Recensione io e te regia di Bernardo Bertolucci Italia 2012
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Recensione io e te (2012)

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locandina del film IO E TE

Immagine tratta dal film IO E TE

Immagine tratta dal film IO E TE

Immagine tratta dal film IO E TE

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Immagine tratta dal film IO E TE
 

"Il mondo fuori di casa è solo competizione, sopraffazione e violenza"
N. Ammaniti, "Io e te"

"Io e te", nuovo film di uno dei maestri del nostro cinema, è uscito nell'ottobre del 2012, è stato accolto un po' in sordina da parte dal pubblico. E' un peccato, perché l'ultimo lavoro di Bernardo Bertolucci, che torna a nove anni di distanza da "The Dreamers", è uno splendido film, capace di coinvolgere e commuovere con una disarmante adesione ai sentimenti di generazioni così lontane da quella dell'autore.
E' la storia del fugace incontro di pochi giorni fra due fratelli (fratellastri), che quasi non si sono mai conosciuti: Lorenzo, quattordici anni, e Olivia, poco più che ventenne. E' l'incontro di due solitudini, che da un'iniziale diffidenza e apparente incompatibilità, diviene graduale complicità. I due sono accomunati, in modi diversi, da una forma di "disadattamento" rispetto al mondo: ne scaturisce quasi un'affinità elettiva, foriera quindi forse di crescita per entrambi.
Bertolucci, settantenne con un fanciullino in cuore, attraverso la semplicità e l'essenzialità dello stile - cinematografico e d'alta classe, intimamente distante dalla medietà televisiva - fa filtrare, amplificata, la genuina sincerità dei suoi personaggi. L'autenticità è il valore che evidentemente gli sta a cuore, e che arriva diretto allo spettatore. La scelta di mettere al centro del racconto il valore dell'autenticità è in sintonia con una poetica che insiste da tempo sulla ferma consapevolezza che il percorso di ricerca dell'autenticità sia cifra e misura dell'esistenza umana. La poetica di Bertolucci-regista si è fatta (almeno a partire da "Piccolo Buddha") candida e pacificata, come serenamente placida appare, da tempo, la stessa immagine pubblica di Bertolucci-uomo.

Lo scarto del film rispetto al racconto

Il valore di "Io e te" appare superiore a quello del racconto omonimo, da cui il film è tratto, di Niccolò Ammaniti, anche co-sceneggiatore del film (insieme a Umberto Contarello e Francesca Marciano). Un narratore di grande successo popolare ma, a parere di chi scrive, di non altrettanto indiscutibile importanza letteraria (per via soprattutto di una prosa scarna, che predilige la fabula a scapito dello stile, ripiegato su un convenzionale minimalismo paratattico). Lo scarto rispetto al racconto sta, anzitutto, nella capacità dello stile di Bertolucci di combaciare armoniosamente con il crescendo di intensità emotiva prescelto. Se la vicenda narrata è apparentemente la stessa, vi sono però pure tre rilevanti differenze, che fanno sì che la vicenda non sia essenzialmente la stessa. La prima sta nelle premesse; la seconda in una diversa scelta di focalizzazione; la terza - e più importante - sta nel finale (che non riveleremo).

Le premesse cambiano in ciò: Lorenzo, nel film, sceglie deliberatamente di non andare in gita scolastica in settimana bianca (una scelta molto connotata in termini di problemi di socializzazione), mentre nel racconto non c'è alcuna gita scolastica, ma un equivoco con la madre riguardo a un invito in montagna. La diversa scelta di sceneggiatura segnala la volontà di rimarcare l'alterità del ragazzo rispetto ai coetanei - un'alterità che lo rende più singolare e "anormale" nella sua determinazione a distaccarsi dalla massa. Una determinazione che lo fa apparire "problematico", ma al contempo più caparbio e risoluto rispetto al personaggio del racconto. Bertolucci attenua costantemente, fino ad annullarla, la preoccupazione che il ragazzo sia affetto da un disturbo della personalità: all'evidente simpatia del regista nei confronti del proprio personaggio, si aggiunge l'ottima interpretazione di Jacopo Olmo Antinori, che riesce a restituire un Lorenzo sicuro del fatto suo e ben più maturo dei suoi quattordici anni.
La diversa scelta di focalizzazione sta nel fatto che, in Ammaniti, Lorenzo parla in prima persona, mentre nel film si opta per una focalizzazione più "a media distanza" fra i due personaggi, e per una prossimità ad Olivia maggiore rispetto al racconto. D'altro canto, per quanto pure il racconto sia emotivamente intenso, la scelta di Ammaniti di adottare un registro mimetico rispetto al suo personaggio, quattordicenne, stempera in parte l'adesione del lettore, che non è mai indotto a fare veramente propria l'alterità di Lorenzo rispetto ai coetanei. Nel film, la caratterizzazione di Olivia - molto più ricca e complessa rispetto alla pagina scritta - è straordinariamente resa, nelle sue ampie e drammatiche sfumature, dalla superba interpretazione di Tea Falco. E' lei il personaggio realmente problematico, fra i due: e Bertolucci la osserva con uno sguardo colmo di pietas, con una compassione che arriva a struggere, e che pure non è immedesimazione (quando si contorce nella crisi d'astinenza, è lei che soffre: non siamo mai noi, che possiamo solo guardarla, a soffrire con lei). Desidereremmo volerle bene come a una sorella.
La conclusione del film - diametralmente opposta a quella del racconto - conferisce infine alla pellicola una decisa positività, che è proporzionale all'apertura del finale. Dopo un significativo dolly, apertura aerea in un film sino allora schiacciato entro i confini di una cantina, il fermo immagine conclusivo racchiude una tensione emotiva potenziale, pronta a rivelarsi al mondo. Diversamente, il finale del racconto stendeva sulle vicende narrate un velo di ineluttabilità raggelante.

Quattro mura per sfuggire al mondo

Come nell'appartamento di "Ultimo tango a Parigi" (1972) e in quello di "The dreamers" (2003), ancora una volta i protagonisti di un film di Bertolucci sono individui che preferiscono tenersi in disparte dal mondo.
Bertolucci ha convertito da tempo in un anelito di speranza l'angoscia esistenzialista che contraddistingueva non soltanto "Ultimo tango". Non è mutato però un comune denominatore: l'insofferenza verso il mondo, le sue logiche che ingabbiano, le sue falsità e ipocrisie. Anche in "Io e te", si respira da subito un senso di rifiuto e non appartenenza.
La fuga dal mondo appare l'unica scelta immediata: l'individuo da solo non può confrontarsi ad armi pari con la società. E soltanto gli spazi chiusi, appartati, isolati, sono un rifugio in cui è possibile coltivare la propria interiorità (com'è per Lorenzo), o interrogare le proprie angosce, il proprio senso di vuoto (come fra le pareti spoglie di "Ultimo tango"). In ogni caso - siano poi gli esiti positivi o negativi - alla fuga corrisponde sempre una ricerca di autenticità, laddove il mondo appare inautentico.

L'alterità, il disinteresse degli adolescenti rispetto alla vita adulta sono descritti da Bertolucci con sorprendente adesione alla sensazione - così pungente in quell'età - di essere irrimediabilmente più grandi della vita. A questa si accompagna la sensazione, parallela, che la vita futura sia irrimediabilmente più grigia e avvilente. Ciò è colto da Bertolucci come un segnale di pienezza interiore, ed esposto come una risorsa preziosa: un fiore, che però è pronto ad essere calpestato dallo stesso io, man mano che si diviene adulti. La crescita è un percorso, in buona misura, in cui - per acquisire un'identità in linea con il mondo - si smarrisce l'autenticità della propria singolarità. Ciò che Bertolucci suggerisce è che il divario tra sé e il mondo possa essere affrontato con la ferma sicurezza di sé che un personaggio come il suo Lorenzo sembra possedere.
La diversità di contesto sociale incide però nettamente sulle speranze di riuscita da parte di entrambi: di Olivia, oltre che di Lorenzo (la vita di Lorenzo è immensamente più "protetta" e facile rispetto a quella toccata in sorte ad Olivia). Tuttavia ciò che sta a cuore a Bertolucci, e che costituisce la forza del film, è dare fiducia alla potenza dell'affetto. Una forza, quella dell'affetto, che nessuna utopia sociale ha mai posseduto. Bertolucci sceglie di scommettere sulla possibilità (annullata da Ammanniti nel suo racconto) che la danza in cui i due fratellastri si abbracciano, nella scena culmine del film, sulle note di "Ragazzo solo, ragazza sola" (traduzione di Mogol di "Space Oddity" di Bowie), non resti effimera. Che una parte della forza posseduta "in potenza" da Lorenzo possa trasferirsi ad Olivia, riscattandola dal suo destino grazie all'incontro con un'anima che è simile a lei, nel rifiuto di quanto il mondo offre di preconfezionato.
D'altra parte, anche l'incontro con Olivia potrebbe essere servito, a Lorenzo, come "allerta" di dove un cammino di distacco solipsistico potrebbe condurre, se percorso sino alle estreme conseguenze.

Bertolucci completa con "Io e te" una ideale trilogia sulla giovinezza, i cui primi capitoli sono lo splendido "Io ballo da sola" del 1996 e "The dreamers" del 2003. E' possibile immaginare un sotterraneo rapporto fra questa trilogia, non dichiarata, e quella, espressa, che è la "trilogia della vita" di Pasolini ("Il Decameron", 1971; "I racconti di Canterbury", 1972; "Il fiore delle mille e una notte", 1974).

Vitalismo vs decadentismo

Bertolucci, figlio d'arte, è stato allievo di Pasolini, che era amico del padre, il poeta Attilio Berolucci.
Bernardo Bertolucci ha esordito giovanissimo alla regia, nel 1962, con "La commare secca", scritto proprio insieme a Pasolini. Pasolini porta su di sé le stimmate del complesso culturale di essere intellettuale borghese di sinistra (marxista non si dice più, ma quello era, anche Bertolucci, a suo tempo): conflitto interiore, rovello esistenziale prima che dilemma ideologico, condiviso anche da generazioni a venire. Non esiste via di fuga a tale rovello: il problema è aver riconosciuto l'anemia esistenziale della propria condizione sociale, l'insincerità, l'ipocrisia che scava dentro come verme in una mela.
L'arte consente una liberazione grazie al volo dell'immaginazione, che nella rappresentazione del reale fa intravvedere il vero volto delle cose attraverso la finzione. E' solo parzialmente una via di fuga: resta il rovello, chiodo conficcato nel profondo come un peccato originale. Pasolini nei suoi ultimi anni covò non semplicemente un'idea ma un sentimento di rabbiosa afflizione, verso l'emancipazione generazionale e sessuale sessantottina, che leggeva non come autentica ribellione, ma come autoassoluzione da parte della medesima classe sociale (giudizio forse troppo severo, ma fondato su un'intuizione profetica). Pasolini abiurò quindi la "trilogia della vita", rinnegando di aver sognato una purezza altrove, in contesti sociali distanti dall'Occidente. La sua "trilogia" tuttavia rimane: e ad essa artisticamente corrisponde, per certi versi, il dipinto che Bertolucci, negli ultimi decenni, ha preso a fare di un certo tipo di sensibilità giovanile. Anch'esso, appare una fuga verso territori incontaminati.

L'arte consente due vie: o si affronta di petto la società in cui si vive, e ne si svelano vizi e paradossi (e siamo al decadentismo); oppure si fugge via, in uno slancio vitalistico di stampo romantico. Nel suo insieme, il cinema di Bertolucci s'iscrive in questa dualità, così come tutto il cinema italiano "d'autore" (Colpisce la numerosità delle pellicole del cinema italiano non legate all'attualità, se non esplicitamente allegoriche. Come se vi fosse un'esigenza di evasione, un desiderio di fuga - da Fellini a Olmi, da Leone a Ferreri - che per esempio è totalmente estraneo ai nostri cugini francesi, il cui cinema invece è collegato al presente, a temi sociali e al milieu borghese, in modo quasi ossessivo). Il cinema di Bertolucci si è avviato nel segno dell'opposizione alla società borghese, sulla scorta di Moravia (del 1969 è la sua trasposizione del romanzo "Il conformista"). A partire dagli anni '80, è cambiato qualcosa. Ha prima realizzato "L'ultimo imperatore" (1987), attirato dalle megaproduzioni internazionali; quindi ha adattato un romanzo di Paul Bowles ("Il tè nel deserto", 1990) che ambienta in luoghi esotici la crisi di una coppia borghese, e si conclude sin troppo programmaticamente con una morte, e una fuga in una civiltà altra. Ha poi realizzato "Piccolo Buddha" (1993), che sin dalle scelte cromatiche postula la contrapposizione tra un occidente spiritualmente moribondo e un oriente caldo, ricco, vitale. Man mano che invecchiava, Bertolucci si allontanava dalla società in cui siamo immersi, accortosi forse del rischio di sterilizzare la propria poetica, a furia di parlare di una società sterile.

Il valore di "Io ballo da sola" (primo film dell'ideale trilogia sulla giovinezza di cui stiamo parlando) sta nell'acuta, sorprendente capacità di percepire e restituire con sensibilità e freschezza la complessità dell'animo adolescente. Che in "Io ballo da sola" veniva messo a confronto con un universo umano diversificato, in cui predominavano adulti "di ampie vedute", verosimilmente ex-sessantottini che Bertolucci descrive nelle loro frustrazioni e nei loro limiti. Il fallimento di una generazione: tracollo di un sogno, di cui rimangono solamente statue mute e prive di sguardo, a fissarci immobili ed enigmatiche. A esse, Bertolucci contrapponeva la sua Lucy, che era libera, non ancora catturata dalle logiche della società, e che, soprattutto, conservava una sua purezza (di cui la verginità era indizio sin troppo trasparente). L'autenticità di chi non si è accora racchiuso dietro una maschera. Lucy ricercava la verità riguardo alla propria identità, anche attraverso la ricerca di un padre, assumendosi i tormenti e le ansie di tale ricerca.

Il mondo salvato dai ragazzini?

Il Lorenzo di "Io e te", così come la Lucy di "Io ballo da sola", sono il ritratto di ciò che gli adulti non riescono più a essere. La poetica di Bertolucci ha smesso di avere un risvolto sociologico, ma ne ha assunto uno di più ampia matrice umanista. Si è avviato da alcuni decenni un percorso di svuotamento degli ideali sociali, di fronte al quale quasi ogni tentativo, anche artistico, di tenace contrapposizione, sembra sfiancato e vanificato. Bertolucci, dal canto suo, sembra aver individuato, nelle brevi e fragilissime stagioni dell'adolescenza e della prima giovinezza, l'unica vera alterità salvifica - pur se estremamente precaria e destinata a capitolare, forse crudamente (in fondo, Olivia conserva pur sempre con sé una pericolosa dose di eroina...). Di essa, sembra dirci, è bello essere innamorati, com'è bello amare ciò che è puro. E riempie di senso la vecchiaia di un poeta.

Bertolucci descrive dunque l'alterità di un certo spirito giovanile come modello alternativo alla bruttura di un mondo adulto che prosegue un percorso di alienazione e avvilimento... fuori campo. "Il mondo salvato dai ragazzini", intitolò Elsa Morante, nel 1968, una sua raccolta di poesie, in cui interpretava il '68 in chiave più positiva rispetto a Pasolini. Elsa Morante, moglie di Moravia; Moravia, grande amico di Pasolini; Bertolucci, allievo di Pasolini: tutti fra i principali protagonisti di una comune tradizione culturale. E' bello sentirla, in qualche modo, ancora viva.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 12/11/2012 15.24.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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