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Nell'analisi di un film sarebbe indispensabile chiarire bene fin da principio in quale ambito ci si muova, e con quali intenzioni.
La pregiudiziale si impone con autori molto eclettici, abituati ad operare su piani diversi, con linguaggi differenti. In tal caso lo studio critico dovrebbe inizialmente individuare la priorità dei diversi livelli, analizzandoli separatamente. In un documentario, ad esempio, si pretende una veridicità assoluta ed essenziale sul piano della informazione, in mancanza della quale lo stesso non avrebbe ragione di esistere.
Lo stesso varrebbe nel caso di un film storico vero e proprio, che tenda a rappresentare un'epoca attraverso fatti e vicende reali.
In altri casi, come nel romanzo ottocentesco, possono coesistere vicende private di fantasia, se pure con rispettoso riguardo alla credibilità del contesto temporale.
Per culminare, estremizzando, con il genere più commerciale della fiction, dove lo sfondo epocale serve da semplice supporto a racconti di pura fantasia per una lettura "leggera".
Che esista un modo unico ed obbligato di condurre un racconto cinematografico proprio non si può dire, e neppure che i diversi generi non possano miscelarsi assolutamente. Ma in questo caso il dovere del critico diventa innanzitutto quello di valutare se le diverse componenti si siano integrate armoniosamente ed in modo compiuto.
La lunga premessa si rende necessaria per entrare nel merito del giudizio su "Hotel Meina", uscito nelle sale nei giorni commemorativi dell'olocausto, ultimo lavoro del celebratissimo regista Carlo Lizzani, per il quale valgono le riserve sopraccitate.
Eclettico professionista, il nostro autore ha spaziato nella sua lunga carriera su fronti molto diversi: maestro del documentario, che l'ha portato a sposare la causa del neorealismo impegnato prima, e del cinema storico poi, ha iniziato in effetti come validissimo sceneggiatore dei più famosi film del dopoguerra, lavorando con Francesco De Santis e Roberto Rossellini.
Passato alla regia con film di azione su gravi fatti di cronaca nera ("Achtung Banditi", "Il Gobbo", "Banditi a Milano") , passava poi a produzioni più rigorosamente storiche come "Il processo di Verona" o il recente "Maria Josè" televisivo. A tanta esperienza andavano ad aggiungersi la frequentazione amichevole e la proficua collaborazione coi più grandi registi dei nostri tempi, da Godard a Bellocchio, da Antonioni a Pasolini ed altri ancora.
Quanto emerga di un così prestigioso background nella lettura di "Hotel Meina" non è facile a dirsi. Sul piano narrativo, la pur tragica vicenda ha una allure sostanzialmente episodica, senza il respiro della grande storia. La caratterizzazione di molti personaggi risulta manierata, come in particolare quella delle povere famiglie ebree "ghettizzate all'interno dell'hotel"; quasi macchiettistica per alcuni. Per non parlare della figura del capo delle SS, protagonista maschile del film, non minimamente credibile come figura e personaggio, ai limiti del caricaturale.
Sullo sfondo storico della vicenda si innestano poi la vicenduola amorosa di una coppia di ragazzini, svenevolmente sentimentale come nelle fiction televisive; forse a dimostrare che, all'età veneranda dell'anziano regista, questa non sia più materia per il suo dire (o fare).
Come pure risulta abborracciato e pretestuoso l'intervento delle fantomatiche forze partigiane che cercano di collaborare con l'esterno: un elemento di maniera appiccicaticcio, poco difendibile. O come quello del barone tedesco che, cuor di leone, manda l'amata in vece sua a salvare un anziano notabile della resistenza, procacciandosi così un passaporto per il futuro "democratico" après le déluge.
L'insieme, evidentemente, non può convincerci, malgrado le credenziali del bravo Lizzani.
Alla fine di una onoratissima carriera, evidentemente, non è detto che si facciano altri capolavori, come dimostrano certe opere senili di tanti autori.
Pregevoli comunque alcuni elementi, come la fotografia (pur sempre di Lizzani si tratta), e l'interpretazione della fraulein tedesca (Ursula Buschhorn ), intensa, credibile e bellissima.
Un ultimo commento nel merito del soggetto, sul piano storico.
Vero che il film esce nel giorno dell'olocausto, vero pure che è materia trattata ormai innumerevoli volte, da oltre 60 anni, anche nel cinema (in ultimo da Benigni e Spielberg). Conservandone dunque la doverosa e tragica memoria, non sarebbe meglio che gli autori di oggi guardassero a ferite aperte, ancora sanguinanti, come alla striscia di Gaza, all'Iraq o a tanti Paesi dell'Africa nera? O, guardando ancora più indietro, ci raccontassero ad esempio dello sterminio dei boeri in Sudafrica nell'800, un vero genocidio degli inglesi; o l'eliminazione di otto milioni di kulaki bianchi da parte di Stalin?
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 05/02/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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