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Voto Recensore: | 8,50 / 10 | ||
Le ragioni e le pretese del cinema sociale vengono spesso mistificate dall'enfatizzazione della tematica corrente, come se tutto ciò aderisse a una sorta di ricatto emotivo, costringendo in questo modo lo spettatore alla propria espiazione empatica: il regista sa in questo modo di poter rivendicare e solle-citare l'Idealismo confuso o represso della gente.
Quest'improvvisa urgenza di tematiche sociali segna in realtà proprio la sconfinata Indifferenza (o superficialità) del mondo di oggi, e in particolare nella no-stra penisola dove abbiamo assistito di recente alla Morte definitiva (ma non si sa mai) del cinema di denuncia sociale: collocato negli spazi angusti di un tele-romanzo ("L'ora di punta") o nel romanzesco "Diario di picciotto" ("Il Dolce e l'Amaro") il cinema Italiano sembra voler assolvere (anzichè condannare) i Mali correnti dei suoi personaggi.
Per altri versi, Micheal Moore è esemplare proprio nel tentativo strumentale di costringere gli spettatori a parteggiare per lui e per le sue invettive: lo dimostra lo stesso "Sicko", denuncia plebiscitaria ma ecumenica a favore (oh sì) dell'empatico rapporto con gli ammiratori dei suoi film.
Moore non ci chiede di sapere, ma sa di illuminarci e chiede di avere tutti dalla sua parte. In un certo senso è l'opposto dei notiziari, ma è un'opposto quantomeno irrilevante.
Noi non siamo Liberi, non viviamo in un mondo Libero, e non lo sappiamo.
Noi dipendiamo esclusivamente dalle bugie (di una parte) o dalla verità prefabbricata (di un'altra parte) che sancisce le nostre reazioni emotive.
Ad un primo impatto, il nuovo film di Loach sembrerà perfetto, inattaccabile sotto tutti i punti di vista, e probabilmente lo è. Eppure la storia di Angie non è estranea alla logica che vorrebbe "guidare" lo spettatore verso una realtà che ci tormenta, o il più delle volte può lasciarci moderatamente indifferenti.
Lo spettatore che entra nella sala per un film di Loach ne esce colmo di grati-tudine perchè qualcuno ha osato disinnescare le nostre difese individuali, ha esasperato quella linea della Ragione (e dell'Idealismo represso da pigrizia e influenze più o meno esterne) che non trova spesso elementi atti a promulgarla.
Il personaggio di Angie, pertanto, esalta le sue anomalie, sfumando via via in una vittima sociale, una benefattrice, una donna con problematiche familiari ed economiche ben precise (quasi una prosecuzione della Mater Natura di "Labybird, ladybird", uno dei film più riusciti di Loach, ma a distanza di oltre vent'anni), una cinica costruttrice di Sogni e Speranze, una spietata carnefice sulla via della Redenzione (o Assoluzione) sociale.
A mano a mano che il regista esalta o condanna la sua eroina, o meglio la società che incide sulle sue scelte ("Il film giudica il sistema in cui la sua impresa può prosperare") lo spettatore rischia di trovarsi coinvolto e confuso dall'ambiguità di Angie.
Nei primi fotogrammi Angie sembra rappresentare un prototipo di Integrazione e Rivalsa Femminile, decontestualizzati dall'esclusività dei Ruoli Maschili (non è un mistero che perda il posto nell'ufficio di collocamento per aver rifiutato di cedere a certi "meschini compromessi"), e al tempo stesso esalta la propria tenacia che la porta ben presto a succedere a quel mondo maschile diventando l'unico referente umano: nell'atto di assumersi direttamente delle responsa- bilità, come quando viene brutalmente picchiata con la stessa violenza che indicativamente può subire un uomo dai suoi nemici.
E' solo quando teme per la vita del figlio, in un falso rapimento che non si sa quanto sia più risibile o compiaciuto, che la donna ritrova il proprio ruolo, di donna, di madre, la propria genuina individualità.
"In Questo Mondo Libero" resta indubbiamente uno dei più bei film di Loach da almeno un paio di lustri, ma è un'Incognita.
La stessa Angie assurta a icona di un Nuovomondo di disoccupazione e precariato, sensuale e affascinante nel suo anticonformismo, in sella a una motocicletta, sembra volersi accattivare le simpatie degli spettatori come in realtà non ha mai fatto, per altri versi, la Rosetta dei fratelli Dardenne (altro emblema, forse il migliore, delle sconfinate possibilità di denuncia sociale nel cinema europeo).
Loach ne coglie ogni possibile aspetto: il disordine sessuale ed affettivo, il difficile rapporto con le vecchie generazioni (cfr. i conflitti perenni col padre) e l'impossibilità temporale e psicologica di poter gestire alla perfezione il comunque difficile ruolo di madre.
Lo stesso personaggio antitetico di Rose, l'amica e coinquilina, a Loach inte-ressa esclusivamente come Giudice Morale delle scelte della stessa Angie, come quando provoca lo sfratto di una famiglia che vive in una dimora abusiva, allo scopo di ospitare altre famiglie... In un certo senso Rose detonizza e incentiva la reazione degli spettatori.
Inizialmente Loach sembra voler frettolosamente archiviare ogni tipo di sfumatura successiva, assoggettando lo script alla sua dimensione sintetica e com-plementare: nello spazio di pochi minuti egli suggerisce tutto ciò che, gradualmente e successivamente, rivela.
Tutti noi possiamo uscire da questo film con la consapevolezza, del resto condivisibile, che nella società di oggi il coraggio si paghi a caro prezzo, che l'Idealismo procede attraverso strade e scorciatoie a volte esecrabili, che Angie sia soprattutto Vittima del Sistema.
Ma la visione del regista, più affine a Orwell che a Lenin, aderisce alla consapevolezza che ognuno di noi è sterilmente decontestualizzato dal proprio ruolo, che tutto ciò che pensiamo possa appartenerci o di cui siamo privi sia parte attiva di un disegno astratto.
In definitiva, il film non ci rende liberi ma coercitivizzati dall'invettiva di un (ottimo) cineasta ogni volta che reclama la sua invettiva a un mondo a cui chiede di essere assecondato.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 25/10/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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