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Harry Bloch è uno scrittore di successo, apprezzato e ammirato da pubblico e critica. Il discorso cambia per quanto riguarda la vita privata: plurisposato e pluridivorziato, traditore impenitente, puttaniere recidivo, in analisi perenne, cinico, subdolo e disincantato, con ogni rapporto famigliare in frantumi. A tutto ciò si aggiunge la sua ultima fiamma che si sposa con il suo migliore amico, insieme al cosiddetto blocco dello scrittore a condurlo definitivamente sull' orlo di una crisi di nervi.
Al 27esimo film da regista, Woody Allen si smonta. Harry infatti è sì a pezzi ma si fa anche a pezzi: è l'unico modo per tentare un'analisi e magari tirare le somme per un bilancio della sua esistenza. La decostruzione è mentale ma evidenziata subito a livello formale: montaggio nervoso che spezza le azioni sul nascere (come dichiarato dall'incipit reiterato) e trama che procede a singhiozzi senza alcun preambolo tra passato, presente e futuro, tra realtà e immaginazione.
Allen lo fa utilizzando un linguaggio più irriverente ed esplicito del solito, soprattutto nei riguardi del sesso, e con un protagonista più attivo e concreto rispetto al passato (ad esempio, nelle precedenti pellicole è raro vederlo alla guida di un'auto). Rimangono i temi di sempre, gli stessi spunti geniali (passato già alla storia il Robin Williams sfocato) e un fuoco di fila di battute che basterebbero ad un' intera filmografia.
La Chiesa - tra l' aria condizionata e il papa scelgo l'aria condizionata - Dio - non sappiamo se Dio esiste ma sappiamo che esistono le donne... e alcune di loro vanno a servirsi da "Intimo Notte" - l'Amore - le due parole più belle non sono "ti amo" ma "è benigno" - l'Ebraismo - 6 milioni di ebrei uccisi e la cosa tragica è che i record sono fatti per essere battuti - niente e nessuno è risparmiato da un Allen tagliente come non mai, che procede cavalcando ancora con più forza quell'understatement che ci fa sentire leggerissime anche le cose più pesanti. Ma attenzione a non confondere forma e contenuto, a non sottovalutare dal tono dissacratorio un discorso molto più complesso di quanto voglia farci credere. E non può mancare l'analista, del quale però il nostro eroe non sembra più succube ma, tuttalpiù, abituato.
Il risultato che ne esce è un'accorata apologia sull'Arte, una sincera e appassionata riflessione sulla vita e sull'arte, sull'annosa questione se sia l'una a dover imitare l'altra oppure viceversa. Non si sa, la risposta pare non esserci, le due sfere rimangono nettamente separate pur accavallandosi e rincorrendosi in continuazione. Bloch mette la vita nei suoi libri e, viceversa, mette (o quantomeno ci prova) la sua arte nella vita, ma i risultati sono completamente opposti. È buona norma dei più accorti non cercare di conoscere personalmente i nostri idoli: scopriremmo probabilmente che l'opera che più amiamo fu concepita sulla tazza di un water! Il messaggio è chiaro ed Henry Bloch sarebbe d'accordo: tra arte e vita scegli l'arte. Lo diceva anche John Ford: tra realtà e mito scegli il mito. Ma soprattutto, non fare confusione fra le due. Infatti egli può sopportare tutto, anche l'Inferno e il carcere, ma non il blocco che gli impedisce di scrivere: l'arte non imita la vita ma è vita stessa, indispensabile per essa al pari dell'aria (lo scrittore in crisi creativa fu già protagonista di "Pallottole su Broadway"). Parlando della dialettica Arte/Vita automatico il richiamo a "La rosa purpurea del Cairo", fino ad ora il manifesto alleniano più programmatico al riguardo. Il succo è il medesimo, con la differenza che ora Allen non racconta una favola ma si mette in gioco in prima persona.
Nella parabola, infatti, dell'uomo che non funziona nella vita ma di cui solo la prosa è serena, quella prosa che in più di un'occasione gli aveva salvato la vita, non si può non vedere chiari riferimenti autobiografici alla vicenda dello stesso Allen ai tempi della separazione con Mia Farrow, seguita dal fidanzamento con la figlia adottiva, e a tutto quello che fu allora detto e scritto, alle accuse, alle insinuazioni, di avvocati e giornalisti (che non a caso sono messi tutti all'Inferno!).
«Come uomo sono così, non sono perfetto, ma la mia arte è un'altra cosa, funziona, ed è la cosa che più conta». L'ammissione è sincera e commovente. Nessun giustificazionismo generalizzato, anzi tutt'altro. Parte della critica ha ravvisato in questo film uno smarrimento "metafisico", tale visione non ci trova concordi in quanto ci si trova di fronti bensì ad uno smarrimento che è tutto personale e individuale, di Allen si assume tutte le colpe.
«Sono in overdose di me stesso» ammette, scoprendosi anch'egli fuori fuoco. E ancora una volta è l'arte a salvargli la vita, sono i suoi personaggi ad applaudirlo nel finale, a fargli ritrovare la vena creativa e ad aprirgli gli occhi nel corso del film su che cosa sia la sua esistenza, sul dolore che il suo comportamento ha causato, sulla vera natura dei suoi famigliari, troppo spesso disprezzati solo per una superficiale presunzione di superiorità (vedi lo spaccato con la sorella). L'Allen vero e gli Allen inventati si completano a vicenda, solo così può riuscire a trovare un equilibrio con se stesso, solo attraverso la lente dell'immaginazione può riuscire a mettere a fuoco la realtà, solo attraverso gli occhi dell'invenzione può vedere più chiaramente il mondo.
La vita è piena di azioni stupide e banali, come può esserlo il guidare una macchina o l'andare a ricevere premi di cui non te ne frega niente, piena di tempi morti, di parole e frasi sbagliate dette a sproposito. L'arte invece può depurarla di tutta la prosaicità e ricavarne poesia (<
Certo Bloch scrive libri, Allen fa film ma il parallelismo è una metafora che non necessita di grandi spiegazioni. A maggior ragione per un artista i cui confini tra autore, attore, uomo e personaggio hanno sempre provocato lunghi dibattiti.
In questo senso "Harry a pezzi" è l'ultimo vero film di Woody Allen. Quelli che lo hanno seguito, da "Celebrità" a "Criminali da strapazzo", da "Accordi e Disaccordi" a "La maledizione dello scorpione di Giada", sono pellicole che ad una vacuità e ad una svogliatezza di contenuti aggiungono una grossolanità estetica che è molto più che sintomatica.
La volontà di dedicarsi al più totale disimpegno si era verificata già in precedenza del resto, con le incursioni, durante gli anni '90, nel giallo, nella parodia, nella commedia degli equivoci, fino addirittura al musical. Ma con una differenza: messi (relativamente) da parte esistenzialismo e filosofia, "Misterioso omicidio a Manhattan, Pallottole su Broadway, La Dea dell' Amore" o "Tutti dicono I love you" sono sì pellicole leggere fin che si vuole, ma tuttavia di ottimo livello, tecnicamente e artisticamente eleganti e raffinate, piene di momenti comici, poetici e comici e poetici insieme (il ballo sulla riva della Senna con Goldie Hawn che vola librandosi in aria, è uno che può valere per tutti). I tempi però di capolavori come "Io e Annie", "Manatthan" o "Zelig" sembravano ormai sepolti.
Nel 1997 invece, con "Harry a pezzi", Allen tornava, quasi senza che ce ne accorgessimo, a volare alto tra le vette del suo cinema, e riprendere le fila di quel discorso che attraversa e unifica l'intera sua opera e che otto anni prima sembrava definitivamente concluso con "Crimini e Misfatti". Si rideva ma si rideva amaro allora: il Male trionfava in modo completo, la verità in possesso degli uomini non era che un'immensa Menzogna, il fallimento del protagonista totale, senza nessun merito che sarebbe stato ripagato né colpa che sarebbe stata punita. <
"Harry a pezzi" invece assesta il tiro: nonostante tutto una speranza c'è e questa speranza è l' Arte. La vita non sarà bella come vuole farci credere Benigni, ma l'Arte può farcela sopportare meglio e magari regalarci momenti per cui questa vita vale la pena di viverla. Con "Harry a pezzi" Allen ce lo dice e nello stesso tempo ce lo dimostra. Se ce ne fosse bisogno ancora una volta.
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Recensione a cura di mirko nottoli - aggiornata al 22/09/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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