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"Il mio amico giardiniere" appartiene a quel genere di commedie, leggere come un soffio e toccanti come la musica del cuore, che si basano essenzialmente sul valore delle parole e sulla ricchezza del dialogo, più che sullo sviluppo narrativo e figurativo della storia, e che esaltano le virtù dei sentimenti e ci fanno riscoprire il valore epico del quotidiano.
Si tratta di una commedia in cui il tutto è nulla, ma attorno a quel nulla si annida un mondo di pensieri ed emozioni, di parole dette e di parole non dette.
E di solitudini.
Originariamente (ed emblematicamente) intitolato "Dialogue avec mon jardinier", quasi a sottolineare la forza empatica del dialogo, il film è una lunga e ininterrotta conversazione che i due protagonisti intrattengono sull'onda delle memorie passate, ma anche sulla fragilità della vita, sulla bellezza della natura, sulle gioie e i dolori del proprio vissuto; dialogo che li porta ad un reciproco scambio di valori e ad un arricchimento culturale, e li induce ad immegersi nelle delusioni altrui, per intravedere i problemi esistenziali sotto una nuova prospettiva, che consente loro di riappropriarsi del significato concreto della vita.
Ma anche il titolo italiano, seppure un po' più banale, ci porta a soffermarci sull'importanza e sulla forza dell'amicizia, ritrovata casualmente e alimentata dalle proprie diversità, che si bilanciano l'un l'altra e si regalano vicendevolmente la possibilità di rivivere una nuova adolescenza, meno spensierata ma più consapevole di quella vissuta.
Due personaggi e due uomini che si incontrano quasi per caso e finiscono per entrare l'uno nella vita dell'altro, per riscoprire il piacere di raccontarsi, di riferirsi i problemi esistenziali e di offrire all'altro un po' di sé, di completarsi a vicenda e conoscere il significato di tutte quelle analogie che danno sostanza e valore alla nostra esistenza.
Ed è questa, forse, la cosa più importante, soprattutto nel momento in cui si scopre che i punti fermi che ci eravamo costruiti si sono rivelati fugaci e fragili o, ancora, quando si capisce che la vita è ormai inesorabilmente avviata verso il raggiungimento del traguardo finale.
Tratto dal romanzo omonimo dello scrittore Henri Cueco, "Il mio amico giardiniere" di Jean Becker ci immerge in un mondo fatto di atmosfere rarefatte, sfuggenti e non immuni da una vena di sofferta malinconia, dove però è ancora forte il piacere delle piccole cose e dei grandi sentimenti.
Il film di Becker ci offre il ritratto di due uomini di mezza età, differenti, contraddittori, caratteriali, che si ritrovano dopo diversi anni dopo essersi persi di vista dai tempi della scuola e riscoprono il piacere di far rinascere un'amicizia e la voglia di raccontarsi gli eventi che hanno segnato le loro esistenze.
Due francesi: l'uno, ricco pittore di successo ma senza genialità (come lui stesso si definisce), proprietario di una grande casa nel cuore della Francia rurale.
L'altro, ex ferroviere ora in pensione, di estrazione popolare diventato giardiniere un po' per necessità e un po' per vocazione, e per amore delle cose genuine.
Il primo, logorato dalla vita parigina (separato dalla moglie stanca dei suoi continui tradimenti e in attesa di divorzio, non in buoni rapporti con la figlia e consapevole della limitatezza della sua genialità), decide di tornare nel piccolo paese di provincia dove è cresciuto nella casa che fu dei suoi genitori.
L'abitazione del pittore e il terreno che la circonda sono in stato di totale abbandono e pertanto, non avendo né l'energia né le capacità di occuparsene, decide di assumere una persona in grado di curare con competenza il suo giardino abbandonato.
Il primo candidato che risponde al suo annuncio è quello buono: si tratta di un suo vecchio compagno di scuola che non vedeva dai tempi della loro fanciullezza, quando antiche complicità e antiche ragazzate li avevano separati e fatti perdere di vista.
Due strade e due percorsi di vita molto diversi, che si incontrano e si ricongiungono dopo aver seguito tracciati e direzioni opposte.
Tanto il pittore ha assorbito l'atmosfera alienante della città e di un sistema di valori costituiti che poggiano sul relativismo materialistico, ma che si sono rivelati effimeri e, col tempo, lo hanno trascinato sull'orlo di una crisi esistenziale ed artistica; quanto l'altro, il giardiniere, è rimasto invece legato alla propria terra e alle proprie radici, dalle quali trae la sua filosofia di vita, che lo porta ad osservare il mondo con sguardo pacato e saggezza concreta, in un sistema basato sul buonsenso e la spontaneità.
Basta uno sguardo, poche parole, qualche cenno perchè i due vecchi amici (che si inventano due soprannomi, Del Quadro e Del Prato, che evidenziano la loro diversità culturale e sociale) ritrovino la antica e gioiosa complicità che da ragazzi li ha uniti, facendo rivivere in loro quella adolescenza lontana e dimenticata, che riscalda i loro cuori e allevia le loro disillusioni quotidiane.
Ed è in questo scenario di vita vissuta che si innesca la narrazione, intessuta di reminescenze, di sottigliezze divertite, di saggezza concreta, che Del Prato dispensa a Del Quadro a piene mani.
Le lunghe giornata passate a parlare di ricordi, di donne, di amicizie, di piccole e grandi avvenimenti, di gioie e di dolori personali, delle vacanze a Nizza con la moglie come ogni anno, del genero idiota, del motorino nuovo, del cavolfiore appena colto, della bottiglia di vino ritrovata in cantina, permettono a Del Quadro di scoprire tutta la saggezza contadina, la personalità dirompente, il magnetismo contagioso di quell'uomo semplice ma mai banale.
Ma anche Del Prato ha modo di apprezzare le qualità di Del Quadro, e si avvicina all'arte dell'amico, che diventa bella ai suoi occhi, anche perché i prodotti e i frutti del suo giardino curato costituiscono la fonte della ritrovata ispirazione artistica dell'amico.
Vedendo il mondo l'uno con gli occhi dell'altro, ognuno ha modo di scoprire il prezioso valore delle cose semplici e di ricondurre la vita all'essenza più profonda della felicità. Fino al momento finale, quando Del Prato si ammala e Del Quadro lo accompagna verso la conclusione della vita, accettata con la stessa rassegnata filosofia di chi, oltre che i cicli della natura conosce anche le stagioni della vita.
Nonostante l'insolito svolgimento narrativo che non prevede scene madri o eventi eclatanti, il film ci conduce in un mondo fatto di cose semplici e complesse allo stesso tempo, ricco di emozioni e attiva, con fredda nostalgia, il fascinoso meccanismo della rievocazione (notevoli i flashback che ricordano i momenti della loro amicizia infantile o, ancora di più, i momenti felici, ma venati di dolce malinconia, delle vacanze a Nizza del giardiniere con l'amata moglie) che ogni tanto riaffiora in noi e ci riconcilia con lo stallo esistenziale delle nostre realtà.
L'atmosfera è minimalista, la storia è ridotta all'essenziale, ma le conversazioni tra i due amici ci riservano inattese e piacevoli sorprese, ed anche se a prima vista "Il mio amico giardiniere" può sembrare l'ennesima pellicola buonista, ad un'attenta analisi si rivela una bella storia di amicizia disinteressata e una profonda lezione di vita vissuta.
Un fiume di parole che diventa un fiume di affetti genuini, un messaggio filosofeggiante sulla sacralità della natura, una parabola sulla forza rigeneratrice dell'amicizia: tutti temi noti, che Becker sa rimescolare in modo semplice ma efficace, in grado di farci scoprire l'importanza del dialogo e del confronto tra gli uomini.
Proprio questo confronto porterà Del Quadro a ritrovare un mondo che credeva perduto per sempre ed a superare le sue difficoltà esistenziali, sia artistiche che umane, mentre guiderà Del Prato verso quella meta finale che solo una vita vissuta con grande coerenza, dignità e senso etico degli ideali vissuti come valore, può aiutare ad affrontare ed elaborare il lutto della perdita della propria vita.
Il film si apprezza per tutte le sottigliezze divertite nel linguaggio, per l'armonia che si respira in tutta l'opera, per la spontaneità con cui i personaggi, pur nella loro eterogeneità, si scoprono e imparano ad amarsi, per la quasi totale assenza della colonna sonora (se si eccettua un po' di Mozart in giardino, e qualcosa del Nabucco inteso come esorcismo della morte) forse per evidenziare con maggior vigore i colori della natura, i rumori della campagna e apprezzare fino in fondo il valore delle parole che costringono a ripensare, a riflettere e sentire quel che si prova.
Ma il film si apprezza soprattutto per l'ottima prova dei due interpreti principali: Daniel Auteuil (Del Quadro) e Jean-Pierre Daroussin (Del Prato). Mentre però di Auteuil si conoscevano già le efficaci capacità recitative, che ne fanno uno degli attori di maggior talento della cinematografia francese, la vera sorpresa risulta Jean-Pierre Daroussin (un attore poco noto, almeno qui in Italia, ma attore prediletto, in Francia, di Robert Guédiguian), di cui si scoprono con piacere le sorprendenti abilità di attore versatile, assolutamente credibile nel dar vita ad un personaggio capace di far sorridere e commuovere con la semplicità di un gesto e la spontaneità di una espressione.
E non è poco.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 25/03/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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