Recensione il bacio dell'assassino regia di Stanley Kubrick USA 1955
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Recensione il bacio dell'assassino (1955)

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locandina del film IL BACIO DELL'ASSASSINO

Immagine tratta dal film IL BACIO DELL'ASSASSINO

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Secondo lungometraggio per Kubrick che firma anche il soggetto originale, la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio e la produzione. Realizzato nel 1955 in 20 giorni per 75.000 dollari.
Kubrick rielabora sapientemente alcuni codici tipici del genere noir preannunciando quella che sarà la funzione artistica più significativa della sua storia di grande cineasta: potenziare il sistema dei generi Hollywoodiani dandogli nuove forme linguistiche e assemblaggi intercomunicativi di rilievo. Kubrick lascia il segno in quella che è da sempre una delle sfide storiche del cinema: portare la filmitudine del film, cioè la sua capacità di designare se stesso (attraverso la sintassi e la morfologia linguistica iconica), a livelli più elevati; ciò al fine di dare maggiore spessore comunicativo e scorrevolezza narrativa al racconto filmico. Kubrick gioca questa partita nel campo delle enunciazioni impersonali o luoghi filmici (Christian Metz) dando un contributo tecnico vincente perché costituito da teoremi visivi nuovi in grado di tradurre sempre meglio i pensieri in immagini.

Questo film consente autorevolmente al pubblico di fare esperienza con il talento straordinario di Kubrick. Talento che si precisa e si riconosce nella capacità del regista di rappresentare una storia senza mai sfilacciarne la corda narrativa. Questione anche di studio e di lavoro (20 ore al giorno) nonché di idee puntualmente chiare sugli obiettivi da raggiungere: quale l'andare oltre l'inventato avvalendosi della forza-risorsa che il confronto incessante con i limiti linguistici dei film del passato gli dava.

Ne Il bacio dell'assassino la cura tecnica e narrativa della fotografia in bianco e nero (ricercata e impressionista) è sorprendentemente nuova. Kubrick è sempre attento a dare all'inquadratura lucidità visiva e profondità significante eccelse, inoltre riesce a presentarla come elememto figurativo, metonimico e metaforico con una puntualità quasi maniacale rispetto alle esigenze del montaggio. Elementi figurativi e metonimici sempre pertinenti a quelle che saranno le emozioni in gioco nel film e i trasporti emotivi preparatori alla soluzione dell'enigma in costruzione: vedi la deformazione del viso di Davy attraverso il vetro contenitore dell'acquario, con la telecamera posizionata di fronte al secondo vetro contenitore, una scena che sembra preannunciare i toni animaleschi che assumerà l'imminente scontro pugilistico contro Gordon ma anche la prigionia esistenziale in cui si trova Davy in quel momento: dalla quale inconsciamente cerca di sfuggire.
Più avanti Davy in sonno vedrà l'immagine di un grande viale della città di New York, percorrerà il viale con l'immaginazione lungo una interessante modalità visiva della scena: con la pellicola in negativo. Il negativo dà un effetto incubo che fa perdere i contatti con i contorni ben definiti del reale che Davy sta vivendo in quel momento. Una scena che avverte telefonicamente lo spettatore dei guai che la passione per la bella vicina Gloria porterà a breve a Davy; il pugile verrà risvegliato dagli urli della ragazza che è anche sua vicina di casa, Gloria lo porterà subito ad essere testimone di una scena d'aggressione libidica nei suoi confronti da parte del padrone del locale notturno Vincent. Scena che sarà decisiva per la vita immediata e futura di Davy e Gloria perché l'uomo interviene a difesa della donna e inizia una relazione con lei.

Avvincenti verso il finale gli inseguimenti sui tetti di New York (cosa sarebbe il cinema senza le scene di inseguimento?); da sempre nella storia del cinema le corse sui tetti richiamano qualcosa dell'immaginario collettivo più remoto; evocano l'altrove della fuga, tra luoghi inusuali che la polizia e il vicino di casa possono non conoscere lasciando quindi al riparo da ogni intrusione nel proprio senso della libertà immaginifica. Le tegole o i piani dei tetti delimitati da muretti che compaiono all'improvviso e che occorre saltare (spesso infortunandosi) o scavalcare a seconda dell'altezza per proseguire la fuga divengono parte del codice linguistico noir. Elevano l'interesse narrativo rappresentando per ogni tipo di uomo braccato l'ultima possibilità di scampo; fuga anche da chiunque assuma nella propria vita le sembianze di uno straniante inseguitore: metafora delle peripezie esistenziali di ciascuno.

Come racconto questo film racchiude centralmente, dietro le quinte di ciò che appare come spettacolo noir, un trauma psicologico che riguarda la bionda protagonista Gloria.
Gloria soffre di un complesso di colpa per il suicidio della sorella. E' malinconica per non essere riuscita ad amare la sorella Iris (l'attrice Ruth Sobotka, seconda moglie di Kubrick) come sarebbe convenuto in una famiglia dignitosa e piccolo borghese. L'assenza d'amore verso Iris è dovuta a un forte conflitto: la sorella era sempre la più ben voluta e stimata in famiglia. Iris giunge al suicidio dopo aver sacrificato la sua passione per la danza alle esigenze di sopravvivenza della famiglia: sposando un uomo ricco che non amava.

Dopo il suicidio Gloria si ammala di depressione.
Il serio disturbo psichico la porterà a fare scelte di lavoro un po' autopunitive fino al punto da mettersi in guai seri. La sua bellezza e i suoi modi graziosi ed eleganti vengono brutalmente sfruttati in un locale notturno per uomini di New York. Il padrone del locale Vincent ha trascorsi poco puliti nonché nel presente ha tendenze criminali prive di scrupoli. Si infatuerà di Gloria per la sua bellezza e arrendevolezza. Un'arrendevolezza però sintomatica che testimonia e nasconde nello stesso tempo i seri problemi patiti nel passato in famiglia. Ma Gloria ama Davy e non può fare a meno a un certo punto di manifestare la sua repulsione per Vincent. L'amore tra Davy e Gloria è fortemente contrastato dall'intervento di Vincent che divorato dalla passione per Gloria vuole uccidere Davy.

Lo scontro fra i due uomini è dal punto di vista visivo memorabile perché avviene in un vecchio magazzino di manichini di donne, in mezzo a corpi mutilati e mani finte penzoloni che danno l'idea di protesi con caratteristiche simboliche. Protesi-metafore che si riallacciano ai contenuti salienti presenti nel film. Il film sembra infatti voler dire che la bellezza della donna non sempre è fruibile per uno scambio d'amore fertile di felicità. A volte le circostanze problematiche della vita possono portare ad usare il corpo femminile come protesi e manichino. Nel senso che ciò che viene a formarsi in noi dopo alcune difficoltà esistenziali giace come mancanza indistruttibile in un altro nostro registro psichico: in una parte stratificata dell'inconscio, importante e oscura; una zona che è in relazione con il tempo degli eventi patiti; qualcosa di sé dimenticato ma attivo e funzionale alla creazione di sintomi di insicurezza sociale e perdita di identità. Allora la ricerca della libertà diventa per Davy problematica perché essa appare fittizia, sintomatica, malata di ciò che è accaduto in modo negativo nel suo passato. Davy non può liberarsi da quello che è perché quel che lui sembra dimenticare rimane attivo in un altro registro psichico, più inconscio.

Kubrick sembra voler dire che la libertà non sempre è un'esigenza semplice e chiara dell'essere umano, qualcosa che è possibile perseguire senza remore, essa può a volte assumere la caratteristica di una fuga; una fuga contorta come è ad esempio quella che intraprende Davy dai suoi ricordi spiacevoli; ricordi che per via del lavoro della rimozione percepiamo appena e in modo distorto complicandoci le relazioni con il mondo.

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 29/03/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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