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Nel Settecento napoletano, all'ombra dei Borboni, Sergio Giuramondo è un giovane nobile di provincia deciso a raggiungere la perfezione ed il successo. È il più brillante tra gli allievi ufficiali dell'Accademia, e re Carlo III sembra volergli spianare la carriera, propiziando il suo matrimonio con una nobile che, poco prima del matrimonio, gli confessa di essere stata l'amante del sovrano. Sergio abbandona tutto: l'idea del matrimonio, la corte, l'esercito. Si fa frate, "per trovarsi più in alto di chi lo ha umiliato", poi eremita in un altopiano. La sua fama di santità aumenta finché però egli cede carnalmente con una ragazzina malata. Allora fugge e cerca la morte pensando di annegare in un laghetto, ma non vi riesce.
Nel "Padre Sergio" di Tolstoj - che prima dei Taviani ha dato origine a due altri film: nel 1928, in Italia, di e con Febo Mari, e nel 1917 in Russia, con il grande Mosjukin - vi è il dramma di un uomo che cerca nella santità la grandezza e finisce con il non trovare né l'una né l'altra. Una scelta, la sua, di annientamento di sé nell'incontro con l'Onnipotente, e che il suo dio invece risolve nel rigetto più completo.
I guizzi migliori il film li ha in scene e particolari che non hanno origine nel racconto di Tolstoj: nell'invenzione visiva della confessione di Nastassja Kinski, tutta giocata sulle luci e sulle ombre, sul non guardarsi in faccia, sul celarsi allo sguardo; nella sequenza della tentazione da parte della viaggiatrice Patricia Millardet, quando lo spasmodico sforzo di padre Sergio per dimenticare il desiderio è reso con una invenzione sonora, il crescere a dismisura del rumore della pioggia sul quale il monaco si concentra (una sorta di soggettiva sonora rara al cinema); o nell'episodio dei due sposi - la donna è la protagonista dell'"Albero degli zoccoli" - che chiedono a padre Sergio la grazia di morire insieme. Ci si domanda quanto Tolstoj non sia stato d'ingombro, alla voglia dei Taviani, di raccontare qualcosa d'altro.
Il senso della solitudine si riempie di assilli, di dubbi, del senso umano di buttar via la propria vita, della paura ma anche del desiderio di morire, di quella morte alla quale la solitudine sa assai spesso assomigliare. È un cinema che non si vuole "a misura d'uomo", poiché nasce da un racconto sugli umanissimi difetti di una persona che fallisce nel proprio incontro/scontro con dio. Ecco perché questo cinema affonda nell'agiografia visiva, nella gestualità ieratica: perché sa andare dentro le maree e le risacche dell'anima di un uomo nel suo insanabile dissidio con la violenza del sacro, qui resa anche tramite la staticità dispotica dell'icona.
Con questo film i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (San Miniato, Pisa 1931 e 1929) tornano a investigare le ragioni di una sconfitta, in questo caso la più elevata concepibile. In effetti "Il sole anche di notte" è un film sulla ricerca della perfezione e della purezza interiore, una ricerca innanzitutto spirituale che è condotta da padre Sergio a qualsiasi costo, rilanciando invano tutto se stesso ogni volta, prima laicamente alla corte del Re dei Borboni, idealizzato fin dall'infanzia, poi religiosamente attraverso la consacrazione e la vita eremitica in montagna. Ma sia il confronto con il re, sia la ricerca di dio si riveleranno deludenti e al di sotto delle sue aspettative, dei suoi ideali di purezza. Alla fine fallisce miseramente il suo obiettivo o forse paradossalmente lo realizza proprio mancandolo, approdando cioè a una sorta di nichilismo estremo sia veritativo che comportamentale, che è la condizione inconfondibile dei provati da dio, abbandonati a sé stessi nell'oscurità della "notte dello spirito", l'apice del cammino di ascesi spirituale secondo la letteratura mistica spagnola del millecinquecento (Teresa d'Avila e Giovanni della Croce).
In particolare Santa Teresa, attraverso l'immagine del "Castello interiore" (1577) come metafora dell'abitazione divina, delinea sette mansioni o livelli in cui l'anima progressivamente dimora durante il percorso di graduale elevazione che la porterà all'unione con dio.
Nella prima mansione Teresa enfatizza l'importanza della preghiera e dell'umiltà, necessari al processo di conversione. La seconda mansione è quella della "notte dei sensi", una fase molto dolorosa poiché è qui che l'anima incomincia la trasformazione di quella parte del desiderio carnale che ristagna nella perversione. Fra la terza e la quinta mansione c'è il passaggio dall'ascesi attiva a quella passiva, dalla purificazione dipendente dall'esercizio della buona volontà alla sua alienazione ed espropriazione coatta. La stessa preghiera perde il suo senso abituale poiché il monologo umano, già trasformato in dialogo, si trasforma ulteriormente in monologo divino.
La sesta è quella in cui Teresa si è particolarmente soffermata. In questa mansione l'anima è condotta nell'abisso del silenzio di dio e dunque qui si ritrova abbandonata a se stessa. Coloro che vi vengono trascinati sono ridotti alla dimensione di una vuota quotidianità, schiacciati dal crollo della speranza per la propria salvezza e in preda a mortificanti e paralizzanti crisi nostalgico-depressive. Nella settima mansione si dovrebbe compiere definitivamente l'unificazione dell'anima con dio.
L'ascesi spirituale porta allo svuotamento totale di qualsiasi contenuto, al nulla, per la completa accettazione dell'Alterità.
Ma il cammino di padre Sergio, e sta qui la novità del film rispetto all'adesione entusiastica della santa, è il riconoscimento della impossibilità e della disumanità di tale cammino: infatti Sergio manifesta tutta la propria fragilità e debolezza non riuscendo a resistere alla più subdola delle tentazioni, ossia non quella verso la bellissima nobildonna che lo provoca spudoratamente (e a cui sa opporsi con un gesto simbolicamente di castrazione, l'amputazione di un dito), bensì quella verso la ragazza indemoniata, la bisognosa di esorcismo, d'aiuto e d'assistenza religiosa, insomma verso la inerme che lui non può mandare via senza soccorso. Dopo l'amplesso consumato, padre Sergio percepisce la scomparsa di dio dal proprio orizzonte, di un dio che lo ha lasciato da solo di fronte alla seduzione del male, un dio che gli si è eclissato, gli ha rubato la santità e poi è tramontato per sempre.
Da almeno un secolo qui in Occidente lo sprofondare in questo baratro spirituale non garantisce affatto la certezza di trovarvi un qualche dio e tanto meno il dio dei cristiani. Nella migliore della ipotesi ci sono la speranza e l'attesa di un nuovo dio, di un nuovo teismo, patendo nel frattempo un lacerante nichilismo ateo. Di fronte a tale conclusione, padre Sergio, sentendosi disperatamente inadeguato a perseguire una meta irrealizzabile, tenta anche di togliersi la vita annegandosi, ma a sue spese scopre che nemmeno il corpo gli appartiene e può assecondare il proprio desiderio di morte, affermando al contrario ciecamente la pulsione alla vita, qualsiasi essa sia.
I fratelli Taviani, attraverso l'immagine del petalo di fiore che cade dalla pianta nella mano del protagonista, hanno emblematicamente riassunto ogni stadio del suo tragitto. All'inizio la pianta sembra obbedire al comando di Sergio, ma con lo scorrere delle fasi esistenziali essa si manifesterà sempre più estranea al suo desiderio. Cioè la vita, l'ambiente, dio e chi per essi, da empatici si trasformano o si svelano esplicitamente come anaccoglienti, abbandonici, indifferenti.
Padre Sergio finirà come il suo dio, scomparirà del tutto e di lui non si avranno più notizie, non rimarranno più tracce.
Mauro Lanari
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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 30/06/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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