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Ci sono alcuni film che sanno farti sorridere e altri che sanno farti commuovere.
Poi ci sono quelli che sanno farti pensare.
Ecco, "Il colore della libertà" è uno di questi, uno di quei piccoli film che ti entrano nella coscienza e ti parlano al cuore.
Il colore della libertà o, per meglio dire, una vita per la libertà, è la vita vissuta da Nelson Mandela, l'uomo che dal chiuso di una cella è riuscito a sconfiggere l'apartheid, la più dura tra le leggi segregazioniste, cambiando così il destino e la storia del suo paese.
L'uomo che nel 1993 è stato insignito con il premio Nobel per la pace, e che nel 1994 è diventato il primo presidente di colore del Sudafrica.
Ma "Il colore della libertà" è anche il film che racconta la storia di una conversione.
La storia della conversione di James Gregory, il carceriere di Nelson Mandela che, da convinto razzista, poco alla volta si è convertito alla sua causa, diventando uno dei suoi più ferventi sostenitori.
Una conversione lunga diciotto anni (tanti sono stati gli anni trascorsi da James Gregory a Robben Island, a stretto contatto con Mandela), frutto di un intenso e gratificante rapporto, che progressivamente è riuscito a trasformare il disprezzo in fratellanza, l'avversione in ammirazione.
Un cammino lungo e difficile, ma non unilaterale, perchè non si è trattato solo di una semplice conversione, ma di qualcosa di molto più profondo, di un rapporto di reciproca conoscenza e di reciproco avvicinamento, ed anche di reciproco rispetto, che ha portato l'uno a capire e accettare le ragioni dell'altro, quasi a sottolineare, così, l'unicità del genere umano.
"Goodbye Bafana" è il titolo originale del film, che il danese premio Oscar Bille August ha diretto con la consueta mano di lineare classicità.
E goodbye bafana è il saluto che da bambino, James Gregory si scambiava con bafana (bambino in lingua xhosa), il compagno di giochi, un coetaneo di colore, che un giorno, all'improvviso, scompare, senza che la sparizione susciti in lui alcuna emozione (tanto che non si chiederà mai dove sia finito), perchè è giusto e naturale che sia così.
E allo stato umiliante di bafana, le dure leggi segregazioniste riducevano e costringevano i prigionieri politici, compreso l'obbligo di indossare la divisa carceraria con i calzoni corti al ginocchio.
Condizione che non è stata risparmiata neppure a Nelson Mandela, il detenuto 46664, nel corso degli anni trascorsi dignitosamente nella prigione di Robben Island, l'isola al largo di Cape Town, ex colonia di lebbrosi, dove venivano confinati i capi dell'African National Congress, gomito a gomito con i detenuti comuni.
Detenzione causata dalla lotta, intrapresa da Mandela, contro l'apartheid, il regime imposto dal Partito Nazionalista sudafricano (il partito dei quattro milioni di bianchi), che impediva a venticinque milioni di neri di votare, di studiare, di viaggiare sugli stessi mezzi pubblici dei bianchi, che proibiva loro di possedere la proprietà di una casa, o di un terreno, di intraprendere una qualsiasi attività economica.
E' in questo contesto che arriva a Robben Island, la guardia carceraria James Gregory, un giovane afrikaner bianco, di modesta estrazione sociale, con il compito di sorvegliare Nelson Mandela.
Vi arriva in virtù della conoscenza della lingua xhosa, appresa da bambino, insieme alla lotta col bastone, grazie all'amicizia con bafana, il bambino di colore con cui è cresciuto e ha giocato nella fattoria della provincia del Transkei.
Questa circostanza, e le sue radicate convizioni razziste, lo fanno il guardiano ideale del prigioniero eccellente, affinchè possa controllargli le visite e la posta e, inoltre, possa ascoltare e riferire ai superiori il contenuto delle sue discussioni con gli altri detenuti.
Nell'isola prigione arriva assieme alla sua famigliola modello (moglie carina e affettuosa, i classici due figli, un maschio e una femmina), con l'intenzione di far carriera ed assicurar ai suoi cari il benessere e la sicurezza, convinto com'è, per una distorta concezione della realtà, ed anche per l'educazione ricevuta, che i neri sono esseri inferiori e quindi è giusto e naturale che la legge contempli l'apartheid, perchè la separazione tra le razze asseconda il presunto volere di Dio.
All'inizio tutto sembra andare per il meglio, James Gregory si sente un uomo realizzato: ha un nuovo lavoro, la sua famiglia è al sicuro, lontana dalle rivolte e dalle brutalità di Città del Capo, i suoi figli un giorno potranno andare all'università.
Non sa e non immagina che cosa gli accadrà di lì a poco, nè che la sua vita cambierà per sempre, non sa e non immagina che arriverà a battersi contro il suo governo, a favore di un Sudafrica finalmente libero.
Cresciuto ed educato a considerare i neri come degli esseri subnormali, per lui è del tutto naturale che non abbiano gli stessi diritti dei bianchi.
Ma, gradualmente, tra un piccolo ricevimento e l'altro, tra una formale cortesia e l'altra, che puntualmente e ipocritamente si scambiano i componenti la piccola comunità coloniale, il contatto diretto, esclusivo, intenso con Blake Pimpernel (l'altro nome con cui era conosciuto Mandela), il suo carisma, la forza che emana, i discorsi che fa, i piccoli gesti del suo vissuto più intimo (come quello di affidargli un messaggio d'amore per la moglie che non vede da vent'anni), dapprima incuriosiscono, poi sorprendono, infine fanno breccia nel cuore del giovane guardiano che, poco alla volta, prenderà coscienza della disumanità dell'uomo nei confronti dei suoi simili, e si lascerà coinvolgere nella lotta per la libertà e per l'uguaglianza, intrapresa dal leader nero, che nel giro di qualche anno porterà alla sconfitta del regime razzista e al riconoscimento dei diritti civili per la popolazione nera del Sudafrica.
Una storia grande (quella di Nelson Mandela) e una storia piccola (quella di James Gregory), che si intrecciano e si condizionano a vicenda, e che il film, basato sul libro delle memorie dello stesso James Gregory, "Nelson Mandela, da nemico a fratello", ha il pregio di raccontare con sobrietà ed eleganza, senza falsi moralismi e senza fare nè dell'uno nè dell'altro, un eroe da celebrare, fermandosi, giustamente e intelligentemente, nel preciso momento in cui l'uno si avvia verso una dignitosa carriera e l'altro verso la conquista della libertà e del potere, quando la storia privata diventa pubblica, quando l'ingiustizia si piega alla forza della ragione.
Perchè, come dice Mandela nel suo libro "Long Walk to Freedom", "Nessuno nasce con l'odio innato nei confronti di una razza, di una religione o di un ambiente diverso. La gente impara ad odiare, ma se può imparare l'odio, può apprendere anche l'amore, poichè questo è un sentimento assai più naturale del suo opposto".
Tra i film più politicamente corretti presentati al 57° Festival di Berlino, in anteprima mondiale, l'11 febbraio 2007, proprio nel giorno dell'anniversario della liberazione di Nelson Mandela, "Il colore della libertà" è frutto di un progetto che Bille August ha fortemente voluto e lungamente perseguito, collaborando personalmente alla stesura della scenografia (tratta, come detto, dal bestseller autobiografico di James Gregory, morto di cancro nel 2003) e scegliendo per il ruolo del leader sudafricano, il bravo attore afroamericano Dennis Haysbert (già visto in "Jarhead" e protagonista delle prime due serie di "24"), al primo ruolo importante della sua carriera.
A ricoprire il ruolo di James Gregory, Bille August ha voluto l'intenso e sorprendente Joseph Fiennes, qui, probabilmante, nella migliore delle sue interpretazione, il quale, naturalmente, si è dimostrato entusiasta di portare sullo schermo la storia di un personaggio così carismatico.
Ruolo per il quale, l'attore britannico si è coscienziosamente e diligentemente preparato, rileggendosi tutti gli scritti di Mandela, ripercorrendo tutte le battaglie da lui intraprese per cambiare le sorti del suo popolo, cercando con difficoltà di appropriarsi della difficile lingua zulu e dell'altrettanto difficile accento afrikaner.
Accanto a lui la bella e brava Diane Krueger (l'Elena di "Troy"), nel ruolo della devota e ambiziosa mogliettina, tutta dedita alla famiglia e preoccupata unicamente che l'amato marito faccia carriera.
Una storia importante in un film sobrio ed estremamente coinvolgente, nella solida tradizione del cinema che fu, senza strabilianti effetti speciali nè trovate sensazionali, ricreati ad arte per sbalordire e stupire.
Una regia sicura, mai sopra le righe, per un'opera di forte spessore, che è necessario vedere per capire e ricordare una vita straordianaria, vissuta dall'altra parte del mondo, quindi apparentemente lontana anni luce da noi e dalla nostra cultura, che ci insegna che principi come giustizia, libertà, uguaglianza, tolleranza, sono valori universali che dovrebbero guidare, sempre e comunque, le azioni quotidiane di ciascuno di noi.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 05/04/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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