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Sedici.
Sono i minuti in cui Anthony Hopkins recita ne "Il Silenzio degli Innocenti". Appena sedici minuti per dar vita ad un'icona del cinema: il Dr. Hannibal Lecter. Eminente psichiatra, luminare, esteta, divoratore di corpi.
Attingendo dal fortunato romanzo di Thomas Harris, Jonathan Demme tratteggia negli occhi di Hopkins una delle figure più agghiaccianti e nello stesso tempo affascinanti della storia del cinema. In realtà, il personaggio di Lecter era già apparso in un precedente film, "Manhunter", anch'esso tratto da un romanzo di Harris ("Red Dragon"). Seppure quest'ultimo fosse una pellicola di discreta fattura, il suo impatto sull'immaginario collettivo non è però minimamente paragonabile a quello de "Il Silenzio degli Innocenti" (basti pensare che quest'ultimo è uno dei pochi film, insieme a "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "Accadde una notte", ad aver vinto i cinque premi oscar più ambiti: miglior film, regia, sceneggiatura non originale, attore e attrice protagonisti); e non solo perchè Brian Cox nei panni di Lecter (che in "Manhunter" è chiamato Lektor) per quanto bravo non regge il confronto con Hopkins, ma anche per la mancanza di quelle atmosfere agghiaccianti, di quella psicologia morbosa che rende "Il Silenzio degli Innocenti" uno dei thriller più avvincenti e inquietanti di sempre.
Seppure Jonathan Demme si fosse già affacciato al thriller (con "Qualcosa di travolgente", 1987), sarà "Il Silenzio degli Innocenti" a renderlo uno dei registi più affermati del momento (tanto che nel 1993 dirigerà un'altra pellicola destinata a rimanere nella storia: "Philadelphia", che ha portato all'Oscar Tom Hanks quale miglior attore protagonista e Bruce Sprengsteen per la migliore canzone).
La figura del perverso Buffalo Bill trae ispirazione dalle macabre vicende di tre dei più feroci serial killer mai esistiti, e sia Jodie Foster che lo stesso Hopkins hanno costruito i loro personaggi grazie al supporto di criminologi ed esperti del settore (basti pensare che Lecter, rifacendosi assassino seriale realmente esistito, non chiude mai le palpebre).
Una menzione a parte meritano le geniali improvvisazioni dei due attori: il famoso risucchio tra i denti di Lecter è un'idea dello stesso Hopkins, così come l'idea di sottolineare le origini contadine di Clarice. Anche in quel caso, la reazione scaturita sul viso della Foster dalle parole taglienti del Dr. Lecter non era stata preparata.
Queste magistrali performance attoriali vengono supportate da una regia e da una fotografia sontuose ed empatiche che, giocando sui primi piani dei due protagonisti, esaltano e imprimono sulla retina dello spettatore una miriade di sensazioni uditive, olfattive, tattili, ma soprattutto psichiche. Le atmosfere rarefatte, nonchè gli ambienti in cui i personaggi vivono, sono lo specchio delle loro anime: così, l'antro buio in cui Buffalo Bill consuma le sue perversioni è anche il riflesso della sua mente malsana, dove ogni scomparto, ogni stanza, è una finestra sul suo mondo scomposto e allucinato, fin nei meandri delle sue viscere, in quel pozzo nascosto in cantina. Nulla a che vedere con le prigioni di Lecter, in cui regnano le opere sublimi di un'artista: riflesso di una follia diversa, molto più terrificante perchè non compulsiva, non banale, ma riflessiva e coerente con una logica che sembra non appartenere all'uomo.
Sono invece il sacrificio, il dolore e la volontà i principi che regolano il mondo di Starling (come si può leggere dai cartelli che appaiono nella sequenza iniziale dell'allenamento nel bosco). Una vita dedita alla propria missione nell'FBI, non tanto per avere un riconoscimento da un' istituzione che appare in alcuni casi sessista ed inefficace, ma per placare un intimo vuoto, che riecheggia come un grido dentro di lei. Il risultato è un viaggio nei meandri più bui dell'animo umano, per portare alla luce le più recondite turbe infantili, in modo che quel grido di terrore che riecheggia in un pozzo oscuro, si plachi per sempre.
A condurci in questo abisso di follia è la voce ipnotica di Lecter, capace di percepire l'odore dei nostri più intimi terrori: lo psichiatria cannibale relegato come una cavia da laboratorio dietro una grande teca di vetro nel carcere di Baltimora è dotato di facoltà mentali talmente eccezionali da travalicare l'umana comprensione.
Attraverso un pericoloso gioco psicologico fatto di intime confidenze in cambio di determinanti indizi, Lecter trasporta l'agente Clarice Starling nel suo mondo, fornendole la chiave per risolvere il caso di Buffalo Bill.
Ma il prezzo da pagare è alto, perchè l'uomo si nutre, ancor prima che di carne umana, di tutto ciò che con tutte le nostre forze tentiamo disperatamente di celare: i nostri più intimi segreti, che sono poi lo specchio di quello che siamo.
Può un demone dell'inferno essere avvolto da cotanta luce da permettergli di struggersi per una malinconica sinfonia? O di usare le sue mani per dipingere un paesaggio meraviglioso? O di amare? Questo contrasto tra l'orrore e la bellezza, tra la banalità di alcune vite e la superiorità del senso estetico, sono le leggi che regnano nel mondo di Lecter. La bellezza come un dipinto da venerare; la follia come un topo con cui giocare; la banalità e l'insensatezza come cibo da masticare, da trasformare in escrementi. Quest'etica, così diversa da quella che regna nel mondo di regole in cui vive Clarice Starling, è ciò che rende Hannibal Lecter così magnetico, così potente. Si intuisce che ci si trova davanti a "qualcosa" di indefinibile, che dovrebbe disgustarci, ma che invece ci attrae. Intuiamo, appunto, perchè a nulla servono i tanti sequel e prequel che sulla scia del film di Demme, hanno cercato di far luce sugli aspetti privati di Lecter (da "Hannibal", passando per "Red Dragon", fino al recentissimo "Hannibal Lecter - Le Origini del Male").
Nessun evento legato alla sua infanzia, nessuna introspezione sul suo passato o sul suo futuro, valgono quanto quei sedici minuti, in cui Lecter, rinchiuso nella sua teca di vetro, stabilisce con Clarice quella sinistra affinità, quel rapporto ambiguo e inspiegabile tra due menti apparentemente opposte. Talmente inestricabile è il cuore profondo de "Il Silenzio degli Innocenti" che nessun sequel è riuscito a spiegare quel gesto quasi impercettibile, quando lui, attraverso le sbarre della gabbia, le sfiora per un attimo l'indice della mano, come nell'affresco della Creazione di Adamo. E lei, in un attimo di sospensione, lascia che quella carezza le penetri fin dentro l'anima.
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Recensione a cura di Michele Suozzo - aggiornata al 25/09/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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