Recensione il figlio dell'altra regia di Mehdi Dehbi, Lorraine Levy Francia 2012
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Recensione il figlio dell'altra (2012)

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locandina del film IL FIGLIO DELL'ALTRA

Immagine tratta dal film IL FIGLIO DELL'ALTRA

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Immagine tratta dal film IL FIGLIO DELL'ALTRA

Immagine tratta dal film IL FIGLIO DELL'ALTRA
 

"Abbiamo già avvertito i tuoi genitori, stanno arrivando"
"Quali?"

In una parte del mondo non molto distante da noi, esiste un monumento alla vergogna: una lunga, invalicabile barriera di cemento che corre imponente, rendendo impossibile il passaggio dai Territori Occupati palestinesi a quelli israeliani, chiudendo dentro una gabbia a cielo aperto un popolo e la sua storia.

All'ombra di questo muro, che separa Tel Aviv dai territori arabi della Cisgiordania, c'è n'è un altro, invisibile, ma molto più subdolo e pericoloso; è quello ideologico, che da anni costringe due popoli a guardarsi con sospetto reciproco, impedendo ogni forma di rapporto tra chi sta da una parte e chi sta dall'altra.

In questo scenario di perenne conflittualità, carico di tensioni irrisolte, rabbia, incomprensioni e sofferenze, la regista ebrea-francese (ma atea) Lorraine Lévy ambienta la vicenda narrata nel film "Il figlio dell'altra", che ripropone, in quel particolare contesto socio-politico, un grande classico della letteratura, trattato ricorrentemente anche dal cinema: il tema dello scambio di neonati nella culla.

La novità risiede nel fatto che la storia trattata si svolge in quella parte del mondo in cui gli eventi, la storia, il destino, contro ogni logica hanno fatto convivere due popoli tanto diversi, quanto distanti culturalmente e antropologicamente.

Loro, i neonati scambiati, sono Joseph e Yacine, oggi diciottenni, uno israeliano, l'altro palestinese (almeno così credono loro) che un destino beffardo e incredibile ha inestricabilmente unito.
La storia racconta di come, durante la visita per il servizio di leva nell'esercito israeliano, il giovane Joseph scopre che il suo gruppo sanguigno è assolutamente incompatibile con quello dei suo genitori e pertanto non può essere biologicamente figlio della coppia che l'ha cresciuto con tanto amore.

E' successo, infatti, che la notte in cui fu partorito, 18 anni prima, il reparto maternità dell'ospedale di Haifa, a causa di un bombardamento nel corso della Prima Guerra del Golfo, venne evacuato per motivi di sicurezza. Passato il pericolo, nella concitazione del momento, un'infermiera per un tragico errore, scambiò le culle di due bambini appena nati, consegnando così alle due mamme il figlio dell'altra.

L'altro è Yacine, un ragazzo cresciuto nei territori occupati della striscia di Gaza, che ha vissuto fino a quel momento una vita non sua.
Joseph non è, dunque, ebreo, come aveva sempre creduto, figlio benestante di un colonnello dell'esercito israeliano, così come Yacine non è musulmano, figlio di un ingegnere costretto dalle difficoltà economiche, dovute alla reclusione all'interno dei territori, a fare il meccanico.

"Vuoi dire che io sono l'altro... e che l'altro sono io?" chiede incredulo Joseph alla madre.

La rivelazione getta in una crisi profonda i due ragazzi e sconvolge la vita delle due famiglie, che,da quel momento in poi, si troveranno a fare i conti sia con le rispettive identità, che sul significato profondo di un acerrimo e sanguinoso conflitto politico e religioso che, contro ogni logica, si protrae da lungo tempo.
Per i due ragazzi si tratterà di capire le ragioni di colui che fino a poco tempo fa era considerato il nemico e di riconoscersi finalmente fratelli; i due padri, invece, (il rigido Alon, ufficiale dell'esercito israeliano e il palestinese Bilal, così come il fratello di Yacine) istintivamente più rigidi, si faranno sopraffare dalla nuova realtà e faticheranno non poco a capire che non esiste alternativa possibile.
Saranno le donne (l'ebrea Orith e la palestinese Leila), naturalmente più comprensive e tolleranti - forti della consapevolezza che i figli che hanno allevato continuano ad essere i loro figli - a favorire un discorso pacificatore fra gli uomini, capace di superare l'astio ideologico che li separa per trovare un modo per conoscersi e convivere.

Di scottante e drammatica attualità, Il figlio dell'altra (non lasciarsi ingannare dal titolo in odore di soap opera) è un film potente e drammatico, con cui la regista Lorraine Levy (sorella dello scrittore Marc Levy) ha cercato, con grande partecipazione, di raccontare una piccola grande storia di riflessione umana, che, nella cornice del conflitto mediorientale, non si concentra tanto sul disagio delle due nazioni, quanto su quello dei due protagonisti.
Una sorta di rilettura moderna della storia di Isacco e Ismaele, i due figli di Abramo da cui presero origine le stirpi ebraiche e islamiche.

Ad essere analizzato con grande delicatezza è l'effetto destabilizzante che il crudele scherzo del destino ha sulle due famiglie, le quali saranno costrette ad accettare quanto accaduto non come una perdita, ma come un dono.
Il compito più difficile spetta inevitabilmente a Joseph e Yacine, cioè fare i conti con la propria identità per scoprire le proprie radici. Mettersi fisicamente nelle pelle dell'altro per identificarsi con colui che fino ad un attimo prima era il nemico; nella pelle di "colui che ho sempre pensato essere l'esatto contrario di me".

Forse il messaggio che la regista ha voluto trasmetterci è tutto qui, ed è racchiuso nell'assioma per cui, nonostante le differenze politiche, culturali, religiose, è possibile e necessario cercare di superare tutti questi ostacoli per abbattere le barriere che li dividono e trovare il modo di conoscersi e convivere.

Perchè spesso l'altro siamo noi.

Lo dimostra la forte volontà dei due ragazzi di ricercare più le cose che li uniscono da quelle che li dividono.
Volontà che si rivela più grande di qualsiasi diffidenza.
Sforzo reso ancora più drammatico dal fatto che la loro vita si è nutrita dei valori che i rispettivi status sociali e religiosi impongono e che ora sono capovolti.

Due ragazzi e due mondi a confronto, costretti a guardare questi mondi con occhi nuovi e diversi.
Due ragazzi cresciuti con valori, ideali e possibilità discordanti, uno rimasto un po' bambino, vissuto in una famiglia iperprotettiva e amorevole, amante della bella vita e delle cose belle; mentre l'altro, più maturo e responsabile, costretto dalla sua condizione a farsi adulto precocemente.
L'uno di fatto un privilegiato, vissuto nel benessere e negli agi di Tel Aviv, classico diciottenne coccolato e sereno, vestito all'ultima moda in mezzo ad un gruppo di amici che lo ammirano mentre suona la chitarra sulla spiaggia davanti ai falò.
L'altro cresciuto nella problematica striscia di Gaza, già proiettato in una realtà che lo obbliga ad essere uomo, pronto ad intraprendere gli studi di medicina a Parigi, immaginando di aprire un ospedale nella sua terra martoriata.
Amano entrambi la loro famiglia e non immaginano che da lì a poco saranno sradicati da quel microcosmo che ci plasma in ciò che siamo.

La sensazione che si ricava dalla visione è che la Levy abbia voluto fare un film politico, anche se, forse, all'inizio non c'era questo intento, attraverso un dramma che costringe israeliani e palestinesi a mischiarsi per superare il muro di astio e di diffidenza cristallizatosi nel tempo e a guardarsi con occhi nuovi e diversi senza vedere dall'altra parte il nemico

Joseph e Yacin incarnano la speranza delle nuove generazioni, tesa a sottolineare l'inutilità del conflitto, la cui chiave per avvicinarsi alla soluzione risiede, forse, nelle relazioni personali e nell'accettazione dell'altro.
Hanno molto in comune, Joseph e Yacine, ad eccezione delle loro vite, destinate, forse, a non incontrarsi mai, se non fosse stato per quella drammatica fatalità, che rimbalza dall'uno all'altro per ricomporsi in quella speranza che non ammette alternative.

Molto coinvolgente la messa in scena della Levy, che si fa palpabile nelle tante sequenze girate a ridosso del muro, che incombe, smisurato e soverchiante, sulle vite della gente, dove si susseguono perquisizioni e controlli di sicurezza e che, lungamente inquadrato, genera pathos e insicurezza, quasi a preannunciare un imminente, tragico avvenimento.

Un bell'esempio di film sociale, intenso e complesso, commovente ma mai retorico, sostenuto da un cast multietnico di attori, guidati dalla bravissima Emmanuelle Devos ("Sulle mie labbra"), i cui volti, dalla sorprendente intensità, riescono a far trapelare la tensione emotiva che li avvolge, ma anche la speranza per un futuro diverso e migliore, sottolineato anche da quel sottile umorismo che si percepisce nelle battute, surreali e ironiche, che si scambiano i due protagonisti (Jules Sitruk e Medhi Dehbi, rispettivamente Joseph e Yacine), come a sottolineare che la vita è una sola e vale davvero la pena di viverla al meglio... anche se nella pelle di un altro.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 19/03/2013 17.50.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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