Recensione il ladro regia di Alfred Hitchcock USA 1956
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Recensione il ladro (1956)

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locandina del film IL LADRO

Immagine tratta dal film IL LADRO

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Ispirato a un fatto realmente accaduto, "Il ladro" è uno dei più intensi e profondi film "imperfetti" di Hitchcock, e una delle più abili requisitorie contro la giustizia del regista inglese.
E' ancora difficile collocarlo tra i suoi massimi capolavori, eppure possiede una forza d'impatto, un pathos, un coraggio che forse superano il ricordo di opere tecnicamente inattaccabili e artisticamente più elevate, fors'anche più fredde e cerebrali.
Jodorowsky, regista di film-culto come "La montagna sacra" e scrittore di un certo successo, era un detrattore di Hitchcock: egli considerava (ma non era il solo) la suspance un espediente prefabbricato per attirare il pubblico, analizzando con superficialità un'aspetto non secondario del cinema di Hitch, la "finzione reale e artificiale" come prospettiva della realtà sociale.

"Il ladro" affronta uno dei temi prediletti del regista, la storia di un uomo che viene accusato ingiustamente sulla base di indizi e testimonianze, privato - attraverso un complotto - di tutte le sue difese.
L'uomo è Manny Balestrero, un onesto musicista marito fedele e padre di famiglia, che viene erroneamente indicato come l'autore di una rapina.
Messo in carcere e processato, passa attraverso una vera e propria via crucis, anche quando il vero colpevole viene arrestato e Manny rimesso in libertà: la prova d'innocenza che sembrava indimostrabile man mano che il tempo passava così come la morte di due potenziali testimoni avevano seriamente minato i nervi della moglie di Manny, tanto da richiederne il ricovero in una clinica per malattie nervose (fra l'altro alcuni errori procedurali resero necessario un secondo procedimento del processo).

Questa, in sintesi, è la storia di Manny, ed è la stessa storia del film di Hitchcock il quale - scegliendo il figlio putativo dell'America onesta e liberale (l'attore Henry Fonda) risalta la figura della vittima innocente già rievocata da Fonda in "Sono innocente" di Lang e, due anni dopo, in "Lasciateci vivere".
E' un incubo kafkiano che porta all'impotenza del protagonista, dando l'impressione che tutto quello che vediamo potrebbe succedere anche a noi. L'onestà del volto - o dell'estabilishment culturale e attoriale - di Fonda è perfetta: il suo Manny è il tipico uomo medio americano, ingenuo, simpatico, fedele alla moglie, comprensivo e affettuoso con i figli, ma anche ordinario, incolore, dotato di scarsa intelligenza.
La sua caratteristica è la "normalità", ed è la stessa che lo porta a trovare la sua disintegrazione sociale e morale: pensiamo alla sequenza in cui viene arrestato per la prima volta, e si volta a guardare la sua casa - simbolo di benessere e tranquillità domestica.
Non si può negare che il film, pur dolorosissimo, celi un'inquietante sarcasmo e una beffarda ironia davanti alla sorte di questo povero disgraziato: Manny è il simbolo dei valori borghesi messi improvvisamente a soqquadro, dell'istintuale prigione dorata nella quale vengono rinchiusi (contrariamente a quella, ben più concreta, degli istituti di pena dove Manny trova la sua espiazione).

L'ineffabile Hitch racconta, pur senza enfasi progressista (dobbiamo dargli atto di aver sempre voluto evitare le spirali dell'atto d'accusa ideologico) il Maelstrom, la caduta di quest'uomo, appunto, ordinario e non straordinario, ovvero l'ultimo dei fuorilegge che ti aspetti.
Fonda, con la sua andatura greve e lo sguardo spaesato e impotente (spesso ricorre a un modo tutto suo di guardarsi alle spalle, come se potesse agguantare utopisticamente uno spiraglio di verità) è indimenticabile, recando al personaggio una forma passiva e introspettiva di dolore nel quale lo stesso spettatore sprofonda fino alla fine: perchè non c'è vera liberazione davanti al dramma che si è consumato, ma soprattutto il retaggio di un incubo.

Il personaggio della moglie è il vero perno del film: un dramma che coinvolge altri aspetti, altre persone, ovvero l'amato nucleo familiare.
Una Vera Miles pre-"Psycho" davvero splendida: la donna che finisce in una clinica psichiatrica, mentre il marito assiste impotente alla degradazione morale e psichica della sua famiglia, a causa dell'accusa infamante che lo coinvolge.
Non riesce quasi mai a comunicare con lei, per quanto non cessi mai di provarci. E a questo punto il silenzio genera la follia: è emblematica la scena forse più potente e coinvolgente dell'intero film, quella in cui la donna rompe uno specchio, ferendo il marito al volto, in una sensazione di indomito sconcerto, un'impalpabile angoscia che lo spettatore sente (vede) generarsi con la sensazione che "sarà difficile tornare indietro".
E' un punto di non ritorno, appunto, che Hitch filma con un certo sadismo ma anche con una vera e sincera partecipazione umana: lo stesso Manny si è arreso al suo destino diventando vittima di se stesso, della propria mediocrità, piegato (un po' enfaticamente) alla passiva trascendenza della preghiera: un rituale fatalista che concede all'uomo la salvezza dalla morte per mezzo della fede.

In definitiva, ciò che colpisce di questo film è proprio la sua capacità di andare ben oltre i consueti territori classici, quelli della suspance - tanto ostracizzata da Jodorowsky - costringendoci ad empatizzare per quest'uomo imperfetto e la sua famiglia (soprattutto) la cui unica ragione è la volontà della propria imperturbabile, paradossale e (diciamolo) odiosamente neutrale onestà.
Quell'"altro mondo" che legge i fatti di cronaca sui quotidiani, provando la "giusta" indignazione, a cui Hitchcock sembra rivolgere le proprie e altrui paure, monitorando la sicurezza dagli eventi esterni.
L'enfatizzazione di una colpevolezza mai provata, e la mitigazione della forza (invero debole) della ragione.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 08/07/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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