Profezia
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame.
Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio
....
Essi sempre umili
Essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo.
P.P. Pasolini, da "Alì dagli occhi azzurri"
Circa quaranta anni fa Pier Paolo Pasolini profetizzava che molto presto ondate di profughi africani, sulle ali di un sogno di libertà e di riscatto, avrebbero intrapreso un lungo viaggio e sarebbero arrivati qui da noi nella speranza di raggiungere l'Europa: la loro "terra promessa".
La profezia si è avverata, è sotto gli occhi di tutti. Sono i figli di quell'Alì dagli occhi azzurri, sono i figli dei poveri del nostro tempo e vengono dalle guerre che non finiscono mai.
A loro, ai loro indicibili viaggi, al loro arrivo nel nostro paese, alle loro difficili condizioni in cui sono costretti a vivere, è dedicato il film-documentario "Io sono - Storie di schiavitù", che la regista Barbara Cupisti ha presentato all'ultimo festival di Venezia nella sezione Controcampo Italiano.
Si tratta di un'ora di storie di uomini e donne giunti in Italia spinti dalla fame, dalle torture e dalle guerre con la speranza di migliorare il loro futuro. Sono uomini e donne vittime del più grosso crimine, ma anche del più redditizio, della criminalità organizzata: il traffico di esseri umani.
Sono storie di uomini e donne "invisibili", senza nome e senza identità, storie di schiavitù contemporanea, perché di schiavitù si tratta. Perché uno schiavo non è, almeno in quanto persona, uno di noi, non è la nostra razza, non è la nostra cultura, non è la nostra religione, non è la nostra lingua. Non pensa come noi e spesso non ha neppure lo stesso colore della nostra pelle. E' soltanto un immigrato, un essere umano alla deriva a cui la vita, il bisogno, le persecuzioni, le guerre, la fame, hanno negato tutto, persino il diritto di essere uomo, e verso il quale solitamente, quando va bene, abbiamo un atteggiamento di compassione generica, ma mai di rispetto o di comprensione.
Molto più spesso invece, vediamo emergere in noi sentimenti di preoccupazione e di paura, in quanto possibile minaccia alla nostra cultura e alla nostra identità, ma anche ai posti di lavoro, alla sicurezza e all'ordine costituito.
Si tratta quindi di un fenomeno sociale molto diffuso e molto spesso ignorato o tenuto nascosto.
Barbara Cupisti, attrice e documentarista viareggina, ispirata dagli scioccanti versi della poesia di Pasolini, dopo aver girato "Vietato Sognare" (il documentario incentrato sulla vita e sulle emozioni dei bambini israeliani e palestinesi, rappresentando una sorta di seguito rispetto alla sua opera precedente "Madri", che invece faceva luce sulle attese, le speranze e i dolori delle donne di Israele e Palestina), torna dietro la macchina da presa per raccontarci nuovi capitoli di storia di umana sofferenza: quella di tanta gente giunta in Italia - per lo più clandestinamente - sull'onda di un sogno di una vita migliore e finita nell'inferno dei centri di accoglienza o a prostituirsi sulle strade, per restituire l'esorbitante debito contratto con le organizzazioni criminali che governano questi traffici.
La regista raccoglie testimonianze, visita luoghi e città, da Crotone a Napoli, a Roma, per raccontarci di barconi che affondano e di sopravvissuti che arrivano in Italia con negli occhi ancora le immagini della tragedia, ad acuire i problemi di un paese già in crisi. Ascoltiamo così le testimonianze di donne e uomini impauriti e privati della libertà, che difendono una dignità mai persa fino in fondo, come difendono il loro diritto a vivere una vita più giusta di quella che hanno vissuto fino ad ora.
Uomini e donne di etnie diverse che, per uno strano disegno del destino, sono costrette a condividere una realtà fatta di emarginazione, razzismo, disagio sociale e sfruttamento, quasi non avessero dignità umana. Uomini e donne di culture diverse che per uno strano disegno del destino sono costretti ad esprimersi, per capirsi, in un linguaggio che non è il loro e che conoscono malamente.
"Io sono" ci restituisce così storie di speranze e delusioni, di sogni e frustrazioni, raccontate con grande emotività e grande pudore, ma anche con grande indignazione.
Impariamo così a conoscere Mohammed, scappato dalla povertà a 14 anni e ora in Italia dove studia e lavora per restituire alla sua famiglia i soldi necessari per il suo viaggio.
E Salomon, bambino soldato fuggito dalla guerra in Somalia, ed Elizabeth che appena arrivata è stata costretta a scendere in strada a prostituirsi e che ora tenta di ricostruirsi una vita dopo aver denunciato i propri sfruttatori. E poi Dadir e Kabir e Jennifer e Julia e tanti altri. Tutti con storie tragiche alle spalle. Come le ragazze nigeriane, tutte giovanissime, spesso minorenni, richiamate in Italia con il miraggio di un lavoro regolare e invece, appena giunte, mandate a battere i marciapiedi in attesa di vendere il proprio corpo a clienti interessati unicamente al loro soddisfacimento sessuale; o come i trans brasiliani che raccontano le loro peregrinazioni in attesa di racimolare i soldi per sottoporsi all'operazione, o come gli afghani che dopo aver vagato dalla Turchia alla Grecia si ritrovano costretti a vivere di espedienti e a dormire nel sudiciume di una nave abbandonata nel porto di Crotone.
Tutte vicende drammatiche da dimenticare.
Ma come? Quando si è costretti a dormire per terra negli atri delle stazioni o in una sorta di comune ricreata sotto una tenda. Come si può dimenticare un viaggio allucinante, in cui si è rimasti chiusi per tre giorni nella cella frigorifere di un camion, o ammassati in 40 - 50 su di un barcone che al massimo ne può contenere meno della metà.
Come può definirsi accoglienza quella di uno Stato che ha prolungato fino a diciotto mesi la "reclusione" nelle baraccopoli di quelli che eufemisticamente vengono chiamati "Centri di prima accoglienza" e che in realtà sono centri di identificazione e di espulsione.
Come può definirsi democratico uno Stato che costringe a rinnovare il permesso di soggiorno nella stessa città che l'ha rilasciato anche se hai trovato lavoro a mille chilometri di distanza, e la procedura può durare mesi e non concludersi mai.
Come può definirsi moderno uno Stato che finge di ignorare la realtà di una nave fatiscente ancorata in un porto e diventata rifugio di disperati, che fanno a turno per dormire, nel sudiciume e nell'immondizia, sullo stesso lurido materasso.
"Siamo di fronte ad un nuovo olocausto", come afferma il regista Emanuele Crialese, che a Venezia aveva fatto conoscere il dramma dell'immigrazione con il suo "Terraferma", "chiamiamo clandestinità una fuga e fuorilegge i migranti reclusi nei centri di accoglienza come criminali, quando non ci spingiamo a far morire in mezzo al mare la gente che respingiamo".
Noi che fino a non molti anni addietro, con le valige di cartone e le toppe nei pantaloni, lasciavamo la Sicilia e la Puglia, il Veneto e la Calabria per raggiungere l'America e l'Australia, nella speranza di un mondo migliore.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 22/02/2012 17.32.00
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