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C'era una volta un musicista di nome Rob Zombie. Si mise in testa di fare il regista di film dell'orrore e qualcuno glielo lasciò fare.
Grazie a una miscela di fortuna, sfrontatezza, presunzione e talento, girò due film, entrambi affettuosi omaggi al cinema horror anni '70, entrambi molto riusciti. Il secondo, "La casa del diavolo", sfiorò addirittura il capolavoro.
Correva l'anno 2007 e al nostro musicista fu offerto di dirigere il remake di un grande classico, "Halloween", di John Carpenter. È inutile star qui a rivangare le proporzioni epiche di un fiasco clamoroso.
Evidentemente chiunque scelga di farsi risucchiare nel gorgo dei remake è destinato a uscirne pieno di vergogna e con la carriera stroncata.
L'unica speranza di ripresa è abbandonare subito la strada su cui incombe tale nefasta maledizione e dedicarsi ad altro. Magari collezionare farfalle, o perché no, mettere addirittura mano a un progetto originale, se non è chiedere troppo.
E invece no.
Sprezzante del ridicolo, Zombie accetta di dirigere un seguito del remake, ispirato a sua volta al seguito del primo "Halloween", datato 1981. Un remake al cubo, insomma.
La sola idea avrebbe spaventato il più tenace marchettaro di Hollywood (un Alexandre Aja, per dire), ma le critiche positive ai suoi precedenti lavori devono aver dato alla testa al buon Rob che, armato di Red Cam, recluta il suo solito gruppetto di attori dalla faccia poco raccomandabile, capitanati dalla mogliettina, e si lancia anima e corpo nell'impresa.
Verrebbe da liquidarlo in tre parole, questo "Halloween II". La tentazione di insultare chiunque abbia partecipato allo scempio e passare rapidamente ad altro è molto forte.
Siamo di fronte a uno dei peggiori prodotti mai apparsi su uno schermo. Raramente accade che in un film non ci sia nulla, ma proprio nulla da salvare. Un'inquadratura, un gioco di luci, un movimento di macchina, un'intuizione di montaggio, o anche la recitazione di un attore, possono essere in grado di caricarsi sulle spalle un lungometraggio e lasciare un ricordo non del tutto negativo nello spettatore.
Nel caso di "Halloween II" non è così. Non c'è un solo motivo per cui valga la pena di vederlo.
Eppure Rob Zombie ci aveva abituato a ben altro. Persino nel primo "Halloween", c'erano almeno un paio di sequenze di grande impatto, e la scelta di narrare l'infanzia di Michael, sebbene togliesse fascino al personaggio e lo rendesse quasi incapace di generare terrore, lasciava intravedere la volontà di Zombie di intraprendere un percorso personale, magari sbagliato, ma almeno non pedissequo.
In questo secondo capitolo tutto è lasciato al caso, come se Zombie fosse capitato sul set un paio di volte a settimana per ubriacarsi con attori e troupe, e imbrattare tutti di sangue finto e frattaglie, tra un fuck e una schitarrata.
Non è un film, è una scampagnata con gli amici che assomiglia vagamente a un film.
I motivi di un fallimento così colossale sono quasi infiniti, a partire dalla stessa idea di fondo, ovvero Rob Zombie che si confronta con Carpenter.
Lo stile di Zombie è simile a quello di una persona che ti afferra per il colletto, comincia a strillarti parolacce in faccia e nel frattempo ti prende a sberle. Carpenter, al contrario, ti si avvicina di soppiatto e ti sussurra nelle orecchie.
Entrambi i metodi possono essere efficaci, dipende dalla storia che si vuole raccontare, e fino a quando si parla di una famiglia di pazzi cannibali che fa a pezzi le sue vittime e poi intraprende una fuga disperata e fracassona per gli Stati Uniti, il modo di fare di Zombie è perfetto.
Ma nel momento in cui la materia trattata è appena più sottile, se bisogna addentrarsi nei meandri che generano il male con la emme maiuscola, allora, alla prima sberla dritta in faccia, si nota subito che qualcosa non procede a dovere.
Il Michael Myers di Zombie è solo un ragazzone un po' tonto molto legato alla mamma. Tutto qui. Non c'è puzza di zolfo, il serial killer che ci descrive Zombie non si avvicina neanche alla lontana al demonio in persona che ci aveva raccontato così bene Carpenter nel 1979.
Già questa scelta, da sola, basta a viziare l'intera nuova serie (che si spera termini qui). Ma come se non bastasse, guardando di sfuggita la Haddonfield che Zombie dipinge in questo secondo capitolo, viene spontaneo domandarsi chi, in quell'ambiente, non sarebbe diventato un serial killer.
Prendere in mano un coltellaccio e affettare persone è il minimo che ti può capitare. Tutti, a partire dai buoni, sono un'accozzaglia di dementi sessuomani, tossici e violenti, con un attitudine alla vita sociale che farebbe inorridire uno scimpanzè.
Non c'è un solo personaggio con cui creare un briciolo di empatia. Sfidiamo chiunque a non desiderare la morte più atroce e dolorosa per Laurie Strode e il suo gruppo di amichette inguaribilmente destinate alla prostituzione precoce.
O vogliamo parlare dei contadini bifolchi che non hanno di meglio da fare se non andarsene in giro a pestare vagabondi? O del proprietario del club di spogliarelliste vestito da Frankenstein?
Non si tratta più neanche dell'amore viscerale che Zombie ha sempre dimostrato per i freak, i pazzi e i reietti, e che lo ha resto capace di trasformare una banda di assassini spietati in una famiglia a cui affezionarsi e per cui fare il tifo.
Non è il ritratto caustico di un'umanità deviata in cui non esiste più distinzione tra bene e male, è un gruppo male assortito di deficienti che strillano tutti insieme.
A questo punto, Myers non fa più paura e, tolta la paura, non si capisce perché un poveraccio dovrebbe spendere i suoi soldi per assistere alle scorribande di un tontolone con la maschera che ha un rapporto difficile con la sua defunta mamma e con i cavalli bianchi.
"Venerdì 13" bastava, avanzava e aveva già frantumato gli attributi a milioni di persone perché si sentisse il bisogno di crearne un clone peggiore.
Data l'assenza di qualsivoglia traccia di terrore, inquietudine, spavento, si potrebbe sperare che sul versante trippe e budella, il nostro Zombie abbia calcato piuttosto la mano, giusto per riuscire a tenere gli occhi aperti durante la visione.
Ma, tolti i minuti iniziali, anche su quel versante, il buon Rob latita. Nonostante il numero di vittime sia molto elevato, gli omicidi (una caterva inutile e ripetitiva), grazie al montaggio epilettico di Glenn Garland sono resi in maniera tale da creare confusione persino nel distinguere chi sia la vittima e chi il carnefice. Figuriamoci se si ha il tempo di inorridire.
Il modo in cui questi omicidi avvengono è poi un ennesimo difetto macroscopico del filmaccio in questione. Già, perché Myers ammazza a casaccio, un po' qua e un po' là, chi gli capita a tiro sulla strada del suo ritorno ad Haddonfield ed è in grado evidentemente di teletrasportarsi (o forse usa il cavallo bianco, che ne possiamo sapere noi) e di andare a cavare dentro una festa con centinaia di persone, proprio l'amica incauta di Laurie che si è andata a imboscare in un furgone con un cretino vestito da lupo mannaro.
Praticamente un genio, un veggente. O Capitan America. Con la vista che passa attraverso l'acciaio.
Ci sono tante di quelle incongruenze, voragini logiche e assurdità nella trama (trama?) che è impossibile elencarle. Per esempio: perché Myers va alla festa dove c'è Laurie, scanna un paio di persone e poi se ne va bel bello a casa della sua amica per sbucciare anche lei, quando Laurie è lì alla festa, ed è dall'inizio del film che ci ripetono che la sta cercando per riunire la famiglia?
Ma forse non bisogna neanche prendersela con Zombie, che si ostina a scrivere queste idiozie sesquipedali. Ci sarà qualcuno che questa sceneggiatura l'avrà riletta o revisionata prima di far partire le riprese?
No, tanto si tratta di un horror, "lo spettatore medio dell'horror è come un alunno di seconda media non troppo sveglio" (cit.) e allora chi se ne frega di una stupida sceneggiatura. Non è importante.
Tette, culi, urla isteriche, Sheri Moon (neanche scosciata, per la miseria) e un cavallo bianco stile pubblicità del bagnoschiuma, e abbiamo confezionato un film de paura.
Complimenti.
La regia di Zombie non è solo pessima. E'proprio non pervenuta. A meno che non si voglia chiamare regia quella di un videoclip girato da un gruppo di liceali ubriachi.
Zombie si limita a mettere la Red Cam nella centrifuga, inquadrare a casaccio le ferite (ma di sfuggita) e riprendere qualcuno che urla, qualcun altro che scappa e il nostro bamboccione mascherato che insegue, affetta e accoltella.
Il tutto intervallato da parentesi che vorrebbero essere oniriche, ma che sfiorano la comicità involontaria: l'immagine di Sheri Moon che si trascina dietro un ronzino bianco con l'espressione intenerita per le imprese del piccolo Michael, è da annali del cinema spazzatura, con velleità artistiche però.
L'imbarazzo non è solo dovuto alla pochezza con cui Rob Zombie si finge Lynch, ma anche al fatto che questi momenti di ipotetico onirismo dovrebbero spiegare le origini del male insito in Michael Myers: la mamma iperprotettiva e un po' zoccola. Che novità.
Cosa ci azzecchi in tutto questo il finale, che vorrebbe citare addirittura "Psycho", non è dato saperlo. I Myers sono geneticamente cattivi? La piccola Laurie è in realtà artefice di alcuni degli omicidi che credevamo commessi da Michael? Zombie non si degna di rispondere. Forse perché aveva erroneamente fumato l'ultima pagina della sceneggiatura. O ci si era soffiato il naso.
L'unica speranza è che Rob possa rivedere fino allo sfinimento questa immonda bruttura che ha concepito, pentirsi e passare ad altro, magari a quel Tirannosaurus Rex che pare sia in gestazione da un paio d'anni.
Che non metta mai più piede in quel di Haddonfield e che lasci in pace per sempre Michael Myers e John Carpenter. Non è roba per lui.
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Recensione a cura di L.P. - aggiornata al 06/11/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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