"Il regno delle carte" è opera di un videoartista indiano, Kaushik Mukherjee (in arte Q): un'inventiva trasposizione che tende al musical di un'opera teatrale musicale di Rabindranath Tagore del 1933. Ma non è un musical in senso stretto, e soprattutto non è un musical girato secondo gli stilemi del cinema bollywoodiano.
Il sound elettronico del film che contraddistingue la pellicola è un fascinoso melting-pot (dub, ska, ritmi tradizionali indiani) prodotto fra gli altri dallo stesso regista, e arrangiato da svariati autori fra i quali spicca il gruppo inglese d'origine indiana degli Asian Dub Foundation.
La sceneggiatura è firmata dallo stesso regista insieme a Surojit Sen; il film è scritto in lingua bengali, la stessa lingua di Tagore. La storia narra di un principe che, dopo aver deciso di evadere con un amico dalla prigione dorata in cui vive lontano dal mondo, si imbatte, su di un'isola, in una società di soldati numerati come le carte da gioco, dove la libertà individuale è sconosciuta. I due intrusi sono processati e messi al bando, ma il principe sussurra a alcune Carte donna un messaggio di amore: sarà la scintilla di una liberazione rivoluzionaria.
La poetica di Tagore, premio Nobel nel 1913 (primo Nobel per la letteratura non occidentale), è incentrata su uno spiritualismo in cui sacro e profano, spirito e carne sono fusi insieme. La sua opera, che lui stesso tradusse in inglese, si accompagnò al suo impegno politico per l'indipendenza dell'India, e nello stesso tempo costituisce uno strumento di dialogo tra oriente e occidente. Comprensibile anche per la cultura occidentale e cristiana è il suo concetto di amore, che completa e realizza l'essere umano, e rompe il velo che divide l'umano dal divino.
L'essenza della poetica di Tagore è tutta espressa ne "Il regno delle carte", e ben trasposta sullo schermo da Q, che la fa propria.
Fra Tagore e noi ci sono di mezzo gli anni '60, e l'idea di una rivoluzione dell'amore come chiave di volta di una rivoluzione sociale - da lui anticipata di diversi decenni. Fra Tagore e noi c'è di mezzo, anche, l'inizio del processo di emancipazione femminile, che antropologicamente è forse il fenomeno più importante del XX secolo. Il ruolo della donna è centrale ne "Il regno delle carte". Per Tagore la donna è depositaria dell'energia vitale creativa e dispensatrice d'armonia. La prima delle carte a spogliarsi dei suoi abiti militari è Asso di cuori, una donna; altre donne la seguiranno.
L'allegoria de "Il regno delle carte" è spirituale e sociale prima che politica. Il messaggio che alla visione del film passa forte e chiaro è che ciò di cui l'individuo ha urgenza è di trovare entusiasmo nella propria individualità, tramite l'energia messa in circolo dall'amore. La vicenda del principe che esce dalla propria prigione dorata per incontrare un mondo privo d'amore è metafora del passaggio dai confini protetti dell'infanzia alla scoperta dei meccanismi sociali, che in ogni società deprivano l'individualità, costringendo ogni persona a essere parte di un sistema. In termini più limitatamente politici, le carte sono sia rosse sia nere: nel cromatismo sgargiante del film, l'ambiguità del regime totalitario delle Carte chiarisce come tutti i totalitarismi siano uguali, nel momento in cui schiacciano la libertà individuale. Ma il punto è: non si parla di totalitarismi. Ogni organizzazione sociale contrasta spontaneamente con la libertà del singolo, laddove non sia il singolo a preoccuparsi di rispondere con l'amore alla sovrastruttura in cui è inserito.
Il film di Q è interessante anzitutto a livello stilistico: è un'opera essenzialmente indiana (anche a livello musicale) che si ispira a un artista indiano, ma mette in scena un'allegoria che in quanto tale è universale, stilisticamente attualizzata con un linguaggio che, pur restando intimamente indiano, si avvale di un'estetica ormai profondamente globalizzata (il cinema stesso, come forma artistica, è intrinsecamente globale: e in ciò rappresenta per eccellenza le peculiarità della cultura globalizzata contemporanea). Nella pellicola di Q, il massiccio uso della musica, il montaggio serrato, il ricorso a inquadrature inventive con posizionamenti di macchina non convenzionali, la spavalda ricchezza cromatica, sono tutte caratteristiche che rimandano allo stile delle clip video musicali. Molti registi affermati, da qualche decennio, provengono dal mondo dei video musicali, o da quello degli spot commerciali (figurativamente altrettanto creativo). Q conserva la purezza di questa estetica, trasportandola dentro un lungometraggio per le sale cinematografiche. E per questa semplice scelta, un'estetica al passo con i tempi (quindi fondamentalmente adatta a una fruizione di massa) fa sì che la pellicola sia "sperimentale", psichedelica, visionaria (quindi meno fruibile). Ciò ne decreta la profonda originalità, proponendoci un'opera ibrida e affascinante, sospesa tra universalità e specificità locale, tra anni '30 del XX secolo e contemporaneità, in uno stimolante rimando fra canoni stilistici globalizzati e loro declinazione indiana e personale di Q.
V'è poi da dire che l'opera di Q è strutturata su più livelli: c'è un primo livello in cui si muove il narratore, che legge l'opera di Tagore; su di un secondo livello, c'è la messa in scena (teatrale) voluta dal narratore stesso (che nel film è ambientata fra antiche rovine del Bengala); su di un terzo livello, c'è la messa in scena filmica (che si svela nella seconda parte della pellicola, la più bella e dal respiro più ampio e disteso, girata sulle spiagge dello Sri Lanka). I tre livelli procedono verso una fusione finale in un'unica dimensione di armonia, che coincide con la conquista dell'amore e della libertà, e va insieme a una progressiva mutazione dello stile adottato: da un uso del montaggio e del sonoro sincopato e quasi lisergico, il finale del film è all'insegna della fluidità dei movimenti di macchina, dell'esplosione del colore, e dell'armonia della musica.
Come dice Q, al centro del racconto è un'Idea e non sono i personaggi, così come in Tagore. Del resto, "Il regno delle carte"è un'allegoria: e come tutte le opere allegoriche, è fondamentalmente antinaturalista. Noi come pubblico siamo abituati al realismo, sociale e psicologico. Tuttavia, è occidentale, e solamente recente (risale al XIX secolo), l'adozione di registri naturalistici e realistici nel raccontare storie. Nella storia della stessa civiltà occidentale prevale la tradizione fantastica - che sopravvive, nel XX secolo, quasi esclusivamente nei codici di genere (utopie e distopie fantascientifiche o fantasy). Le tradizioni letterarie di tutte le civiltà sono accomunate dalla vocazione originaria di ogni narrazione, quella simbolica, che scaturisce dall'esperienza onirica.
Prima di concludere, vorremmo denunciare i preconcetti per cui film che parlano un linguaggio originale e innovativo, come "Il regno delle carte", sono considerati troppo "eterodossi", e, nei festival dove sono presentati, vengono solitamente tenuti lontano dai riflettori, e confinati in rassegne secondarie, come è accaduto a questo film al festival di Roma 2012 (dove è stato inserito nella sezione CinemaXXI, frutto di collaborazione fra Cinema per Roma e MAXXI, museo romano delle arti del XXI secolo). Questi preconcetti, purtroppo radicati - e istituzionalizzati al punto da essere ritenuti normali, e non essere nemmeno riconosciuti per quelli che sono: ossia preconcetti - influenzano la percezione di ciò che è all'avanguardia, e orientano le tendenze in modi che rendono ardua la spontaneità delle forme artistiche. Di fatto, così si limita la libertà di linguaggio e si stabilisce di nascosto una demarcazione coatta fra ciò che è mainstream e ciò che è underground.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 14/01/2013 15.39.00
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