Recensione la citta' di dio regia di Katia Lund, Fernando Meirelles Brasile 2002
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Recensione la citta' di dio (2002)

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locandina del film LA CITTA' DI DIO

Immagine tratta dal film LA CITTA' DI DIO

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Immagine tratta dal film LA CITTA' DI DIO

Immagine tratta dal film LA CITTA' DI DIO
 

"City of God" è tratto da un libro di successo (basato su storie vere), scritto da Paulo Lins ed ispirato alla figura Wilson Rodriguez, fotoreporter, nato e cresciuto in una favela denominata "la Città di Dio", sorta alla periferia di Rio de Janeiro.
Buscapè (alias il fotoreporter Wilson Rodriguez) racconta a ritroso la sua storia, che gravita attorno a quella di parenti e amici, dagli anni '60 agli anni '80, tra amori e speranze di cambiamento, spaccio di droga e lotte di quartiere che volgono in vere e proprie guerre civili.
Film duro da digerire, girato con molta, forse troppa enfasi, centra però l'obbiettivo di mostrare una realtà disarmante: il mancato controllo di una ingiustizia sociale che porta alla delinquenza, al delitto, alla vendetta e quindi ad un altro delitto.
E' la classica circolarità descritta da Girard: il sangue che chiama sangue, finendo una spirale di violenza senza fine.

L'idea della vendetta trasuda mansueta per tutto il film avendo poi, nella parte centrale, un ruolo da protagonista.
La povertà e la miseria in una favela di Rio de Janeiro sono lasciate sullo sfondo. Non c'è in primo piano il dramma di povere persone condannate alla povertà, condannate in un ghetto con poche speranze d'uscita. Il regista incentra e si concentra solo sulla violenza scaturita da queste cause, che nella realtà filmica restano però solo concause lasciate intravedere.
Il piglio dello stile veloce, che richiama direttamente a Tarantino, ha il pregio però di conferire al film un ritmo frenetico che non lascia tempo alla noia.
Il difetto (sempre che lo si consideri tale) sta sostanzialmente nel fatto che Meirelles guarda con troppa ostinata insistenza alla ricerca continua dell'inquadratura ad effetto.
Una violenza necessaria, mostrata con divertita esaltazione registica che comunque colpisce e affonda i suoi colpi proprio perché storia vera (anche se romanzata) o molto più semplicemente storia quotidiana per qui luoghi.

Grande comunque il lavoro di Meirelles che alterna benissimo la camera in spalla con le più raffinate tecniche di ripresa moderne conferendo alle immagini un gran ritmo coadiuvato anche da un'ottima colonna sonora che, per fortuna, non scade mai nel folcloristico (magistrale la sequenza di apertura con l'inseguimento della gallina per le strade della favela).
La sceneggiatura è davvero ben scritta. La miriade di personaggi che vengono descritti, non risultano certo da cartolina cinematografica, ma sono comunque efficaci allo svolgimento.
D'altronde nessuno di questi personaggi viene ampiamente sviluppato dato che il film si limita ad incrociare le loro storie per comporre un puzzle narrativo di più ampio respiro. Il suo continuo zigzagare tra le diverse storie, che spesso si interrompono per far posto ad altre, che non si svolgono necessariamente nel medesimo periodo temporale, per poi concludersi successivamente, crea un aggrovigliato intreccio di sottotrame che contribuiscono alla bellezza dell'affresco narrativo senza però turbarne la forza, conferendogli invece una circolarità narrativa da togliere il fiato.

Facili paragoni possono essere fatto col primo Scorsese o col più recente "Gangs of NY" e riferimenti a quelli che sono i grandi gangster movie del cinema si trovano nello slang dei "mestieri" per entrare nelle gang, e in alcuni tratti del rapporto tra Ze' Pequeno e Benè che ricorda un po' l'amicizia tra Tony Montana e Manny in "Scarface" di B. De Palma, ma al contrario dei registi americani, qui Meirelles non costruisce una ideologia del malavitoso, non c'è la "poesia" scorsesiana, ne' una visione crepuscolare del tema.
I delinquenti sono descritti in modo secco, asciutto, accostati a cani rabbiosi che spolpano un osso (attrazione questa, nel senso caro ad Ejzenstejn, presente nel film), e non vi può perciò essere un'apologia del crimine o una visione romantica dello stesso. Qui ci sono solo bande di bestie armate che si confrontano in un cerchio di sangue senza (?) fine.

Ogni via di fuga è preclusa e, come ha scritto Luca D'Antiga, la triste realtà di una "inesistenza pietistica di questa fauna che muore cronologicamente a meno di vent'anni" è mostrata con efferato realismo.
I loro corpi nudi sono circondati spesso da una luce fredda, notturna; sono corpi segnati che attendono (giovane) sepoltura dilaniandosi in guerre di territorio.
Il pregio maggiore del film risiede in un coinvolgimento psichico/emotivo, che riesce a trasportarci in una vicenda amara, in una guerriglia urbana e a toccare corde profonde del nostro animo: sono sicuramente d'effetto le scene in cui bambini di cinque anni maneggiano armi e parlano di omicidi e rapine, eppure dopo un po' questo ci appare quasi normale. Il regista vince la sua sfida e per un momento la sua realtà diventa la nostra, e la violenza barbara ci si presenta come probabilmente appare agli abitanti delle favelas: una cosa di tutti i giorni.

Un pensiero allora dovrebbe correre al fatto che a quasi trenta anni dai fatti raccontati, la realtà delle favelas sia rimasta inalterata (se non peggiorata a causa del sovraffollamento).
Un gran bel film, a tratti incredibile per la sua sincerità, in altri un po' fazioso per quella ricerca di spettacolarità di cui sopra. Sicuramente una delle opere migliori degli ultimi tempi grazie anche ad un cast di ottimo livello (quasi tutti veri abitanti della favela) e alla splendida fotografia di C. Cialone.
Un film dalle due anime insomma, come la storia che racconta, come la gente che mostra, come la città di cui parla, che resta, appunto, comunque da vedere.

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Recensione a cura di fidelio.78 - aggiornata al 28/02/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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