Voto Visitatori: | 7,90 / 10 (74 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Nel film "Il cielo sopra Berlino", vincitore a Cannes nel 1987, Wenders porta sullo schermo, con il coraggio che lo contraddistingue, idee e pensieri cinematografici nuovi, magistralmente tradotti in immagini di rara bellezza, dove sono la meraviglia e lo stupore a dominare le scene, come si conviene ad un film dalle grandi ambizioni poetiche. Wenders con questa pellicola vuol trovare e proporre un proprio lessico artistico, lontano dalle forme ibride e convenzionali del linguaggio filmico commerciale.
Il film inizia con una voce maschile fuori campo, dal tono ispirato, fremente di emozioni, modulata da un misterioso sentimento di pace, che accompagna, traducendola dal tedesco, l'elegante scrittura di una poesia, compilata su un fine foglio bianco con una penna da calamaio a inchiostro nero:
"Quando il bambino era bambino era il tempo di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu; perché sono qui, e perché non sono lì; quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio; la vita sotto il sole è forse solo un sogno? C'è veramente il male? E' gente veramente cattiva? Come può essere che io, che sono io, non c'ero, e che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?"
Per comprendere e capire al meglio "Il cielo sopra Berlino", Wenders suggerisce una chiave di lettura poetica, estraibile dall'incantevole poesia introduttiva al film, il cui contenuto si impone al centro della narrazione.
E' una chiave con cui è possibile cogliere, già nella superficie del racconto, il movimento di emozioni storiche vive, significative, appartenenti alla vita dell'uomo contemporaneo, affioranti da una dimensione fiabesca ed estetica delle scene, intessute da raffigurazioni di rara bellezza. Wenders avvolge lo spettatore in un mistero vivo che interroga e istruisce, sorprende, slegando la trama sia da un ordine prevedibile che dalla costruzione di un finale a sorpresa.
La poesia citata all'inizio racchiude preziose riflessioni dal sapore esistenziale, intessute di domande e interrogazioni giocose, ingenue, che ruotano intorno a questioni un po' irreali ma facenti parte di quel desiderio astratto, potente, a volte oscuro, che tende alla realizzazione di qualcosa di fondamentale del proprio sé. Sono versi che racchiudono domande spontanee, semplici, un po' istintive, proprie dell'infanzia, di un periodo magico e ingenuo, in cui non si comprendono ancora fino in fondo i segreti meccanismi del vivere adulto, e tuttavia il pensiero di poter padroneggiare il mondo domina ogni gesto.
Solo la perdita della propria identità storica fa sì che esse ad un certo punto si ripresentino con forza alla coscienza, con la stessa insistenza di una volta, quasi a voler ricomporre, riparare, rimediare a ciò che il passato ha scisso, diviso, occluso.
Paradossalmente, sembra affermare Wenders, è proprio nella fase più fantasiosa del bambino, quella un po' simile all'animismo dei primitivi, che si formano, in modo indelebile, emozioni straordinarie, visionarie, di una poeticità unica, potenziate dalle difficoltà per il bambino a comprendere e differenziarsi dagli oggetti del mondo circostante. Il cielo diventa allora la metafora del luogo celeste e luminoso, privo di ogni divisione e confine, da cui è possibile gettare su Berlino, divisa dalla guerra, uno sguardo altro, innocente e puro come quello appartenente agli angeli.
Wenders affronta con la poesia il tema della crisi di identità del popolo tedesco, sorta a seguito dell'olocausto e della sconfitta subita dalla Germania nella seconda guerra mondiale, attingendo prezioso materiale storico dal passato, rielaborando alcuni ricordi e interrogativi filosofici legati alla propria infanzia che per affinità di pensiero sono contigue ad alcune poesie del boemo Rainer Maria Rilke, vissuto verso la fine dell'ottocento.
Il regista tedesco sembra chiedersi: è possibile per il popolo tedesco la poesia dopo il genocidio degli ebrei? Oggi si può ancora ritrovare il piacere del verso libero ed il rispetto per il prossimo? Inoltre, riprendendo la poesia citata all'inizio: la gente cattiva è veramente cattiva? Infine, sembra dire Wenders, possiamo rivivere con il ricordo la gioia che si prova da bambini, senza sentirci più in colpa per quel che è successo?
Queste domande sono rivolte al pubblico in sala, ed è per questo che Wenders non dà risposte esaurienti; il regista tedesco non può che limitarsi a sottolineare come sia necessario un recupero di interesse per il ricordo, per i miti che racchiude, compreso quello della razza, al fine di poter riscoprire la serenità e la gioia della poeticità di ciascuno.
Wenders si cala nelle vie ombrose e grigie di Berlino, riprendendo con insistenza i cordiali e usuali gesti dei passanti, diversi piccoli dettagli della vita quotidiana, cose minime ma sufficienti a suscitare nei due angeli, protagonisti del film, un sentimento di invidia.
"Il cielo sopra Berlino" è un film suggestivo, dall'intonazione malinconica, a tratti struggente, ideato dall'autore Wim Wenders nell'imminenza del suo ritorno nella nativa Germania.
Wenders con questa pellicola sembra voler rinunciare definitivamente a gran parte di quei meccanismi psicologici che favoriscono da sempre nel cinema tensioni da suspense e costruire in modo vivo, credibile, originale, inediti intrecci tra personaggi, collocandoli su un piano di espressione surreale che, a differenza del surrealismo usato da Bunuel nei suoi film, non vuole provocare o irridere, ma suscitare nelle coscienze dei tedeschi pensieri d'amore e passione per la poesia.
Ne "Il cielo sopra Berlino" Wenders inserisce un nuovo dispositivo filmico, dal carattere un po' metafisico, irreale, fantastico, presentando due angeli, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), immersi nella vita quotidiana di Berlino, intenti ad ascoltare, visibili solo ai bambini, ciò che accade in una città tormentata.
Gli angeli diventano per l'autore tedesco uno strumento indispensabile per la costruzione di scene di una certa efficacia lirica e comunicativa; la loro funzione è di raccogliere i numerosi monologhi interiori dei cittadini berlinesi rendendo partecipe lo spettatore di un concerto di pensieri insolito, ricco di contrasti, piacevole, a volte seducente, che cattura l'immaginazione di ciascuno.
Il film è ambientato in una Berlino triste, enigmatica, devitalizzata, che anziché interrogarsi sul futuro si piega nella rassegnazione, chiudendosi nel presente, quasi straniera a se stessa, annichilita dalla divisione in due, umiliata, relegata nella vergogna del ricordo ossessivo dell'olocausto, condannata a rispettare la presenza invasiva di forze militari straniere che sembrano volerla proteggere da nuovi eventi apocalittici, come se la Germania potesse ancora fare del male, creare, materializzare, nuovi e mostruosi fantasmi.
La cinepresa segue gli angeli girando invisibile nelle vie di Berlino e le camere degli appartamenti dei cittadini, catturando un'atmosfera cupa, reale, grigia che sembra far tutt'uno con l'immaginario di una popolazione depressa per la mancanza di un'identità.
Nel film Berlino vive in un tempo immobile, dove tutto appare malato, affetto da paralisi comunicative, isolato dal mondo, un'atmosfera di morte evidenziata da una città che mostra malinconicamente le sue rovine belliche intatte, prive di restauri, divenute ombrosi monumenti alla memoria, ricordi della propria tragica storia, souvenir per giovani turisti.
L'Anhalterbahnof, una delle stazioni ferroviarie più famose d'Europa, appare nel film simile ad uno scheletro tronco, ad un fantasma pauroso, orripilante, circondato dal fango; la Potsdamerplatz, una delle piazze più amate dagli intellettuali e artisti berlinesi, è ridotta nel film ad una desolante distesa di terra e rifiuti, funestamente incorniciata dal famoso muro divisorio.
Questa indimenticabile opera di Wenders ha appassionato e diviso il mondo della critica cinematografica, ricevendo apprezzamenti e stima da coloro che prediligono la forma su tutto il resto e critiche fortemente polemiche da chi cerca nel film prevalentemente messaggi potenti inseriti in una struttura di trama filmica chiara e coerente.
L'opera di Wenders, al di là delle divisioni createsi nei critici e negli esteti cinefili, è una pellicola coinvolgente ed avvincente, sia sul piano formale, per le non facili invenzioni liriche che hanno rappresentato al meglio la poetica dell'autore, che su quello dei contenuti, per i messaggi di pace rivolti al pubblico, spesso invitanti a un dialogo dai modi tolleranti e garbati, premesse necessarie per entrare i un'atmosfera poetica, evocativa. Il film è intessuto magicamente di un amore comunicativo altro, asessuato, situato al di là di ogni irruenta e cieca passione.
"Il cielo sopra Berlino" è una pellicola particolare, che solo apparentemente è dominata dal fantastico, da un genere cioè privo di un oggetto vero, lontano da ogni concretezza esistenziale; in realtà i numerosi dialoghi interiori dei personaggi del film riflettono un sub-mondo interiore, prigioniero del passato, ossessionato da una storia che non si riesce a dimenticare.
La pellicola è stata sceneggiata da Wenders in collaborazione con lo scrittore amico Peter Handke, che è riuscito a dare ai pensieri autobiografici del regista tedesco più ordine nella scrittura ed una migliore capacità comunicativa; aspetti da non sottovalutare, visto che la cura formale delle scene ha influenzato in modo eccellente tutto l'impianto narrativo dell'opera.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 26/06/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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