Recensione il processo regia di Orson Welles Italia, Francia, Germania 1962
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Recensione il processo (1962)

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locandina del film IL PROCESSO

Immagine tratta dal film IL PROCESSO

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Immagine tratta dal film IL PROCESSO
 

Quando Orson Welles decide di intraprendere la ambiziosa lavorazione de "Il processo" è già da tempo fuori dal sistema hollywoodiano della produzione, considerato da lui troppo mediocre per sostenere progetti di un notevole peso artistico e culturale; dopo il fallimento commerciale di "Macbeth" nessun produttore americano, infatti, è disposto ad investire un soldo nelle sue opere.

È il 1962 quando il regista di Kenosha inizia a lavorare sulla ardita e improba traduzione cinematografica di uno dei più cruciali e complessi romanzi del novecento: "Il processo" di Franz Kafka. Il film viene girato soprattutto in Francia ed in Iugoslavia, ma alcune sequenze sono ambientate al Palazzo di giustizia di Roma - noto col nome di "Palazzaccio" - che si prestava alla "mise-en-scene" per la sua imponente struttura. Il budget della produzione è esiguo, ma nonostante la scarsità di risorse finanziarie, Welles ha la possibilità di godere di quella necessaria libertà artistica, che invece le restrizioni della RKO - una delle major americane, tra gli anni '30 e '50, nel campo della industria cinematografica - gli impedivano di avere.

Il progetto di Welles è a dir poco insidioso, a causa della grande difficoltà, per non dire impossibilità, di mettere in immagini tutti i valori, simboli, allegorie, sfumature e valenze psicologiche di cui l'opera del celebre scrittore praghese è intrisa. Basti pensare che Kafka era contrario alla raffigurazione, sulla copertina del racconto "La Metamorfosi", dell'insetto, perché riteneva che ogni rappresentazione visiva lo avrebbe inevitabilmente destituito di gran parte dei suoi intrinseci significati. Lo stesso valga per il protagonista Joseph K. (il cui nome costituisce una sorta di progressiva spersonalizzazione dell'autore che, dal Gregor Samsa de "La metamorfosi" fino al semplice K. de "Il castello", rappresenta la sua drammatica perdita d'identità; perdita che avviene in un mondo a cui sente di non appartenere), che nel romanzo non viene mai delineato fisicamente, ma solo al livello interiore per dare respiro unicamente al suo angoscioso mondo psicologico che si riversa su quello esteriore, dando luogo ad una realtà asfittica quale angusto teatro di una vita percepita come gabbia senza uscita.
Diametralmente opposta è invece la meticolosa e particolareggiata descrizione di tutti gli altri personaggi dell'opera, che nei loro connotati deformi e nei loro atteggiamenti caricaturali e parossistici rivelano un'umanità inaridita e abbruttita da una società che ha soffocato la libertà del soggetto per stiparlo in un ruolo sociale predefinito, a cui è impossibile sfuggire. Ma la gigantesca complessità del romanzo di Kafka non fa desistere Welles dal suo coraggioso proposito, e così, dopo un duro periodo di gestazione, vede la luce nell'agosto del 1962 "Le procès".

La sceneggiatura ricalca pressocché fedelmente l'impianto testuale dell'opera originale (ad eccezione del prologo e dell'epilogo).
Joseph K. è un comune cittadino, che ha un normale e rispettabile impiego e che conduce una vita tranquilla, fino a quando una mattina non irrompono nella sua camera dei loschi individui, i quali gli comunicano, senza dare alcuna spiegazione, che è in stato di arresto.
Di qui inizia l'odissea di Joseph K., durante la quale egli avrà modo di confrontarsi con svariati personaggi: i due emissari del tribunale che inizialmente lo dichiarano in arresto, gli ufficiali che hanno il compito di sorvegliarlo, la sua affittacamere, la coinquilina, lo zio, la cugina, il giudice istruttore, l'avvocato Huld e la sua assistente Leni, il commerciante Block cliente dell'avvocato, la moglie dell'usciere del tribunale, il pittore Titorelli, un sacerdote e infine i due sicari che, al termine della paradossale vicenda, lo giustizieranno. Ma nessuno di essi è capace di spiegargli le ragioni dell'accusa che pende su di lui, ma soprattutto quale sia quest'accusa che ha messo in moto l'imperscrutabile e infernale macchina della Giustizia e della Burocrazia, la quale lo porterà inesorabilmente e inesplicabilmente alla sua condanna a morte.

Il film si apre e si chiude circolarmente - prima della definitiva esecuzione - con la parabola negativa del contadino e del guardiano, illustrata superbamente dai disegni chiaro-scuri di Alexander Alexeieff con la tecnica, da lui inventata, della c.d. "Pinscreen animation" (consistente nell'inserimento su una lastra di migliaia di chiodini, illuminati di sbieco di modo da creare sulla superficie stessa della lastra un suggestivo effetto ombra). Ma come parabola negativa si configura tutta la vicenda kafkiana, e Welles è abile a imprimere questa valenza alla sua messinscena. Così, emerge chiaramente, al termine della pellicola, che il paradosso vissuto da Joseph K. non è altro che un ribaltamento del "racconto" di formazione: il percorso che egli è costretto a intraprendere, infatti, determinerà in lui il lento venire meno di tutte le certezze e di tutti i punti di riferimento della sua vita borghese; ed alla fine di esso non giungerà a ritrovare se stesso, come per fare l'esempio più eclatante succederà per Dante nella Divina Commedia, ma al contrario si scoprirà spaesato e privo di identità in una realtà a lui completamente estranea.

Welles, per quanto gli era umanamente consentito con i mezzi di cui disponeva e con le possibilità che la articolatissima polisemia del romanzo gli offriva, cercò nel miglior modo possibile di rendere giustizia, sotto il profilo figurativo, alla complessità di quest'ultimo. In tal senso, numerose sono le sequenze significative, in cui risalta una a dir poco spiccata forma espressionistica. Ad esempio, all'inizio della narrazione il protagonista si trova nella sua stanza, scenograficamente resa come una sorta di angusta cella con il soffitto basso, e le porte e la finestra ad altezza d'uomo, elementi che contribuiscono a generare il senso di asfissia di cui tutta la pellicola è pervasa; l'architettura degli edifici residenziali e degli uffici lavoro sono caratterizzati come luoghi dimessi, privi di gusto estetico, in quanto destinati ad un'umanità consacrata ad una vita senza bellezza e senza grazia; l'abitazione dell'avvocato Huld, barocca e buia, è lo specchio della Legge, allo stesso tempo arzigogolata e impenetrabile; il desco del giudice istruttore così come l'esterno del Tribunale sono invece rappresentati nella loro grandezza sproporzionata, che suggerisce l'imponenza di un sistema al cospetto del quale l'uomo non può che sentirsi un impotente ed un miserabile.

Welles fa un ottimo lavoro, anche sotto il profilo della caratterizzazione dei personaggi, riuscendo nell'impresa di dare forma ad un'umanità costituita da individui legati, come fossero marionette, ad un Forza occulta, invisibile ma costantemente incombente; in ciò emerge l'alienazione dell'uomo costretto ad agire senza conoscere l'intima ragione delle sue azioni, che all'occhio dello spettatore appaiono in tutta la loro insensatezza. Gli ispettori, il giudice istruttore, l'avvocato, il pittore Titorelli sono tutti personaggi vuoti, privi di interiorità, passivamente conformati ad una volontà superiore che deve essere accettata senza porsi domande. Anche le donne, nonostante siano animate da una interna passione, sono in realtà meri oggetti manipolati da chi tiene le fila del sistema. E quali immagini di questa aberrante alienazione sono più emblematiche, se non quella che ritrae un'umanità ormai priva di dignità e speranza, fiaccata dalla estenuante attesa del giudizio (nella quale il regista sembra riproporre lo scenario agghiacciante dei campi di concentramento); e quella della catena di montaggio del lavoro, in cui tutti sono meccanicamente assorti nella loro occupazione come fossero degli automi senza vita. Di fronte a questo stato delle cose, Joseph K. non può che arrendersi e rassegnarsi, e quando raggiungerà la consapevolezza della impossibilità di razionalizzare una realtà "labirintica", inintelleggibile e senza senso, si troverà spogliato e disorientato in mezzo alla brughiera, come fosse uno straniero in terra straniera, pronto per l'esecuzione finale (in Welles Joseph K. non viene sgozzato, ma è ucciso con della dinamite), che assurge simbolicamente a sconfitta della ragione.

Dal punto di vista narrativo, i risultati non sono paragonabili a quelli del referente letterario, che costituisce - insieme a "Il castello" - l'esempio più fulgido della capacità di Kafka di creare atmosfere insopportabilmente angoscianti; tuttavia, in alcuni momenti Welles ha il merito di avvicinarsi, quanto meno, all'originale.
A tale proposito, vanno sottolineate le sequenze immediatamente antecedenti e susseguenti all'incontro di Joseph K. con Titorelli, nelle quali il montaggio "frenetico", i luoghi stretti, lo sciamare ossessivo delle ragazzine e gli sguardi penetranti delle stesse determinano un effetto notevolmente perturbante; ma soprattutto quella in cui il ripostiglio del luogo di lavoro di Joseph K. diventa un terribile luogo di tortura, dove vengono seviziate le guardie che avevano l'incarico di sorvegliarlo, rappresentando così la trasfigurazione della realtà in incubo, secondo la percezione angosciata e allucinata del protagonista.

In defintiva "Le procès" è un film molto, forse troppo, ambizioso, perché in esso Welles si propone di tradurre visivamente l'intraducibile mondo kafkiano (qualcuno ha detto che chi decide di mettere in scena Kafka perde in partenza), dove ogni personaggio, ogni ambiente e ogni riflessione si carica di molteplici livelli interpretativi e contenutistici. Ne consegue che i cultori puristi dello scrittore di Praga potranno storcere il naso di fronte alle velleità artistiche di Welles. Ma di là da tutte le considerazioni sul merito, non possono certamente lasciare indifferenti la eccezionale perizia tecnica e la straordinaria capacità visionaria del regista americano, che nell'opera in questione rifulgono come non mai.

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Recensione a cura di ULTRAVIOLENCE78 - aggiornata al 13/11/2008

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