Recensione king of new york regia di Abel Ferrara USA, Italia 1990
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Recensione king of new york (1990)

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locandina del film KING OF NEW YORK

Immagine tratta dal film KING OF NEW YORK

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Uscito dal carcere dopo un lungo periodo detentivo, il gangster Frank White scatena la sua banda di neri per la conquista del mercato della droga a New York. Colombiani, italiani, cinesi: tutti gli ostacoli sono rimossi per porre la città sotto il controllo del nuovo "King".
Ma l'ispettore Bishop e i propri agenti non danno tregua a White. Per nulla frenati dalle sue opere di beneficenza pubblica (l'aiuto cospicuo a un ospedale per bambini disabili e non abbienti), i poliziotti lo affrontano ricorrendo agli stessi metodi della malavita. E dopo varie carneficine, saranno proprio i due capi ad affrontarsi in uno scontro a fuoco sulla metropolitana, che porterà Bishop alla morte e White a un'agonia letale in un taxi bloccato nel traffico e circondato dai poliziotti.

È molto probabile che questo sia il miglior film di Abel Ferrara, e che lo sia non solo per il cast strepitoso e per l'improvviso quanto incredibile salto di qualità formale rispetto all'insignificante opera dell'anno precedente, ma anche e soprattutto per la drasticità con cui il mondo viene tratteggiato come campo esclusivo d'un'ultraviolenza mentre il Bene è ormai terminato fuorigioco. Christopher Walken, il cui teschio d'un pallore cadaverico riempie sovente lo schermo, costruisce il personaggio ambiguo e notturno d'un gangster che abbraccia con lo sguardo l'immensità d'una New York sfavillante nelle sue luci, e che sogna da moderno Robin Hood di realizzare qualcosa di buono, un ospedale in un quartiere nero, finanziandolo con i soldi dello spaccio di droga. Ma i poliziotti che tentano d'incastrarlo, dinanzi allo schermo televisivo che consacra pubblicamente Frank White come una star, delusi nei loro ideali, non possono constatare se non che il sistema è dalla sua parte.

Stanchi delle formalità legali che vanificano i loro intenti, i poliziotti sfuggono al controllo del loro superiore Bishop, convinto al contrario della necessità di fermare secondo le leggi l'utopia criminale del Re di New York, e assaltano in puro stile gangsteristico il covo della banda di White dando origine a una sanguinosa sparatoria a ritmo di hip-house (il rap d'avanguardia di quegli anni).
Lo zenit dello scontro è raggiunto nell'inseguimento sotto la pioggia fra il poliziotto nero che ha la peggio e il braccio destro di White, un "impiegato del crimine", finché pure quest'ultimo viene freddato con un rapidissimo quanto brutale colpo alla testa dal "gemello" del poliziotto ucciso.
Quindi c'è il finale che Ferrara coraggiosamente costruisce a rovescio. Walken, vinto l'ultimo duello in metropolitana con l'ispettore buono e dolorante, vaga senza meta per le strade della città ferito al ventre. Cosa che scopriamo solo quando si lascia cadere dentro un taxi ingorgato lungo una strada del centro. Tutta la strada è bloccata, tutte le macchine sono ferme. Solo uno sciame di poliziotti s'aggira goffo tra le auto per catturare il Re di New York. E Walken morente risponde con l'immobilità, il silenzio, la fissità dello sguardo.

"The king" riflette nello spettatore, collassandola, qualsiasi possibilità di giudizio, sprofondandoci in una terra di confine dove idiosincraticamente tutti possono essere salvati oppure condannati, bianchi ("White", per l'appunto) oppure neri. Forse ha ragione il seducente Frank White, ponendo se stesso come fondamento del bene e dunque come legislatore assoluto sterminando solo quelli che se lo meritavano e decidendo di cortocircuitare l'illegale traffico della droga per uno scopo positivo; oppure sono nel giusto i poliziotti che impotenti di fronte allo strapotere del male decidono di superare la borderline del lecito in un viaggio senza più ritorno che li fa identificare e confondere con i malviventi stessi; oppure il vero eroe del film è Bishop ("Vescovo"), per il quale il fine non giustifica i mezzi e preferisce salvare la vita della donna nella metropolitana, a costo della propria e della cattura del criminale.

In realtà hanno ragione tutti e nessuno, poiché ogni personaggio è spinto dal desiderio di realizzare il proprio valore eudaimonistico, la propria fama di benessere, tutti lottano per un mondo migliore, ma quando si tratta di delinearlo operativamente, ciascuno sa proporre soltanto la propria soggettiva e privatistica idea, religiosa o filosofica. Ed è la prassi stessa a confutare l'intero ventaglio delle proposte. L'utopia criminale di White e quella legalista di Bishop vengono infrante da un universo maligno che si oppone al cambiamento e si riafferma ineluttabilmente identico a se stesso. Ogni protagonista si dimostra incapace di proporre una soluzione efficace e fallisce sino al proprio olocausto. Abel Ferrara ci si congeda con questa nichilistica paralisi pragmatica incarnata nel volto di Frank White, Re di New York decaduto da sempre, immobilizzato in mezzo al traffico e per di più braccato, lacerato, emorragico, esangue, moribondo.

Mauro Lanari

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Recensione a cura di Hal Dullea - aggiornata al 19/08/2008

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