Voto Visitatori: | 4,40 / 10 (5 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 2,00 / 10 | ||
Monica non sa sorridere. E' sola, lavora a Milano, ha un padre che vive in campagna.
Con questo padre ha un rapporto alienato e anaffettivo, come con gli uomini che la circondano.
La vita di Monica è un malinteso irrisolto: ma lei quando il film comincia non lo sa ancora (come non lo sa il povero spettatore, anche se poi, quando questi lo capisce, il film prosegue ostinatamente con lo stesso ritmo mortuale).
Quando a Monica viene svelato un equivoco professionale, decide di fare "tabula rasa", come lei stessa insegna, nelle aziende, che occorre fare per lasciare spazio a stimoli nuovi (lei, cavallo di troia inconsapevole per exit strategy coatte): a quel punto cambia mestiere e va in Grecia.
... Perché lì era andata sua madre. Riappropriarsi di un destino femminile: come a rivendicare un'identità ereditaria, in una rivincita sull'universo maschile.
Quando un film viene scritto a tavolino.
Quando un film è accademico.
... Accademico, perché Marina Spada uno stile lo padroneggia, ma non è stile suo. E' lo stile di Antonioni. Un atto d'amore per un maestro che si adora.
Per noi non è la stessa cosa vedere oggi, nel 2011 (il mondo certo – siamo d'accordo – non è molto cambiato dal 1961), non è la stessa cosa – si diceva – vedere "La notte" di Antonioni, e vedere questo ennesimo, estenuante film antonioniano della storia del cinema italiano.
Claudia Gerini si aggira per un moderno quartiere di Milano come Jeanne Moreau ne "La notte". Non cerca risposte alla sua vaghezza esistenziale. L'incomunicabilità aleggia nell'aria esattamente come 50 anni fa; i sentimenti sono una terra bruciata e riarsa; quelle dell'architettura moderna sono superfici respingenti e inanimate, che risucchiano via il personaggio portandolo fuori dallo schermo e fuori dalla vita proprio come Michelangelo Antonioni insegna in tutte le aule dove si studia il suo cinema.
In questo "Il mio domani" i caratteri restano inespressi: la meschinità del padre non la si apprende che attraverso il riassunto della sua vita, fatto dalla figlia in un dialogo con terzi; gli uomini che circondano la protagonista sono piatti, bidimensionali, caratteri serventi solamente l'inquietudine della protagonista.
Privi di vita.
Siamo tutti privi di vita? Il mondo è marcio, l'amore non esiste, il sesso è meccanico, a lavoro ci licenziano, le madri sono morte, il passato è una terra straniera, il futuro è una terra straniera. La Grecia classica è un rifugio, la filosofia è strumentalizzata, l'esistenza è stuprata, i palazzi sono cimiteri, i cimiteri hanno tombe che portano il nome della regista.
Ci vuole dire che il film è autobiografico, che c'è qualcosa di profondamente sentito, una radice di vita vissuta e di dolore in questo deserto che stiamo attraversando.
Ma niente paura: è solo tristezza programmatica. Questa tristezza non appartiene al mondo che ci circonda. Questa regista avrebbe l'ambizione di svelarci di nuovo la Noia, anzi la Nausea di esistenzialistica memoria: ma non sono che reminiscenze accademiche. Non arte, né vita. Questa mestizia appartiene allo schermo, ma alla nostra vita appartiene solo perché stiamo qui e ora a vedere questo film. E non vediamo l'ora che il supplizio finisca, per uscire all'aperto, nel mondo che sa avere altri toni, altre luci, altri colori... che sa essere molto più bello di come ce lo vogliono, a volte, rappresentare.
Un film come questo è un vicolo cieco per il cinema.
Film come questi fanno scappare dalla sala, fanno dubitare lo spettatore, anche il più bendisposto, della bontà del "cinema d'autore", fanno gridare all'assegnazione di finanziamenti pubblici come a uno scandalo. Questi film infine gettano un'ombra ingenerosa, nell'immaginario del pubblico, sulla grandezza dei Maestri.
Sì, questi film fanno malissimo al cinema italiano. Fanno proprio malissimo al cinema.
"Vive l'amour", s'intitolava, con ironia, un film Leone d'oro del 1995: un film di Tsai Ming Liang, antonioniano di Taiwan (regista che, a differenza della Spada, un suo stile, capace anche di differenziarsi dal modello, ce l'ha). Quel film – fatto di silenzi infiniti e piani sequenza d'assoluta desolazione - portò un critico a lanciare un campanello d'allarme: quando espressioni artistiche del genere vengono premiate, si approssima la fine di quell'arte. Quando un'arte comincia a scostarsi così tanto e così snobisticamente dal pubblico, quando lo tortura intenzionalmente, questo sadismo intellettuale ebbene può anticipare la fine di quell'arte.
Ma, ancora una volta, tranquilli: il cinema non sta morendo. "Il mio domani" passerà inosservato, non vincerà niente, sarà dimenticato presto da tutti. E il cinema continuerà la sua bellissima vita: come il mondo fuori dalla sala.
Però quella che non passa, purtroppo, è la mania di certi registi, con fisime autoriali, di rifare per l'ennesima volta il verso ad Antonioni. Che è un grande Maestro, il cui fulgore viene ripetutamente adombrato da uno stuolo di figliastri impenitenti.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 03/11/2011 10.20.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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