Voto Visitatori: | 5,23 / 10 (20 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 5,00 / 10 | ||
E' doloroso dare un giudizio negativo su di un film, quando ha una confezione splendida. "Il cecchino" di Michele Placido è un sentito omaggio a un genere, il polar francese, messo in scena favolosamente. Resta impressa la fotografia fredda, plumbea di Arnaldo Catinari, che esplora l'intera gamma cromatica del blu, e succhia l'anima a una Parigi trasformata in una respingente superficie di acciaio, asfalto e pietra levigata. Le scene d'azione sono girate in maniera adrenalinica, con un montaggio serrato in cui confluiscono armonicamente tanto le panoramiche sui tetti quanto i primissimi piani sui volti concitati, sul sangue e sul sudore.
Dirigere bene è il minimo, forse, se si ha alle spalle una produzione importante. Tuttavia ne "Il cecchino" ("Le gutteur", nel titolo originale) Michele Placido si avvale con efficacia del comparto tecnico dimostrando di avere stile. Conferma, dopo "Romanzo criminale" (2005) e dopo il forse anche migliore "Vallanzasca" (2010), di saper parlare benissimo il linguaggio del genere gangster.
I due precedenti erano entrambi "romanzi", molto connotati in senso melodrammatico, e in questo senso dovevano tanto a Scorsese, e (insieme a Scorsese) risentivano di una tradizione che ha, nel proprio dna, qualcosa di italiano, che attinge a opera lirica e commedia dell'arte. L'essenza stilistica de "Il cecchino" è invece ben calata, appunto, nel polar francese, e perciò quasi completamente asciugata di ogni componente romantica, come di eccessive indulgenze sul privato dei personaggi. Senza scomodare i mostri sacri del polar, "Il cecchino" ha quanto meno un occhio di riguardo per Olivier Marchal ("36 Quai des Orfèvres", 2004; "L'ultima missione", 2008 - entrambi con Daniel Auteuil, protagonista anche de "Il cecchino").
Il problema del film di Placido, film su commissione, sta nello script di Cédric Melon e Denis Brusseaux. Nelle dinamiche fra i personaggi, nell'interazione fra esse e negli sviluppi. Il difetto non è da poco, perché l'anello debole della pellicola è niente meno che la trama, dal cui intricato intreccio non scaturisce un senso che sia convincente quanto lo stile.
I tre personaggi principali sono accomunati dalla profonda solitudine di ognuno - un cliché un po' abusato nel genere - e interpretati alla grande dai rispettivi interpreti, tutti grossi calibri del cinema francofono: Daniel Auteuil, Olivier Gourmet, Mathieu Kassovitz.
Il poliziotto interpretato da Auteuil è il più convincente. La sua psicologia è la più approfondita; progressivamente si chiarisce il secondo movente delle sue azioni, sin dall'inizio non proprio ortodosse, che hanno radici in un dolore, un'ossessione, in cui risiede la fragilità umana di un personaggio apparentemente irreprensibile.
Il cecchino interpretato da Kassovitz è il deuteragonista (a dispetto del titolo): il classico nemico del poliziotto in una sfida personale che va al di là del bene e del male (il rapporto fra i due vorrebbe echeggiare probabilmente quello fra De Niro e Al Pacino in "Heat - La sfida" di Michael Mann). Tuttavia il personaggio di Kassovitz resta parzialmente inespresso e troppo ambiguo. Privo dell'approfondimento che pretenderebbe di avere. Non ne giova, il film: né in termini di comprensibilità - la pellicola è involuta sino all'eccesso, squilibrata - né, soprattutto, in termini di spessore dell'opera.
Al terzo incomodo - il medico interpretato da un bravissimo, smagrito Gourmet (attore feticcio dei Dardenne) - è affidato il carico più pesante: quello di assumere su di sé l'abominio di un male assoluto, patologico e spaventoso. Anch'esso resta, come il personaggio di Kassovitz, non spiegato ma solo accennato (non bastano a chiarircelo alcune scene di grande crudezza; né esiste male tanto grande da non poter essere compreso).
Il film mette molta carne al fuoco, perdendo compattezza. A lungo andare, cala anche la tensione e si smarrisce gran parte della credibilità. L'intreccio è completamente sbilanciato a vantaggio della messa in scena, come se Placido si fosse troppo preoccupato dello stile e avesse messo fuori campo la sostanza.
I temi cui "Il cecchino" allude (i diversi livelli di mostruosità del male; la debolezza umana in cui può incorrere chi quel male lo combatte) non sono mai approfonditi. Non ce n'è il tempo: non lo consente una trama troppo arrovellata su se stessa, zeppa di colpi di scena che corrono in avanti, perdendosi per strada gli universi che si celano dietro di essi. Alla fine, gli elementi di senso appaiono posticci, messi insieme a fatica per giustificare quello che, negli intenti e nell'effetto complessivo, rimane solamente un "progetto". Da parte di Placido, si scorge tutto l'entusiasmo dell'esercizio di stile, nell'omaggio a un genere condotto con la volontà di mostrare di padroneggiarne i codici. Da parte della megaproduzione internazionale, invece, si scorgono solo le comprensibili ragioni di ordine commerciale. "Il cecchino" rimane un film privo di reale esigenza espressiva.
Quanto agli ulteriori interpreti coinvolti nel progetto (c'è persino un cameo di Fanny Ardant), Violante Placido e Luca Argentero, di loro sarebbe meglio tacere. C'è, fra loro, uno scambio di battute che sfiora il ridicolo, che ci ricorda le prove imbarazzanti di Placido come regista di melodrammi sentimentali, e fa vacillare per un attimo il solido impianto scenico del film, virando pericolosamente verso l'inverosimiglianza odierna della fiction televisiva italiana. Meno male che è solo un momento: la sceneggiatura mantiene ai margini i ruoli dei due interpreti italiani: in questo caso è benvenuto il fiato corto del film, nella sua volontà di non concedere (quasi) nulla al melodramma.
Ma è davvero possibile che un commissario di polizia (per quanto motivato da un profondo turbamento personale) possa mettersi a sparare in mezzo alla folla da su di un tetto, a centinaia di metri di distanza? Va bene che siamo in un film: ma inverosimiglianze del genere in un film si apprezzano se condite da giuste dosi di ironia. "Il cecchino", invece, come il genere vuole (non è un action, è un polar), si prende assolutamente sul serio. E allora dovrebbe rinunciare a certe scelte ad effetto.
Inverosimiglianze come questa sono la conferma di dove si trovi l'anello debole del progetto: nella sceneggiatura, purtroppo per Placido. Che però è responsabile di averla accettata e di essersi messo al suo servizio.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 13/12/2012 16.16.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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