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"Quanto della vita umana si perde nell'attesa?"
A dire la verità troppo e non sempre il risultato giustifica l'attesa, così il senso di ciò che si è perduto soverchia il piacere del conseguimento del risultato.
Sono trascorsi ventisette anni da quando il personaggio di Indiana Jones è apparso per la prima volta sugli schermi cinematografici. "I Predatori dell'Arca Perduta" ("Raiders of the Lost Ark", 1981), nato dalla fantasia di Philip Kaufman e di George Lucas, rivoluzionò il modo di concepire i film d'avventura. La miscela proposta da Steven Spielberg e dagli autori era densa ed originale: personaggi carismatici e così magnificamente caratterizzati da sembrare reali anziché semplicemente verosimili, pur nelle loro estremizzazioni; dialoghi brillanti e perfettamente calibrati fra funzionalità scenica ed ironia; una trama avvincente, arricchita da riferimenti storici e culturali affascinanti, interessantissimi e documentati al punto da mescolare sapientemente e senza soluzioni di continuità il reale e il fantastico, rendendo fantasiosa la realtà e reale la fantasia; scenografie seducenti, valorizzate da una fotografia emozionante e coinvolgente, capace di conciliare perfettamente la spettacolarità della visione con lo svolgimento narrativo dell'azione; una spettacolarizzazione mai fine a se stessa e sempre perfettamente integrata alla trama e complementare ad essa.
Una miscela, quindi, perfettamente dosata di fantasia, di storia, di archeologia, di magia, di dramma, di commedia, di azione, di avventura. Una formula vincente che sapeva far emozionare, sognare, divertire, coinvolgere, all'occorrenza spaventare lo spettatore, facendo leva su tutto quell'immaginario collettivo tipico dell'infanzia e dell'adolescenza, rapportato ad un mondo adulto che ancora non aveva perduto la capacità di sognare.
"I Predatori dell'Arca Perduta" ebbe due seguiti: "Indiana Jones e il Tempio Maledetto" ("Indiana Jones and the Temple of Doom", 1984) e "Indiana Jones e l'Ultima Crociata" ("Indiana Jones and the Last Crusade", 1989). Si noti come il semplice fatto che il nome del protagonista sia divenuto parte integrante dei titoli successivi, fosse già indice dell'evidente popolarità ottenuta dal personaggio di Indiana Jones. Tuttavia il terzo capitolo sembrava voler essere una sorta di conclusione di una saga, che aveva aperto e che voleva chiudere gli anni ottanta.
Ed infatti fu proprio per volontà di Spielberg, che volva dedicarsi a lavori più "seri", e di Harrison Ford, che temeva di restare prigioniero del proprio personaggio, che all'inizio degli anni novanta non fu girato un quarto capitolo della saga.
Evidentemente la volontà di Spielberg e di Ford era vincolante, ma contrastava sia con quella della produzione, in particolare proprio con quella di George Lucas, sia con la volontà del pubblico che all'epoca avrebbe assistito a qualsiasi nuovo capitolo delle avventure di Indiana Jones.
Fu per questo che la produzione commissionò un nuovo soggetto ed avviò il progetto di un quarto capitolo che poi non vide la luce per i motivi esposti sopra.
Questo quarto capitolo avrebbe dovuto intitolarsi "Indiana Jones and the Fate of Atlantis".
Quando George Lucas capì che non era possibile realizzare il film senza la partecipazione di Spielberg e di Ford, fu costretto a rassegnarsi, ma solo parzialmente, anche perché il nuovo soggetto era dannatamente buono. Fu per queste ragioni, anche se oggi si tende a negare questo fatto, che Lucas trasformò il questo soggetto in un videogame anziché in un film. E così la Lucas Arts produsse il gioco per PC "Indiana Jones and the Fate of Atlantis". Su internet si possono reperire articoli che parlano di questo progetto solo ed esclusivamente come videogioco, mentre risulta assai difficile recuperare le interviste e le dichiarazioni rilasciate nel 1992 (data di pubblicazione del gioco) in cui si confermava il fatto che quello avrebbe dovuto essere il quarto capitolo della saga cinematografica, ma che per ragioni di opportunità e di scelte artistiche non fu realizzato.
Alle tesi che parlano de "Il Destino di Atlantide" solo come gioco per computer è facile opporre una serie di contestazioni che, per chi scrive, sono già sufficienti a dimostrare il contrario. Si pensi che quel videogioco fu una produzione anomala nel campo delle avventure grafiche prodotte dalla Lucas Arts. Esso infatti è il videogioco di avventura più lungo e complesso che all'epoca fosse stato mai prodotto. Il soggetto, la sceneggiatura e la direzione artistica sono di Hal Barwood, già sceneggiatore di "The Sugarland Express" (1974) e co-sceneggiatore di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" (1977), entrambi diretti da Steven Spielberg. Inoltre, la trama del videogioco si distacca completamente da quella piattezza che aveva caratterizzato i videogiochi ufficiali di Indiana Jones precedenti, ispirati ai film già realizzati. Per l'accuratezza della storia, per la compattezza narrativa e per la complessità dei dialoghi, la sceneggiatura di "The Fate of Atlantis" è evidentemente assai più prossima ad una sceneggiatura cinematografica che non a quella di un videogioco.
Perché, direte voi, parlare così a lungo di un videogioco? La risposta è semplice: è in "Indiana Jones and the Fate of Atlantis" che posano le radici di "Indiana Jones ed il Regno del Teschio di Cristallo", il nuovo quarto capitolo della saga.
A questo punto passiamo all'analisi di questo nuovo e forse ultimo capitolo della serie.
"Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo" è un progetto che ha avuto una gestazione quasi ventennale.
Nel 1992, quando venne prodotto il videogioco sopraccitato, fu prodotta anche la serie de "Le Avventure del Giovane Indiana Jones" ("The Young Indiana Jones Chronicles"), in cui già si faceva riferimento ai teschi di cristallo (perché nella realtà questi manufatti sono più di uno) e nella fattispecie a quelli rinvenuti nello Yucatan e in Belize. Fu da allora che Lucas cominciò a coltivare questo progetto, in cui però naturalmente il teschio di cristallo risultava essere un di quei manufatti che riconducevano alla scoperta di Atlantide. Quindi non ci si staccava poi troppo dall'impianto narrativo del videogioco.
Quando anche Steven Spielberg ed Harrison Ford ritornarono ad interessarsi ad un quarto capitolo della saga cinematografica, eravamo ormai agli inizi del 2000. Il primo soggetto che fu proposto loro era ancora ambientato a cavallo fra gli anni trenta e quaranta e i nemici di sempre continuavano ad essere i nazisti. La prima obiezione sollevata da Spielberg fu che, dopo aver diretto "Schindler's List" (1993), non avrebbe più potuto affrontare con leggerezza la tematica del nazismo. Inoltre Harrison Ford ormai aveva quasi quindici anni più del suo personaggio. A queste contestazioni si aggiunse che sia Spielberg, sia Ford reputavano che il nuovo soggetto fosse troppo simile a quelli dei film precedenti e, in particolare, a "I Predatori dell'Arca Perduta". Per questo si persero altri due anni di lavorazione. Finalmente una nuova sceneggiatura fu scritta da Frank Darabont, già regista de "Le Ali della Libertà" e de "Il Miglio Verde". Questa sceneggiatura fu respinta da Lucas e allora furono consultati M. Night Shyamalan e poi Tom Stoppard. Alla fine la sceneggiatura fu commissionata a David Koepp, senza dubbio una delle migliori penne che Hollywood possa vantare, ma che presenta un grave difetto che troppo spesso è visto come un pregio: Koepp, quando un lavoro gli è commissionato, rinuncia alla propria vena creativa e segue perfettamente le linee dettategli dalla produzione. Questo spiega come egli abbia saputo sceneggiare capolavori quali "Carlito's Way" (1993) e film al di sotto di qualsiasi limite di decenza quali "La Guerra dei Mondi" ("War of the Worlds", 2005), dove, ad essere onesti, era co-sceneggiatore. E così Koepp ha scritto e riscritto la sceneggiatura di "Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo", attenendosi prima alle direttive di Lucas, poi a quelle di Spielberg ed infine anche a quelle di Ford.
Il nuovo capitolo si apre nel 1957, in piena guerra fredda, e ci mostra Indiana Jones prigioniero di cattivissimi soldati russi, travestiti da militari americani, che sono alla ricerca di un qualcosa che il Governo Americano ha nascosto in una base militare del Nevada, la famigerata Area 51. Grazie ad una fuga rocambolesca, che culmina con l'esplosione di una bomba atomica, cui sopravviverà rifugiandosi in un frigorifero foderato in piombo, il nostro eroe sarà proiettato attraverso gli anni cinquanta all'interno della sua nuova avventura.
In un'America dilaniata dalla paura della minaccia comunista, perseguitata dal maccartismo, straziata dalla paranoia dello smarrimento del sogno dello stile di vita americano, la fantasia cede il passo alla scienza, la libertà s'inchina di fronte al bisogno di sicurezza. E' così che il professor Jones, divenuto un pluridecorato eroe di guerra, viene scacciato dalla sua università. È pedinato dalle perfide spie russe, ma anche dagli agenti del OSS, di cui era stato membro e che ha ormai cambiato il proprio nome diventando la CIA. La sola persona che però riesce davvero a trovarlo è un ragazzino, che sembra la brutta copia di Marlon Brando uscito direttamente da "Il Selvaggio". Si chiama Mutt (Shia LaBeouf) e ha bisogno del nostro eroe per ritrovare sua madre (Karen Allen) e il professor Oxley (John Hurt), entrambi scomparsi nella foresta brasiliana.
La ricerca conduce i due in Sud America. E così il nostro eroe, passando sull'Altopiano di Nazca e attraverso le rovine di Machu Picchu, trasformate per l'occasione in una vera e propria necropoli, popolata da misteriosi indigeni esperti di arti marziali, arriverà fino alla mitologica città di Akator, conosciuta anche come La Città degli Dèi e come Eldorado.
La trama sembra avere la stessa costruzione e lo stesso impianto narrativo dei precedenti episodi, ma in realtà non è proprio così.
Cerchiamo quindi di analizzare questo sviluppo narrativo, avvertendo il lettore che, benché la trama riservi ben poche sorprese, quanto segue potrebbe rivelare alcuni dei principali colpi di scena di questa pellicola.
L'incipit del film è assolutamente anomalo rispetto ai suoi tre illustri predecessori. Mentre negli altri casi si assisteva all'epilogo di una nuova avventura del nostro eroe, mai narrata nella sua completa evoluzione, ne "Il Teschio di Cristallo" (porti pazienza il lettore se non si ripete il titolo nella sua interezza) ci troviamo di fronte ad una storia già avviata e che è parte integrante dello svolgimento narrativo di tutto il film. Tuttavia, questo incipit è male integrato nel costrutto logico narrativo e la sua funzione non è né introduttiva alla vicenda né propedeutica alla scoperta dei nuovi personaggi, in particolare a quello di Irina Spalko (Cate Blanchett) e a quello dell'infido Mac (Ray Winstone). La sua funzione appare piuttosto quella di farci riscoprire il nuovo Indiana Jones: un eroe invecchiato, ma che non ha perduto il proprio spessore.
"La vita, fino a un certo momento ti dà, poi comincia a togliere".
La malinconia della vecchiaia e del trascorrere del tempo è racchiusa in questa frase, ma durante lo svolgimento del film questa malinconica consapevolezza cede presto il passo all'ironia e ad azioni così rocambolesche, che certo non fanno rimpiangere il vigore del più giovane Indiana Jones.
In altre parole balza agli occhi che la scelta di presentarci un Indiana Jones invecchiato sia dettata soltanto dagli anni che sono trascorsi fra la realizzazione de "L'Ultima Crociata" e quella de "Il Teschio di Cristallo". Anni sprecati, come detto prima, per un capriccio degli autori.
Risulta altrettanto evidente come nella fantasia, tanto nella nostra quanto in quella degli autori, Indiana Jones non sia mai invecchiato.
Quasi niente di ciò a cui assistiamo sarebbe possibile per un uomo di circa sessanta anni, ma questo poco importa, perché qui non c'è nessuna pretesa di credibilità, come l'incipit fracassone, che culmina con l'esplosione nucleare, dichiara apertamente.
La vicenda, come sempre, trae spunto e si sviluppa intorno a fatti reali per poi prendere la via della fantasia. In questo caso, seguendo una perfetta linea di continuità con il video gioco, di cui abbiamo parlato poco sopra, si parte da quelle teorie che nascono intorno allo studio delle cartine di Piri Reis e del mappamondo di Finneo. Studi che sostengono l'esistenza di una società antidiluviana assai evoluta, che aveva già circumnavigato il globo terrestre e che era capace di costruire macchine in grado di volare. È partendo da questi studi che la sceneggiatura di Koepp trasforma il nostro Indy in una sorta di Graham Hancock ante litteram, che insegue le Impronte degli Dèi in giro per il mondo, incominciando dall'America Latina e in particolare proprio dall'Altopiano di Nazca.
Ma se il percorso di Hancock, che parte da Nazca, attraversa i segreti di Machu Picchu e del lago Titicaca, studia i misteri di Tiahuanaco e del dio Viracocha, conduce al tentativo di dimostrare l'esistenza di un continente perduto, la mitica Atlantide, sede di questa evolutissima società umana, il percorso intrapreso da Indy trascina lo spettatore nella mitologica Akator (in realtà anche essa è parte integrante degli studi condotti da Hancock, ma non è un punto di arrivo).
Naturalmente la trama del film abbandona fin da subito l'attinenza e la verosimiglianza alla Storia, che finiscono col limitarsi all'interesse che Stalin aveva realmente nutrito verso i Teschi di Cristallo e all'interesse che gli Stati Uniti hanno sempre coltivato per lo studio di una società, forse umana o forse extraterrestre, di epoca antidiluviana collocata cronologicamente fra il dodicimila e il seimila Avanti Cristo.
La scelta di ricondurre tutta la vicenda dei Teschi di Cristallo (si ricordi però che i veri teschi di cristallo rinvenuti rappresentano chiaramente un cranio umano e il mistero che ruota intorno ad essi risiede nella tecnica e negli strumenti utilizzati per scolpirli) al mito di Eldorado sembra essere un semplice espediente per distaccarsi da quella che era stata la sceneggiatura del videogioco. Anche la scelta di mostrare fin quasi dall'inizio un teschio dal cranio oblungo, dichiara la manifesta volontà degli autori di scostarsi da una qualsiasi pretesa di fedeltà storico-archeologica.
Peccato però che alla magia e a quell'alone di mistero e di misticismo, tipici della precedente trilogia, in questo quarto capitolo si sostituiscano la scienza e la fantascienza.
Questa scelta, annunciata da Lucas e da Spielberg prima ancora dell'uscita del film nelle sale cinematografiche, è, ad opinione di chi scrive, uno dei punti più deboli dell'intero film. È da essa che discende un'evoluzione narrativa meno coinvolgente e meno suggestiva rispetto a quella dei capitoli precedenti. La fantasia e la curiosità dello spettatore non sono sufficientemente stimolate; la costruzione del mistero non viene preparata con la consueta cura, non crea aspettative e delude nella sua rivelazione troppo frettolosa e scontata.
Si consideri che i due momenti più belli del film sono anche i due momenti più classici: l'esplorazione di Machu Picchu (come già detto sopra, trasformata in una necropoli) e l'arrivo ad Akator.
In tutto il resto del film si ha l'impressione di assistere ad una di quelle pellicole nate all'ombra dei precedenti capitoli di Indiana Jones. Paradossalmente, sembra che "Il Teschio di Cristallo" imiti proprio quei film che hanno imitato a loro volta i precedenti capitoli di questa saga. Le sequenze finali sembrano quasi la copia identica del finale de "Il Mistero delle Pagine Perdute" ("National Treasure: Book of Secrets", 2007).
A questo si aggiunga che gli inseguimenti, per quanto gradevoli e scorrevoli, non appassionano come i loro omologhi dei tre capitoli precedenti.
A mancare e ad essere molto mal dosata è proprio l'alternanza fra le scene di azione e quelle di riflessione, fra l'avventura e la scoperta archeologica, fra il mistero e la sua rivelazione, fra la Storia e la fantasia. Era l'equilibrio fra questi elementi a rendere i precedenti capitoli così meravigliosamente trascinanti e coinvolgenti.
Il capitolo, fino a questo momento, meno riuscito era il secondo. Lo stesso Spielberg ha sempre ammesso che "Il Tempio Maledetto" fosse il peggiore della trilogia, proprio perché mal equilibrato.
E purtroppo l'evoluzione logico narrativa de "Il Teschio di Cristallo" è assai simile a quella del secondo capitolo della trilogia.
In passato il pubblico era stato abituato a vedere Indy destreggiarsi anche con animali particolarmente ripugnanti. Questa volta è il turno di una miriade di formiche (digitali) giganti che sembrano uscite dall'orribile film per la televisione "Marabunta" (1998). Bene, queste formiche non suscitano neppure la metà del raccapriccio che potevano suscitare nello spettatore le migali de "L'Arca Perduta" o gli insetti de "Il Tempio Maledetto".
A questo capitolo mancano la fantasia, la magia, le emozioni, le suggestioni, i ritmi crescenti e discendenti degli episodi precedenti.
Se, come chi scrive, si è amanti della saga, resta impossibile non emozionarsi nel vedere nuovamente il personaggio di Indiana Jones calcare la scena. Tuttavia questo non è sufficiente a rendere "Il Teschio di Cristallo" un buon film.
Chi già non amava il lato più grottesco dei capitoli precedenti troverà quest'ultimo noioso oltre che ridicolo.
Chi, invece, aveva amato i precedenti difficilmente potrà dirsi completamente soddisfatto di questa nuova pellicola.
Chi poi si accosta ad Indiana Jones per la prima volta, forse potrà restare soddisfatto, ma non potrà non notare quanto questa pellicola, benché di fattura assai migliore, non ricordi da vicino i suoi emuli sopraccitati.
È apprezzabile e sufficientemente aperto il finale, in cui si assiste alla normalizzazione di Indiana Jones. Una normalizzazione che dura quanto un soffio di vento. Di quel vento che spalanca le porte della chiesa e riconsegna al Professore il suo cappello.
Si deve anche aggiungere che pure sotto un profilo meramente tecnico, questo film lascia alquanto a desiderare.
Fatta salva la scenografia e la potente suggestione visiva, "Il Teschio di Cristallo" presenta un'infinità di errori tecnici: elementi che all'interno della stessa scena compaiono e scompaiono a seconda delle inquadrature come ad esempio mitragliatrici, cappelli, macchine fotografiche; capelli che prima sono sciolti, poi sono legati e poi sono nuovamente sciolti, oppure che prima sono bagnati, poi asciutti e poi nuovamente bagnati; tazzine del caffé che passano misteriosamente da una mano all'altra; personale della troupe visibile in alcune occasioni; un'infinità di anacronismi.
Invece, non deve essere considerato un errore il vedere gli indigeni peruviani a Machu Pichu, che esercitano un'arte marziale. Infatti risulta che i guerrieri aztechi fossero maestri di un'arte marziale denominata "Rumi Maki".
Sono invece gradevoli e di buon livello le prove degli attori.
Su tutti svetta Harrison Ford che, a discapito dei suoi 66 anni, non solo ha ancora fascino da vendere, ma è stato capace di far rivivere il personaggio che lo ha reso famoso. Ed il merito va attribuito esclusivamente a Ford ed alle sceneggiature dei tre episodi della trilogia. Se ci si dovesse basare esclusivamente su come il personaggio è stato tratteggiato nello script de "Il Teschio di Cristallo" ne sarebbe uscito un Indiana Jones davvero invecchiato, piatto e monocorde.
Più insipide appaiono le interpretazioni di Shia LaBeouf e di Cate Blanchett, ma la cagione di questo fatto è da ricercarsi ancora una volta nella piattezza della caratterizzazione dei loro personaggi.
Ottimo il lavoro di Ray Winstone che ci offre il ritratto di una canaglia piacevolissima e simpatica.
Karen Allen e John Hurt sono forse un po' troppo accademici, ma comunque perfettamente credibili.
A conti fatti "Indiana Jones ed il Regno del Teschio di Cristallo" è un film che consente di trascorrere una serata spensierata all'insegna dell'avventura e, soprattutto, della spettacolarità visiva. Tuttavia, non regala quel coinvolgimento, quelle emozioni, quel divertimento e quel senso di completezza che i capitoli della trilogia offrono ancora oggi.
Quello che resta, alla fine, è un senso di amarezza nello scoprire che anche i nostri miti invecchiano e che il tempo corrode ogni cosa.
Forse alcuni avrebbero preferito ricordarsi l'immagine di Indy che si allontanava a cavallo verso il tramonto insieme con suo padre, con Marcus Brody e con Sallah.
Dopo la visione di questa pellicola, invece, continuano a echeggiare nella sala le parole di Irina Spalko:
"Dasvidania, dottor Jones!"
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 17/06/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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