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Truffaut (1932-1984): pessimi rapporti con le istituzioni scolastiche, due genitori impegnati nel lavoro. Poi, l'incontro con André Bazin. Fonda un cineclub durante una fuga dalla famiglia. Ripreso, è condotto in riformatorio, da cui lo fa uscire Bazin che, dopo un'infelice esperienza fra le truppe in Indocina, gli procura un lavoro prima al servizio cinematografico del Ministero dell'Agricoltura, poi come redattore nella rivista da poco fondata: i "Cahiers du cinéma". A partire da questi spunti autobiografici, nel 1959 Truffaut dirige il suo primo lungometraggio, "Les quatre-cents coups" ("I quattrocento colpi").
Presentato a Cannes, il film viene premiato con il Palmarès per la regia. Il suo successo serve a lanciare la nouvelle vague e i suoi autori. Il titolo (mal tradotto nell'edizione italiana) vuol dire "fare il diavolo a quattro".
Antoine Doinel vive con i genitori, che non lo capiscono e lo trascurano, in un piccolissimo appartamento di Parigi. Ogni gesto o azione di Antoine è evidentemente una protesta e una difesa dal mondo ostile che lo circonda. Anche a scuola Antoine si trova male e ha un compagno per i suoi piccoli misfatti, René. Un giorno Antoine inventa la morte della madre per giustificare un'assenza da scuola, ma viene scoperto e fugge di casa. Ritrovato, il ragazzo riceve dai genitori dimostrazioni di affetto e disponibilità che lo inducono a promettere di essere bravo e buono; però a scuola un professore lo accusa di aver copiato il tema e Antoine scappa di nuovo a casa di René. I due rubano una macchina per scrivere dall'ufficio del padre di Antoine. Non riuscendo a rivenderla, saranno scoperti proprio quando la riportano nell'ufficio. Antoine è arrestato e affidato a un riformatorio, ma durante una partita di pallone scappa e, come aveva sempre sognato, arriva al mare che non aveva mai visto.
Verso dove corre il giovanissimo Jean-Pierre Léaud nella scena conclusiva del film d'esordio di Truffaut?
Di sicuro sta fuggendo via, via dal carcere della famiglia, della scuola, del riformatorio, e questo fuggire ha in sé già un'essenza salvifica, liberatoria, è movimento e dunque emancipazione da ogni costrizione, è finalmente libertà cinetico-motoria, libertà espressiva, libertà tout court. Truffaut segue tale fuga con la massima adesione concepibile: interminabile la corsa del ragazzino evaso e interminabile il piano-sequenza con cui tale corsa viene ribadita tramite una camera-car, cosicché, in una complicità senza residui, attore e regista diventano un tutt'uno indissolubile, profilmico e filmico (l'antistante e il retrostante rispetto all'obiettivo della cinepresa) collimano in un'empatia viscerale.
Sin qui, però, Truffaut non è poi tanto distante dal finale de "I vitelloni" (1953), in cui Fellini fa salire in treno il trentenne protagonista Moraldo e lo porta via con sé in uno struggente congedo dalla statica esistenza della provincia: la macchina da presa entra in casa dei cari da cui Moraldo si allontana come se volesse dare loro un'ultima dolente carezza, il distacco è colmo di tenerezza ma è necessario quanto l'aria dopo l'apnea. In un caso simile non è forse rilevante nemmeno la meta, ciò che conta è innanzitutto il mettersi in moto, "on the road" dirà Kerouac, come "easy rider" aggiungerà Dennis Hopper, perché "motion is emotion" ribadirà Wenders.
Eppure l'ultimo decisivo frangente de "I quattrocento colpi" non è questo, anzi è tutt'altro e quindi è ben diverso dai vari Fellini, Kerouac, Hopper e Wenders.
Truffaut fa fermare il proprio protagonista sul bagnasciuga: fra terra e mare, Léaud non può più andare avanti, non può più tornare indietro, allora si volta verso la cinepresa e vi guarda dentro, guarda noi e ci interpella a tu per tu per chiederci angosciato: "E adesso, che fare?". A questo punto il film si ferma, cioè si ferma anche il fotogramma, che poi viene semplicemente ingrandito per salti fino a quando lo sguardo di Léaud riempie e buca lo schermo.
Da fissità a fissità, immobilità per immobilità, stasi per stasi.
Nel "Simposio" Platone fa dire a Socrate che Eros non è un dio ma un demone, intermedio tra bruttezza e bellezza, tra ignoranza e sapienza, figlio di Penìa e di Poros. Penìa è la povertà, la mancanza e la privazione del Bene e del Bello, Poros invece è l'espediente, la risorsa, la ricchezza, la via d'uscita e di riuscita. Eros è desiderio, e desiderare significa patire l'assenza di qualcosa che è sempre al di là di ciò che già si possiede, significa vivere l'agostiniano "inquietum cor", l'hegeliana coscienza infelice di chi ha sempre in mente, nell'Ideale dell'Io, qualcosa di meglio, un sovrappiù rispetto al reale. Ma finché c'è movimento c'è prassi e perciò c'è l'azione del colmare la penìa: c'è insomma Poros a disposizione, c'è l'eventualità dell'esaudimento/gratificazione di Eros/desiderio. Invece senza Poros rimane solo l'a-poria, l'assenza di vie di sbocco, restano solo lo stallo della prassi, l'agonia e il lutto del soggetto desiderante, la morte dell'Io.
Truffaut nel 1959 ci conduce, alla fin fine, precisamente a questo che è il nostro odierno punto di catastrofe.
Mauro Lanari
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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 07/07/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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