Voto Visitatori: | 7,06 / 10 (17 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 7,50 / 10 | ||
Se per "noir" consideriamo qualcosa che travalica il confine di un genere letterario e cinematografico rappresenta prima di tutto uno stato d'animo, allora "In memoria di me", opera seconda di Saverio Costanzo, è indubbiamente un "noir". Sembra che l'autore voglia riflettere e al tempo stesso indagare nel significato recondito e universale delle cose, lasciando però che il mistero dell'esistenza e dello spirito diventino tangibili forme di interazione personale. Ogni spettatore, davanti a un film come questo, è libero di interrogarsi e di trarne le debite conseguenze. E' come un processo interiore che appartiene tanto alla scelta quanto al distacco formale, spesso superbo, sia del protagonista che dello stesso regista. "In memoria di me", pur ispirato a un romanzo autobiografico ("Il Gesuita perfetto" di Furio Monicelli) dà l'impressione di un'opera fortemente scevra da pregiudizi e retaggi anche letterari, indipendente e neutrale come certi film - inchiesta italiani degli anni Settanta ("Matti da legare" di Bellocchio sul tema della schizofrenia) e stranamente incoerente con la visione conservatrice della Chiesa di oggi, come se fosse ancora possibile (e plausibile) proporre un messaggio etico, religioso, scientifico, teologico sul tema della Fede. E non a caso il film sembra ribaltare lo schema laico del pretenzioso film di Bellocchio, "L'ora di religione", addottando la Ricerca dell'Uomo come formula equidistante e parallela all'ateismo e al "dogma" astratto della negazione dello spirito. Se "nessuno può conoscere il proprio peccato senza aver conosciuto Dio" è altrettanto semplice dedurre che nessuno può liberarsi dai dubbi impostando la propria "fede" attraverso l'etichetta di Credente (Devoto a Dio) o ateo (devoto all'Umanità?). Il film di Costanzo sembra collocarsi come viatico possibile tra l'abnegazione di Bellocchio (cfr. nel disconoscere la propria scelta, come i personaggi di Fausto o Zanna) e l'attrazione rigorosa e fideistica dell'inglese Joseph Losey.
"In memoria di me" è il ritratto di Andrea, giovane benestante e insoddisfatto delle sue conquiste terrene ("Per il mondo ero un vincente") che entra nella Confraternita dei Gesuiti nell'isola di San Giorgio a Venezia alla ricerca di una via di redenzione (o di fuga?) spirituale da una vita che non riconosce più come sua. Ma col trascorrere dei giorni, Andrea non sembra (pre)occuparsi di se stesso e della sua Nuova Vita ma vivere in simbiosi delle sue reazioni in relazione con gli altri confratelli: egli giudica, osserva, spia, provando un distacco sempre più forte per un mondo che lo aliena ancora più di prima, e che non riesce a vivere individualmente.
Sorprende la frase di un Padre che afferma "anche se soffrite imparate a dissimularlo" e la memoria cinematografica torna indietro negli anni, a Dreyer e soprattutto a quel Bresson che disegnò l'incredibile figura di un giovane sacerdote tanto capace di sostenere gli altri quanto inerme davanti alla propria sofferenza umana e spirituale (cfr. "Il diario di un curato di campagna", 1951).
Saverio Costanzo usa uno stile freddo, per certi versi davvero "amorale", ricordandoci a tutti sia il distacco ideologico della vicenda, sia quanto sia difficile discernere dalla difficoltà di una scelta che appare cameratista, disciplinare, rigorosa, in parte coercitiva. Notevole è la capacità di filtrare l'ambiente attraverso svariate possibilità di utilizzare la macchina da presa: spazi infiniti e vorticosi dell'austero convento si plasmano in un'ordine mai contemplativo, in un vortice di fluidità estetica, come i dipinti di Veronese nella basilica di San Giorgio o le pareti spoglie e bianchissime delle absidi, lunghi e pulitissimi corridoi dai cromatismi comuni e monolitici come il vestiario dei confratelli, che privilegiano il bianco (la vita terrena o la definitiva scelta religiosa?), il nero (la scissione), o il grigio (il dubbio amnetico dell'esistenza o delle scelte della vita?). I rituali del convento, scanditi da un rigore temporale quotidiano, sembrano per certi versi appartenere alla vita militare (la sveglia, il bagno, la vestizione, i pranzi in refettorio, l'"adunata") come del resto la processione finale ricorda un picchetto d'ordine negli eserciti... e il silenzio, non a caso, è spezzato ogni volta da elementi interni (un secchio caduto, l'atto del bussare nelle porte nel cuore della notte, una telefonata senza risposta) ed esterni (i fuochi d'artificio della Festa del Redentore, il passaggio delle navi nel bacino di San Marco): lo sguardo di Andrea si arresta davanti ai due poli dove la stessa vita esterna al convento sembra viversi parallelamente agli eventi che rispecchiano la vita all'interno dell'istituto. La stessa dimensione spirituale e l'etica del silenzio può vivere nella formazione musiva di un'aria barocca manovrata dalla dipendenza umana (retaggio materialista, in fondo) di un semplice tasto.
Nelle lunghe notti trascorse in stanze disadorne, il protagonista è testimone involontario del tormento spirituale che può avvenire per diverse ragioni, soffer-mandosi sull'abbandono dell'introverso Fausto o sull'apparente irrazionalità anticlericale di Zanna, al quale confida egli stesso i suoi dubbi. Egli stesso grida nel silenzio confermando quanto sia difficile per lui trovare una risposta quando aveva cercato tanto faticosamente una ragione alla sua scelta, ma proiettandola unicamente in direzione degli altri, dal quale viene ragionevolmente giudicato. Parla in un primo tempo di un'"Umanità che prefigge l'etica" e si sente doverosamente in grado, con superbia, di aderire al suo compìto solamente assecondando la Ragione Collettiva e Popolare.
Proprio la ricerca di dissenso del protagonista è la parte più debole e meno persuasiva del film, contemporaneamente a quel finale la cui enfasi universale (E' la Ricerca e il successivo Rifiuto la vera essenza di fede?) sembra conciliare con un messaggio incoerente e superficiale.
Se l'utilizzo di Costanzo dei simboli ha una derivazione ossessiva quasi "privata" (come il titolo del suo primo film, cfr. i disegni inquietanti di Zanna-Filippo Timi), se un bacio omosessuale non sfugge a una certa repressa morbosità, l'interrogativo "Che cos'è la vita?" diventa il Perno assoluto del film e delle intenzioni del regista. E' un dato di fatto che le domande più semplici difettino da secoli di risposte esaurienti.
Un film come "In memoria di me", anche per il complesso argomento trattato, risulta per certi versi incompiuto proprio nel seguire i dubbi laceranti dell'Uomo ("per essere tutto nella vita, ero arrivato a non essere nulla"), dell'esistenza di Dio ("se mi dicessero che non esiste, preferirei restare con lui che con tutte le altre verità del mondo") e della Rinuncia interiore ai beni della vita terrena ("Quanto abbiamo dedicato a noi stessi e a Dio.?"), e paradossalmente è pregno proprio del "materialismo tecnico" che incentiva la vicenda.
In questo contesto, è il nostro "bisogno di non vedere" a vivere, come un vero noir, nella ricettività incomprensibile (adesione o scissione) col resto del mondo.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 26/03/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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