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"Colpire al cuore", come in un film di Gianni Amelio di qualche lustro fa.
Fu la più grande alta marea degli ultimi 20 anni a "colpirmi" quella sera che mi azzardai a mettermi gli stivali alti e superare ogni impasse temporale di Venezia per andare a vedere questo film. Io e una ragazza, coraggiosamente, abbiamo superato calli e campi trasformati in atipici affluenti per "qualcosa che anche nei giorni di sole non riempie certo i botteghini".
Un cinema quello dei Dardenne, quasi metafisico, à la Kiarostami (ma senza l'ironia beffarda dell'autore nordico) o alla Kieslowsky, un cinema dove i personaggi palesano, occultano, reprimono, svelano con difficoltà.
Non è null'altro che la ragione della dignità umana, in certi casi. Lo spettatore non ama un contatto tanto profondo, "epidermico" con un film, tralasciando le velleità sociali e omettendo la sua diretta identificazione. Ma in linea di massima i Dardenne non provano alcun espediente calligrafico, nè il simbolismo cromatico-spirituale di cui l'amato Kieslowsky faceva largo uso soprattutto nel "Decalogo". E' qualcosa a sè.
Tutto è lasciato al gioco degli sguardi, all'inconfessabile ragione della vita, che poi è la stessa ragione per cui possiamo parlare esattamente di Cinema con la C maiuscola. Immagine che ci purifica dal modello tradizionale, che ci consegna un minimalismo quotidiano attraverso la sfida ai grandi mezzi tecnici della comunicazione nel segno del dettaglio, dell'umiltà dei gesti e delle (poche ma significative) parole, lasciandoci addosso una sorta di malessere empatico frammisto a benessere emotivo.
Forse, mai come stavolta, i Dardenne sono riusciti a preservare tanto mirabilmente questa sobrietà, evitando anche quei sottili compiacimenti che forse appesantivano in parte il pur eccellente "Rosetta".
La realtà è che noi spettatori - solitamente allergici ai rigorosi amplessi del tempo di Bressoniana memoria (come sarebbe a dire chi è Bresson?) proviamo doppiamente disagio, sia davanti alla scelta artistica dei due fratelli, sia di fronte a un'opinione conclamata, a un giudizio promosso, esortato.
I Dardenne ci sbattono in faccia il perdono - alla faccia della nostra proverbiale e comprensibile meschinità - anche davanti a un protagonista per cui è difficile provare vera solidarietà: il Padre e questo non ci rassicura affatto, anzi ci sconvolge lentamente...
Come lenta, ma acutissima, è la forma mentis di questo cinema che - lontano dalle luci della ribalta - osa compromettere le nostre ferree posizioni in materia di giustizia, vendetta, perdono, recrudescenza, rimorso, rancore.
La figura di un padre, più curioso (odioso) che vendicativo, sopraffatto, appunto, da una giustizia che ha punito il colpevole ma non la sua colpa è in tal senso esemplare: il giovane di Truffautiana memoria (un'Antoine forse più cinico) arriva a rimuovere il proprio crimine e gli anni del riformatorio, un processo che non tiene conto altro che dell'impossibilità di vivere la propria "normale follia".
Anche nei gesti apparentemente più insignificanti, catturati da una camera fissa (nel tributo involontario ai dogma) i Dardenne lasciano tutta la riprovazione a noi e il giudizio morale irrisolto o semplicemente aprioristico. Chi è, e cosa vorrà dirci quest'uomo quando osa affannarsi (e non poco) a chiedere di ritrovarsi?
L'ossessione del passato, del lutto per la perdita dell'unico figlio, la morte fisica del presente... Nulla, in verità, sembra essere lasciato a caso: nel bisogno intollerabile di una continuità generazionale, non c'è più collera nè odio, solo la volontà di superare il dolore e superarlo. Sarà davvero così?
Un pubblico tradizionale direbbe Freudianamente che nell'annullamento del ricordo e della morte di un figlio, e nell'accettazione del suo (ehm) "replicante" assassino, esiste anche l'insanabile bisogno di preservare eternamente il ricordo della sua tragica fine. Ma non è vero.
Quella sera, mai vinto e fieramente accorso al cineclub nonostante la grande mareggiata lagunare, beh ho vissuto uno dei più intensi momenti di grande cinema degli ultimi anni.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 04/10/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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