Recensione il settimo sigillo regia di Ingmar Bergman Svezia 1957
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Recensione il settimo sigillo (1957)

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locandina del film IL SETTIMO SIGILLO

Immagine tratta dal film IL SETTIMO SIGILLO

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Immagine tratta dal film IL SETTIMO SIGILLO

Immagine tratta dal film IL SETTIMO SIGILLO
 

"Il settimo sigillo", uscito nel 1956, è unanimemente riconosciuto da pubblico e critica come uno dei film più coinvolgenti e celebri degli anni cinquanta, una vera e propria icona del pensiero di un'epoca.
Il film di Bergman, infatti, nonostante la sua vocazione artistica ed autoriale, ha goduto di uno straordinario successo di pubblico, superando a pieni voti anche il giudizio dei media, sempre attenti al primo impatto che un film ha con gli spettatori. Sia la stampa occidentale che le maggiori reti televisive lo hanno quindi sostenuto a più riprese promuovendone per molto tempo la visione in luoghi di tradizione laica e religiosa.

Il cavaliere Antonius Block, di ritorno nella propria terra dalle crociate, trova ad attenderlo la Morte. Riuscirà a ritardare il proprio ineluttabile destino impegnandola in un'estenuante partita a scacchi, che nessuno dei due può permettersi di perdere; il tutto sullo sfondo di una Svezia martoriata dalla peste e dalla superstizione.

La pellicola è ambientata nella Svezia del 1300, in un contesto storico impregnato di forti fermenti religiosi, che riempiono di misticismo e paure gran parte della vita sociale lasciando nell'indifferenza un mondo laico dedito in prevalenza ai duri lavori di campagna ed a semplici soddisfazioni materiali.
"Il settimo sigillo" raccoglie ed articola, con rara maestria narrativa, alcune interrogazioni esistenziali che l'uomo da sempre si pone intorno ai misteri della vita e della morte; è una commedia drammatica che fa del senso di colpa e delle atmosfere confessionali i punti centrali della narrazione, sconfinando a tratti nel funesto e nel luttuoso, nel fatalismo e nel sacrilego, mantenendosi però distante da ogni forma di tragedia così come veniva intesa nella cultura teatrale dell'antica Grecia.

La pellicola porta l'impronta del miglior Bergman, che rende il film pregevole e indimenticabile, distante da estetismi di maniera; anche grazie allo straordinario lavoro del regista, l'opera diventa in breve tempo un vero e proprio emblema della grandezza della tradizione cinematografica svedese della prima metà del novecento, che vede protagonisti Sjostrom Victor e Sjoberg Alf oltre ad Ingmar Bergman.
La geniale composizione dei temi e la loro brillante configurazione espressiva riescono a soddisfare anche quel desiderio di maturazione artistica a lungo coltivato dallo stesso regista dopo "Una vampata d'amore" (1953), "Sogni di donna" (1955) e "Sorrisi di una notte d'estate" (1955).

La scenografia è originale e sempre ben equilibrata, e ben si sposa con una sceneggiatura dominata da dialoghi pregnanti e solenni, che contribuiscono alla creazione di attese cariche di tensioni, ben sciolte da un finale di rara bellezza espressiva.
L'effetto d'insieme del film è straordinario, e l'influenza suggestiva che rilascia ed il trasporto meditativo infuso dai temi sono degni del miglior cinema; nulla è lasciato al caso: le pagine storiche del quattordicesimo secolo svedese ben si combinano con le parti sceniche, più ispirate a brani di letteratura teatrale e vita religiosa, ingenerando nello spettatore la sensazione di trovarsi di fronte ad uno specchio antico che riflette, da un'epoca lontana, le passioni più infuocate ed eterne dell'animo umano.
Tra i temi più significativi del film, che conservano tuttora un grande valore meditativo, sono da sottolineare: il conflitto esistenziale dell'uomo, preso tra l'idea della morte e la ricerca della felicità; i dubbi sull'esistenza di Dio; l'importanza dell'amore come appagamento e fondamento dell'esistenza umana; il senso di colpa religioso che martirizza la carne e sfocia nell'autodistruzione, come nella folle processione dei flagellanti; il silenzio di Dio; l'odio omicida del clero verso le donne quando indulgono in piaceri carnali proibiti dalle sacre scritture; il godimento sessuale delle eretiche attribuito ad una presenza demoniaca nel corpo femminile.

Le scene si svolgono nello splendore di un bianco e nero cristallino, lucente, reso limpido da una luce sempre ben misurata. La cura tecnica della fotografia accresce la chiarezza e l'interesse per i volti dei personaggi in primo piano ed esalta le sfolgoranti bellezze paesaggistiche della natura svedese (la pellicola è girata a Hovs Hallar, riserva naturale dello Skane lan).

Bergman con questa pellicola si avvicina in modo sorprendente alla perfezione stilistica a lungo ricercata.
"Il settimo sigillo" ha una narrazione complessa ma ben articolata; il racconto si avvale di due modi espressivi distinti: il primo di impronta realista ed il secondo espressionista.
Osservando con cura i diversi capitoli della pellicola è possibile infatti notare da una parte numerose scene dominate da raffigurazioni/ritratto di forte realismo, immerse nella spontaneità più vera della vita quotidiana, dall'altra situazioni sceniche più astratte, dal sapore soprattutto metafisico, simbolico, sacrale, ricche di espressioni figurate, metaforiche e allegoriche.
Bergman riproduce un'atmosfera filmica irripetibile, ricca di contrasti impressionanti, che conturbano e seducono lo spettatore tenendolo in bilico tra il desiderio di partecipare alla sensualità più laica che traspare dai dialoghi e dalle relazioni sociali immerse nella migliore vita di campagna ed il desiderio di un godimento più religioso, ambiguo, accompagnato da un tormento misterioso ed ossessivo che trascina nelle passioni più buie, facendo precipitare la ragione nelle gabbie senza uscita dell'identificazione con il sacro; sono, questi, contrasti di forte impatto emotivo che nel film non rallentano mai la scorrevolezza del racconto, grazie a una linea narrativa sobria, senza eccessi, ben congeniata, in cui convergono, con armonia, seducenti motivi storici e filosofici.
Con "Il settimo sigillo" il regista svedese dimostra di saper cogliere temi d'interesse religioso e filosofico che resistono al tempo, che attraversano ogni epoca senza mai fermarsi. A distanza di anni il film sembra mantenere tutta la propria incantevole dimensione artistica, anche se oggi certe caratteristiche espressive, basate sull'insistente ieraticità del modo recitativo o sulla realizzazione di prolungate sequenze visive dense di atmosfere serie, gravi e sacrali, sono in genere mal tollerate.

Con questo suo tredicesimo film il regista svedese si esprime ancora con criteri formali vicino al teatro, alternando però al fitto dialogo, caratteristico del modo teatrale, interessanti inquadrature di famose opere d'arte svedesi, raffiguranti momenti di vita quotidiana laica e religiosa.
Numerosi difatti sono i riferimenti artistici e musicali che costituiscono la raffinata intelaiatura del film; spiccano per importanza storica i Carmina burana, poesie/canzoni medievali goliardiche i cui testi sono stati rinvenuti nel 1803 a Brno - antica Buranum, detta anche Beuren sotto l'impero austriaco - musicati da Carl Orff (1895-1982) in pieno novecento.
Di rilievo, in alcune scene del film, il dipinto "Il cavaliere, la morte, il diavolo", di Durer, l'affresco "Il trionfo della morte", attribuito a Orcagna (Andrea di Cione 1343-1368, Firenze), da cui prende spunto la scena della processione dei flagellanti, ed infine le "Incisioni in legno" di Hans Beham, veri e propri capolavori di arte medievale.
Il film nasce contestualmente al lavoro teatrale di Bergman in un atto unico: "Pittura in legno" del 1955, che tratta gli stessi argomenti.

Di notevole effetto sono poi le scene rappresentanti i rituali e le esaltazioni mistiche popolane nella vita quotidiana: episodi da affreschi, ricavati dalla storia religiosa e mitologica dell'epoca; tra queste s'impongono per coinvolgimento drammatico le scene ispirate alla danza della morte, importante motivo pittorico medievale.
Struggente e memorabile l'addio al mondo del cavaliere Block e dei suoi familiari: una pagina di grande cinema in cui la forza suggestiva delle immagini è pari al valore del simbolismo che le racchiude; la sequenza visiva è unica, gli sventurati prossimi a morire si tengono per mano e si avviano danzando verso l'ignoto, una speranza sembra ancora possederli, ma sembra essere solo un ultimo desiderio: immaginano forse che qualcosa possa ancora frapporsi tra loro e l'oblio?

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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 13/02/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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