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Film del 1946, "I migliori anni della nostra vita" è a tutti gli effetti una delle prime pellicole del neorealismo americano. Diretto da William Wyler, da sempre legato a grossi successi di critica e di botteghino (vedasi "La voce nella tempesta" con Laurence Olivier o "La signora Miniver" uscito pochi anni prima), il film si avvale di uno stuolo di interpreti di prim'ordine come Frederic March, Myrna Loy (qui in un ruolo drammatico dopo aver interpretato per anni accanto a Dick Powell delle pellicole giallo-rosa della serie sull'Uomo Ombra), Dana Andrews e Virginia Mayo.
Uno dei protagonisti è un reduce della seconda guerra mondiale rimasto privo di entrambe le mani, Harold Russell, qui al suo primo ruolo da attore in un lungometraggio, a sottolineare l'impostazione realista che il regista ha voluto dare alla storia.
Pur prendendo spunto dal mediocre libro omonimo di Mackinley Kantor, Wyler traccia una storia nella quale ben presto tutti i reduci americani si sono identificati. La trama del film, film corale perché le storie dei tre principali protagonisti di fatto si intersecano le une con le altre, inizia con il ritorno in patria di tre reduci rappresentanti di diverse tipologie di soldati: l'impiegato, in là con gli anni con famiglia a carico e figli grandi, tipico membro della piccola borghesia, il giovane un po' spostato, di umili origini, con una moglie che non ama sposata frettolosamente prima di partire per il fronte, l'invalido di guerra che si trova ad affrontare la vita di sempre con il fardello della sua pesante mutilazione. A tutti questi personaggi la guerra ha cambiato la vita e al loro ritorno riprendere una esistenza normale fingendo che nulla sia accaduto è difficile, quasi impossibile.
Dopo aver affrontato il capitolo bellico ne "La signora Miniver" drammone strappalacrime con intenti propagandistici dove però si incitava la popolazione a dare man forte agli uomini al fronte, Wyler passa ora a descrivere l'infausto esito della guerra sui reduci, inaugurando un filone che in America, complici i vari conflitti che spesso e volentieri vedono in prima linea gli Stati Uniti, praticamente non conosce crisi. Il romanzo di Kantor finisce senza spiragli di luce, Wyler ha voluto di proposito rimaneggiarlo per inserire il consueto lieto fine, ma la sua scelta, sebbene influenzata dalle necessità delle majors, non va criticata "tout court". L'intento principale, quello cioè di far capire che la guerra è malvagia e lascia profondi strascichi che solo con una profonda forza interiore si possono superare, è pienamente raggiunto (e i premi ottenuti dalla pellicola sono una valida testimonianza), concludere la storia drammaticamente o malinconicamente sarebbe stato un ulteriore colpo per chi tentava di rialzarsi da questa tragedia collettiva appena trascorsa.
La cinematografia americana legata fino ad allora a storie molto distanti dal sociale comincia finalmente ad affrontare tematiche più vicine alla gente superando il confine che vedeva il mondo di celluloide cone una semplice e spensierata evasione. Il film di Wyler, ancora attualissimo, a sessant'anni dalla sua uscita sugli schermi grazie a dialoghi attuali e affatto retorici è uno dei migliori esempi di questa svolta hollywoodiana, destinata purtroppo a non modifcare totalmente il meccanismo dell'industria cinematografica d'oltreoceano.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 08/06/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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