi inospitale, oltre ad essere squallido di per sè: stazioni di servizio malridotte, drugstore scalcinati, fatiscenti prefabbricati arrugginiti al posto delle case, dove la notte si gela per il freddo, vecchi cartelloni stradali, su cui la scolorita scritta bianca, "Land of Mohawk", ci indica che siamo in territorio moicano, una riserva indiana in mezzo ai boschi, a cavallo del confine tra il nord degli Stati Uniti e il sud del Canada. Una vasta area considerata dai nativi "terra moicana" e, dunque, senza confini e al di fuori della giurisdizione dei due Stati nord-americani.

In un vecchio e cadente prefabbricato del paese vicino alla riserva, vive con i due figli (un adolescente e l'altro poco più che fanciullo), Ray Eddy, una donna bianca, non più giovanissima, che è stata appena abbandonata dal marito, incallito giocatore, scomparso dopo averla derubata, per giocarseli al Bingo, dei soldi che faticosamente era riuscita a risparmiare, caricando merci sul nastro trasportatore di un supermercato, per pagare l'ultima rata per l'acquisto di un prefabbricato un po' più decente di quello dove attualmente vive, dove far crescere i suoi figli, che al momento nutre a furia di bibite e popcorn.
Al limite della riserva, in una roulotte che cade a pezzi, nascosta tra i boschi, quasi emarginata dalla sua gente, vive Lila Littlewolf, una giovane vedova indiana Mohawk, madre di un bambino piccolo, che le è stato sottratto dalla suocera subito dopo la nascita, dopo la morte del marito, senza che i capi tribù facessero nulla per impedirlo.
Alla ricerca del marito scomparso, Ray entra nella sala Bingo del paese e si imbatte in Lila che fa saltuariamente la commessa nel locale delle scommesse.
L'incontro è più uno scontro, perché Lila ha tentato di rubare la macchina che il marito di Ray ha abbandonato nel parcheggio della sala giochi, prima di far perdere le sue tracce.
Furiosa, Ray, cerca di inseguirla per tentare di recuperare almeno l'auto, e si addentra nella riserva indiana che sorge vicino al paese.
Ed è qui che avviene la svolta della sua vita, quando si imbatte in Lila, una donna, come lei, sconfitta dalla vita.

Le due donne si affrontano, non si piacciono, tra loro c'è pregiudizio razziale e diffidenza, provano una istintiva, reciproca antipatia. Poi si rassegnano e la disperazione, più forte di qualsiasi risentimento, li porta a stringere un patto che consentirà loro di guadagnare velocemente quei soldi di cui ambedue hanno urgentemente bisogno.
Si tratta di trasportare, nascosti nel bagagliaio della macchina, immigrati asiatici clandestini che credono ancora nell'american dream e vogliono attraversare il confine per entrare nel "paradiso" degli Usa. Non le sfiora minimamente l'idea che il traffico sia gestito dalla mafia cinese, che i disperati sono costretti a pagare cifre enormi per raggiungere lo scopo, e che una volta arrivati a destinazione vengono sfruttati per moltissimi anni, fino a quando non hanno estinto il debito contratto per intraprendere il viaggio. In ogni caso, anche se l'attività è molto rischiosa, si tratta pur sempre di un lavoro che consente di guadagnare facilmente e velocemente molto denaro: basta attraversare in auto il fiume San Lorenzo, che d'inverno gela e diventa una spessa lastra di ghiaccio, e il gioco è fatto. Solo che le due sponde sono sorvegliate dalla polizia di frontiera ed è molto facile imbattersi in una pattuglia, che tenta di stroncare il traffico illegale. Ma è molto raro che venga fermata un'auto guidata da una donna bianca, mentre invece, se al volante c'è una donna pellerossa i controlli sono molto più frequenti e severi.
Per questo Lila ha bisogno di Ray.
Ray, dal canto suo, ha troppe necessità ed un disperato bisogno di recuperare i soldi che il marito le ha sottratto, per rifiutare l'offerta e, pur con una certa riluttanza, accetta di collaborare con lei.
Guiderà l'auto, il portabagagli stipato di cinesi, pakistani, vietnamiti, asiatici insomma, che pagano migliaia di dollari "per venire fin qui", ride (ed è l'unica risata di tutto il film) sbalordita Ray, e divideranno i guadagni. E a nulla valgono le proteste del figlio più grande, che vorrebbe sapere dove è finito suo padre e l'improvvisa disponibilità economica della madre.

Cominciano così i viaggi notturni di andata e ritorno sul lastrone ghiacciato del fiume che, a mano a mano che passa il tempo, si assottiglia sempre più.
Quando si tratta di cinesi, Ray non fa obiezioni, contratta il prezzo, carica il bagagliaio, torna indietro e consegna la "merce" ai loschi individui in attesa. Ma quando si trova davanti una coppia di pakistani, la donna si lascia prendere dalla pura: teme si tratti di terroristi, e la borsa che la coppia si porta dietro non fa che aumentare i suoi sospetti. E così, alla prima occasione lancia nel ghiaccio, fuori dal finestrino, la borsa con tutto il suo contenuto.
Solo che dentro non c'era una bomba, come sospettato, ma un neonato, figlio della coppia di clandestini.
Durante il viaggio di ritorno, nella speranza di recuperare la borsa, però, qualcosa va storto e Ray finisce nei guai.
Ma nel deserto di ghiaccio qualcosa è avvenuto tra le due donne: hanno imparato a conoscersi e perfino a stimarsi e questo risulterà fondamentale quando si tratterà di spartirsi colpe, doveri e guai.

Il Gran premio della giuria al Sundance 2008, le due candidature agli Oscar dello stesso anno (Miglior sceneggiatura e miglior attrice protagonista) e le decine di premi in giro per i vari Festival danno la misura della solidità di un film che sa evitare soluzioni scontate e che non ricerca la facile commozione, senza rinunciare ad emozionare e coinvolgere.
Ma c'è soprattutto l'attenzione per i personaggi ai margini, per i paesaggi estremi, per le dinamiche familiari.
C'è la suspense di un buon thriller, in una storia di quotidiana solitudine e disagio; ci sono temi sociali (come l'immigrazione e la povertà) che diventano occasione per una riflessione politica sul mondo attuale (come se non bastasse, la storia si svolge in prossimità del Natale, quando il consumismo diventa religione e s'innesta nelle mitologie ingannevoli create dai media). Ed è qui che si fanno evidenti le contraddizioni di un'America depressa, di vite difficili e di emarginazione, molto più diffuse di quanto ci è dato vedere (l'indigenza in America non è circoscritta solo nei luoghi di "Frozen River", ma è molto più ampia e drammatica di quanto si pensi); di un'America del malessere dove il denaro manca per acquistare il cibo, ma si trova per pagare il televisore ultrapiatto.

Al suo primo lungometraggio la regista Curtney Hunt realizza un film che, partendo da una storia di quotidiana solitudine e miseria, si fa denuncia sociale verso quella parte di società che preferisce non accorgersi della drammaticità dello status di immigrato clandestino, nel paese "della libertà", in cui i trafficanti di uomini che gestiscono il traffico clandestino, fanno entrare un'umanità disperata per poi sfruttarne il lavoro fino a quando non hanno estinto il debito contratto per poter emigrare.

La frontiera assurge così a metafora di separazione, non solo tra due Paesi, ma anche tra le persone, tra le etnie, tra il bene e il male, tra onestà e corruzione; una frontiera che scompare quando si tratta del modo di intendere la famiglia.
Una frontiera che il film dispiega in altri climi e in altre latitudini da quella che il cinema made in the USA ci ha abituato: non più la frontiera assolata tra la California e il Messico, ma quella algida e rarefatta tra il Canada e gli Stati Uniti.
Gli asettici mercanteggiamenti tra la due "traghettatrici" e i procuratori di "materia prima" rendono ancora più tragici i tanti risvolti sociali di cui la pellicola è densa.

Il film, come detto, è un noir, un noir tutto al femminile, e del noir conserva la cupezza tipica di questo genere e ne manifesta tutto il campionario classico, sia nei luoghi (il motel deve Ray e Lila "scaricano" la "merce" dal portabagagli, il locale notturno sul confine, teatro dell'ultima missione, il benzinaio con l'insegna sinistramente cigolante) che nelle atmosfere, sporche e inquietanti, in cui la neve sostituisce la pioggia battente che sovente bagna il noir.
Forse non nei personaggi, in quanto Ray e Lila tutto sono fuorchè due fascinose dark lady (Ray ha il volto precocemente segnato dalle rughe, conserva un fisico asciutto, anche se non propriamente perfetto, ma le guance sono ormai cascanti e i capelli rossi e poco curati hanno perso la brillantezza della giovinezza; Lila è goffa e grassoccia, parla a malapena e il volto mostra tutti segni delle avversità che la vita le ha riservato).
Tipico dei film noir è invece l'incipit che dà l'avvio alla storia (la scomparsa mai risolta del marito di Ray) e ne condiziona buona parte degli accadimenti.
Del noir c'è pure la classica tensione che accompagna lo svolgersi degli avvenimenti (l'incontro/scontro tra le due donne, i pericolosi viaggi notturni sulla lastra di ghiaccio che diventa sempre più pericolosa, le pattuglie della polizia che sorvegliano il confine e rischiano di scoprire i traffici illeciti delle due donne, il loro rapporto spigoloso e quello altrettanto conflittuale tra Ray e il figlio più grande).

Il film della Hunt si caratterizza per il budget ridottissimo, per l'uso insistito dei campi lunghi, per i silenzi e gli sguardi pieni di sottintesi, e per i frequenti primi piani, che scrutano e si incollano sui volti scolpiti dalle rughe e dall'acne delle due bravissime e poco conosciute protagoniste, Melissa Leo (Ray) e Misty Hupham (Lila).
E questo conferma che non sono necessari grandi capitali, tecnologie sofisticate, nomi di grido, per fare ottimo cinema.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 16/07/2010 11.09.00

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