Recensione habemus papam regia di Nanni Moretti Italia 2011
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Recensione habemus papam (2011)

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Voto Recensore:   8,00 / 10  8,00
Miglior attore protagonista (Michel Piccoli)Migliore scenografiaMigliori costumi
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Miglior attore protagonista (Michel Piccoli), Migliore scenografia, Migliori costumi
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locandina del film HABEMUS PAPAM

Immagine tratta dal film HABEMUS PAPAM

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Un Conclave, in cui nessun cardinale vorrebbe assumersi il fardello del pontificato, elegge nuovo Papa un outsider francese, che, inizialmente sorpreso, non tarda a rendersi conto della gravosità del compito che gli è toccato in sorte e a percepire una personale inadeguatezza. Si rifiuta in un primo momento di affacciarsi al balcone per la pubblica presentazione del nuovo pontefice; quindi, nell'ambito del tentativo di ricorrere allo strumento della psicanalisi per risolvere il "problema", il neoeletto (ma non proclamato) Papa Melville (interpretato da un immenso Michel Piccoli) riesce a fuggire alla vigilanza dei suoi custodi e dileguarsi per le vie di Roma, dove si affaccerà su un mondo intero, a lui sconosciuto.

"Habemus Papam" sarebbe piaciuto a Pirandello. Il soggetto e il tono della narrazione sembrano quelli di una novella del grande scrittore di Girgenti. Con l'autore de "Il fu Mattia Pascal", il nuovo film di Nanni Moretti ha in comune anzitutto il gusto di un'ironia sardonica, dissacrante e smascherante, in equilibrio tra commedia e dramma. E appartiene a una tradizione allegorica, tipicamente latina, che rimanda da un lato alla commedia dell'arte (ricordando il teatro goldoniano ma anche quello di Molière), e dall'altro rinvia al racconto picaresco (quello cui appartiene, tra l'altro, il "Don Chisciotte"). Una tradizione che nel cinema è stata assunta, fra gli altri, da un maestro come Buñuel (si pensi a film come "Nazarin", "Viridiana", "La via lattea", in cui sempre una parabola allegorica è sostenuta e alimentata da una continua ironia).
Non è un film sulla Chiesa, "Habemus Papam", ma sulle istituzioni. E' un film sul potere, sull'aspetto, la facies del potere. Contrariamente a "Il caimano", che ci apparve non risolto nel suo confrontarsi in maniera diretta e immediata con una figura a dir poco ingombrante, "Habemus Papam" si sostiene leggero sulla grazia di un'ispirazione felice, perché è parabola universale, allegoria che trascende un'istituzione e l'attualità, con la vocazione di non parlare tanto dell'oggi, quanto di restare nel tempo.

Garbatamente iconoclasta, è un film liberatorio, perché incentrato sul dato umano. Siamo portati infatti a condividere e prendere le parti di quest'anima fragile, sperduta in un'istituzione più grande di lui: comprendiamo gradualmente quanto sia più grande lui, invece, rispetto all'istituzione che è chiamato a rappresentare. Perché ha il coraggio della verità: quello di svelare al mondo intero, sospeso in un'angosciosa e tragicomica attesa, l'autenticità dei propri sentimenti. Il non sentirsi all'altezza da parte di questo Papa non è indice di fragilità, ma di coraggio: il coraggio di non conformarsi ad un'istituzione che è tanto sclerotizzata quanto distante dal mondo, tanto paludata e seriosa, quanto sovranamente priva di ironia, tanto impermeabile all'esterno, quanto debole e spaventata.

Nella fallita vocazione attoriale di Papa Melville c'è la chiave per comprendere il personaggio ed il film. E' un'opera incentrata sulla falsità delle apparenze, una falsità che solo l'arte può svelare. E la commedia è da sempre la forma giusta, quella più idonea, per togliere la maschera alle apparenze, per disinnescare, con una risata, l'oppressione costituita dalla facies, la facciata dell'Istituzione, con la sua pesantezza esteriore.
E la Chiesa (rectius: il Vaticano, lo Stato della Chiesa, le alte gerarchie episcopali) si presta più che mai a rappresentare l'Istituzione sclerotizzata per eccellenza. Moretti, con una semplicità disarmante, svela gli aspetti amabilmente ridicoli di liturgie e paludamenti.

L'ultimo film di Moretti s'inserisce in un solco già tracciato dal Bellocchio de "L'ora di religione" (2002), e, più ancora, dal Bellocchio allusivamente allegorico e catartico de "Il regista di matrimoni" (straordinario film del 2006 che, rispetto a "L'ora di religione", appare molto meno grave, meno sofferto ma non meno dissacrante: anzi). Il papa che vaga disperso per le vie di Roma, poi, ricorda un po' l'Aldo Moro libero a passeggio per Roma, nel finale-sogno di "Buongiorno, notte" (2003). Si menzionava poc'anzi Buñuel: ci piace immaginare che "Habemus Papam" avrebbe strappato più di un sorriso al regista di "Nazarin", che Moretti in passato già aveva sfiorato con "La messa è finita" (1985).

Moretti ci svela, polverizzandola, l'infinita pesantezza di una forma che si pretende sostanza, ma è solo facciata.
Il film insiste molto sulla "facciata": quella della Basilica di San Pietro – in molte scene ricostruita in studio. La facciata è forma, apparenza. In un'Istituzione secolare e (ormai non più troppo, per la verità) intangibile, come la Chiesa, la facciata barocca, impermeabile all'ironia, cela, più che tenebrosi misteri, un'umanità variegata, per la quale sarebbe anche possibile provare affetto, tanto è indifesa e fuori dal mondo.
L'ironia è il migliore strumento per smontare in un istante (basta un gesto, un'inquadratura, una guardia svizzera che cambia tono di voce) la pesantezza di ciò che si ritiene intoccabile.
Ecco: semmai "Habemus Papam" ha un limite, è quello di prendersela con un'istituzione verso la quale è sin troppo facile fare dell'ironia spicciola (le barzellette sui preti non le ha inventate Moretti e non sono certo il massimo di raffinatezza artistica). Infatti, dopo metà pellicola, le scene dedicate a prendersi gioco della seriosità cardinalizia sono quelle che un po' stuccano, e sulle quali il regista avrebbe fatto bene a lavorare di lima (si pensi in particolare a tutta la sequenza del torneo di pallavolo). Ma la forza del film risiede nel fatto che la sua ironia, anche quella più "spicciola", è posta al servizio di un'intuizione fenomenale (questa sì, inusitata): prendere un Papa appena eletto, che ancora nessuno conosce, e farlo fuggire per le strade di una capitale in cui appare esposto e smarrito, come lo sarebbe un bimbo che si è perso. E come un bimbo che si è smarrito, quest'uomo che ha il coraggio di corrispondere a se stesso – e di rinnegare (con il garbo dell'autenticità più disarmante) una gigantesca menzogna – appare, nel suo vagare per un mondo a lui completamente ignoto, alle prese con un percorso di formazione.
Un percorso che lo riconduce all'origine della sua più autentica passione: il teatro. Sarà un caso che l'autenticità che l'arte sa mostrare, passa attraverso la finzione? E che invece la forma che pretende di imporsi come veicolo di Verità suprema – quella del potere, dell'Istituzione – appare finta e ipocrita? La finzione della facciata viene smascherata proprio dall'arte: dal riso dissacrante della commedia dell'arte, delle maschere.
Niente è mai riuscito meglio delle maschere, nello smascherare la mascherata che tutto vuole apparire fuorché, appunto, una mascherata.
E Nanni Moretti, questo riesce a fare con il suo "Habemus Papam". Levare la maschera all'istituzione che al mondo intero vuole apparire tutto fuorché una maschera. Quella che – forse più di ogni altra, forse archetipicamente – pretende di apparire somma e suprema e immediata Sostanza, deposito di Verità Assoluta: la Chiesa. Un'istituzione così anacronistica da preoccuparsi di distinguere "anima" e "inconscio", rendendo di fatto impossibile all'analista cui ricorre di fare il suo mestiere.

Rispetto a Michel Piccoli, Nanni Moretti sa farsi piccolo, decentrando il suo egocentrismo: ma non ancora completamente, non ancora sino in fondo. Del resto, la demistificazione della psicanalisi non appare altrettanto riuscita e persuasiva – anche se si comprende come il film vorrebbe condurre in parallelo due diverse dissacrazioni. Da un lato quella del "sacro" paludato, dall'altro quella della "scienza", altrettanto paludata e priva di autoironia, convinta invece della propria onnipotenza laica. Tuttavia il parallelo è zoppo: troppo riuscita e predominante la parte affidata alla vicenda del cardinale Melville. Invece, la vicenda racchiusa entro le mura vaticane, sino all'apice del torneo di pallavolo, appesantisce la pellicola, e non appare del tutto risolta. Forse anche per colpa dell'eccessivo peso specifico del personaggio-Moretti.

Nel frattempo, mentre il grande psicanalista riduce il suo ruolo a quello di un surreale allenatore di pallavolo, Melville vaga in giro disperso per le strade di Roma. Sgusciato via da una prigione, ha l'umiltà di confrontarsi con il mondo reale, e giunge per questa via a riscoprire la propria umanità. Sotto il vestito, sotto la maschera che l'ha depresso, ritrova nell'arte del teatro il sapore della vita autentica. Rigenerato, avrà il coraggio finalmente di metterci la faccia: e con serafica serenità, forte di una ritrovata interiorità, saprà dire la sua, con candore e immediata purezza: "non sono fatto per essere guida, ma per essere guidato". Lui, scelto da parte di un collegio di inetti cardinali nessuno dei quali – come una formidabile scena iniziale rivela – ha il coraggio di assumersi un ruolo tanto ambizioso che nessun essere umano potrebbe essere ad esso adeguato ("guida spirituale dell'umanità"): proprio lui, Melville, con il sorriso sulle labbra di chi sa di corrispondere a se stesso, lascia attoniti i prelati. Melville, cui la "patata bollente" era stata affidata, se ne libera e la rimette nelle loro mani.
Al contrario del Celestino V di Dante, questo Melville di Michel Piccoli non "per viltade,fece il gran rifiuto", ma per coraggio, dignità, umiltà, e ferma volontà di corrispondere a se stesso (tutte virtù intimamente cristiane). Il Papa in apparenza più inetto, è in realtà il più responsabile di tutti.

Senza mai andare a toccare la figura di Papa Ratzinger, Moretti, velatamente, ci consegna il ritratto di un Papa diametralmente opposto a quello attuale, cui appare completamente antitetico. Quello di Moretti è un non-Papa mite e umano, umile e autentico, che – come Papa – risulterebbe simpatico a tutti.
Ma in fondo è solo una favola. E come tutte le favole, segna la misura della distanza fra quello che il Potere effettivamente è, rispetto a quello che si sogna possa essere, con fantasia liberatoria e disvelante. Quel che si sogna tuttavia non sempre potrà essere. Dietro l'ennesima "facciata" – quella di un paradossale lieto fine – la commedia lascia intravvedere una realtà che è sempre stata, e sempre sarà, ben altra e ben diversa.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 26/04/2011 15.08.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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