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Quanta bellezza luccica scintillante sotto il sole dell'estate romana, fontane spumeggianti sgorgano inquiete da feroci bocche e da vasi traboccanti, riversandosi in vasche turchesi di una fontana del Gianicolo. Lì, ai piedi di questo angolo di arte e paradiso, si elevano in centinaia le cupole di una Roma che si estende nella sua struggente bellezza, talmente bella, da poterne morire.
Eppure, quando cala la sera, il volto oscuro della città eterna si manifesta non nel degrado conosciuto di una grande metropoli, almeno non solo, ma nel degrado umano di quella vita cosiddetta mondana che si dà appuntamento alla festa più "in" di turno.
Carampane rattrappite vestite da vecchie battone d'alto bordo, tenute su a forza di botox e silicone, ballano sfrenate tra aitanti giovanotti arrivisti, ragazze cocainomani pronte a tutto e artistucoli da avanspettacolo in cerca dell'occasione della vita... e poi c'è lui Jep Gambardella.
Gambardella, anima della festa, il grande Gatsby delle estati romane, presenzialista d'eccezione che vive di quell'umanità e si nutre della mediocrità latente dell'italiano medio arricchito.
La Roma di Gambardella è la Roma dei grandi eventi, dello spettacolo, della politica ma, anche e soprattutto, la Roma dell'arte e della cultura che si incontra nella terrazza vista Colosseo alternando un pettegolezzo a un problema sociale.
La morte improvvisa dell'amore della sua vita, rivela a Jep che il tempo che c'è dato non è infinito e che forse bisognerebbe impiegare quello che ci resta in qualcosa "che gli va di fare".
Ma cosa? Ma soprattutto con chi? Non a caso gli assopiti animi amorosi rinvigoriscono per Ramona, splendida figlia spogliarellista di un suo amico, con la quale intrattiene una storia d'amore a tratti platonico, a tratti carnale, che risveglia in lui l'interesse verso il "genere umano".
Ramona è una donna sola e malata che maschera la sua sofferenza dietro una vacua apparenza volgare, non sfigura nei contesti mondani romani ed è l'unica che potrebbe capire il disagio del protagonista, ma purtroppo non ne avrà il tempo.
Ed ecco che Jep ripiomba nuovamente nella sua affollata solitudine, nei suoi roboanti festini, nello stesso tempo prova a cercare la salvezza nella spiritualità.
La mediocrità latente non sembra aver risparmiato nessuno, nemmeno quella Chiesa che alla disquisizione su temi spirituali, sebbene solo ed esclusivamente accademica, ne era diventata l'ultimo rifugio. Adesso i cardinali amici vengono pescati da quel brodo primordiale di deprimente umanità, e preferiscono ai problemi esistenziali, la ricetta del coniglio alla ligure o la ricerca delle puzzole nel bosco.
La Chiesa è descritta con indulgenza e pena, non c'è una condanna, semmai comprensione, come potrebbe chi si è perfettamente integrato in quel mondo corrotto fare i conti con la propria coscienza o addirittura con quella degli altri? Meglio appellarsi al superfluo, all'apparente, relegandosi in comodi ruoli di rappresentanza.
E che cosa resta alla fine? Forse affidarsi a una presunta santa che insegna che la bellezza è intorno a noi e che "È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura... Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile". Jep la ricercherà, fermandosi e riprendendo a scrivere, mettendo in atto il suo unico spirito di osservazione, mentre altri, semplicemente, andandosene via da quella città che li ha così delusi.
Dopo il mezzo passo falso di "This must be the place", Sorrentino torna a fare quello che meglio gli riesce: il pittore.
Dopo aver tratteggiato i ritratti umani di Titta di Girolamo ("Le conseguenze dell'amore) di Geremia ("L'amico di famiglia") e di Giulio Andreotti ("Il Divo") questa volta la sua attenzione non si sofferma tanto su Jep Gambardella, ma più che altro su quella Roma moderna sempre in drammatico bilico tra sublime bellezze e squallida nefandezza.
E' un film che si contrappone in modo quasi antitetico al cinema di Fellini, "La Grande Bellezza" potrebbe essere l'epilogo tragico di "Roma" e de "La Dolce vita", dove agli occhi sornioni del maestro emiliano, vengono sostituiti quelli cinici e amari di Sorrentino.
La struttura narrativa è molto felliniana, oltre ai film citati, si potrebbe inserire anche "8 ½" incentrato sulle riflessioni di Gambardella che a modo suo, fa il punto della sua vita pubblica e privata.
Presentato al Festival del Cinema di Cannes e accolto in modo ingiustamente tiepido dalla critica, "La grande bellezza" è un film straordinariamente ricco di simbolismi e immagini.
Non c'è un approccio moralista, semmai un irresistibile sarcasmo nel presentarci questo panorama umano, così grottesco se non fosse così tremendamente reale; il suo disincanto non è quello felliniano, che viveva del contrasto tra sogno e realtà, ma è il disincanto di chi vive oggi l'Italia moderna e che rivede in Roma la città che 1600 anni fa contava i giorni alla fine del suo Impero.
L'impero politico, non quello culturale: da questo punto di vista Roma rimarrà sempre il centro del mondo. Eppure non bisogna ridurre questo film a una denuncia o ad una cinica rappresentazione di una realtà, Sorrentino infarcisce il tutto di tante riflessioni sulla vita e sulle persone, sul modo che ha l'uomo di relazionarsi non tanto con gli altri, quanto con se stesso.
Il disincanto di Gambardella è il disincanto che la vita a un certo punto ci lascia o ci lascerà, dal quale non è possibile scappare, indipendentemente se la si passa trascorrendo le notti a zonzo tra le feste acrobatiche di una borghesia nevrotica o nel calore domestico della propria famiglia. Arriva il momento in cui tutte le convinzioni giovanili sembrano venire meno, e alla fine Gambardella non ci sembra un personaggio tanto lontano e distante da noi, poichè ci rivediamo in quell'uomo spaesato e deluso dalla vita.
"La grande bellezza" non è solo un metaforico o ironico titolo che rappresenta il destino di una città, ma è anche un inno al cinema e alla sua tecnica, che Sorrentino sembra omaggiare.
Piani sequenza, carrellate e primi piani, la regia fa sfoggio di tutta la sua straordinaria competenza anche a costo di cadere nel manierismo fine a se stesso, eppure, dinanzi a tanta ostentazione di bravura non c'è fastidio ma ammirazione, perché per quanto forse un po' barocco, resta un film che si racconta tramite le immagini.
Dopo il fallimentare "This must be the place", Sorrentino sembra però tirare i remi in barca, sebbene "La Grande Bellezza" sia un film straordinario, riuscito e di rara potenza visiva, non dà una risposta precisa a chi si chiede se il regista napoletano sia un grande talento o un autentico fuoriclasse.
Questo film, grazie alla sceneggiatura di Umberto Cantarello e dello stesso Sorrentino, sembra essere del tutto congeniale al suo stile di regia, non c'è una vera trama e, sebbene voglia avere in sé gli elementi della coralità, alla fine si introduce un protagonista che è il soggetto forte sul quale ruotano le altre comparse.
Lo schema è lo stesso de "Le conseguenze dell'amore" de "Il Divo" (i suoi film più riusciti), ma non si affronta il vero problema del suo cinema, ovvero la narrazione.
Sorrentino riesce a dare il meglio di sé nei film statici, dove può utilizzare la sua maestosa tecnica nel dipingere i suoi ritratti umani, viceversa quella stessa tecnica diventa eccessiva, di maniera e barocca in contesti narrativi dinamici, dove il racconto mal si concilia con continui rallenty, carrellate e piani lunghi, spezzandone i ritmi e rendendo la storia dispersiva e confusa.
Anche ne "La grande bellezza" il suo protagonismo stilistico ha fatto da padrone, soppiantando addirittura l'istrionismo di Tony Servillo, eppure, in questo caso, l'accusa di accademismo è stata mossa in modo comprensibile sebbene non condivisibile in questa sede.
Quello a cui non si è riuscito a dare una risposta è se sia Sorrentino ad adeguare il suo stile alle storie che sceglie o viceversa.
Dovremo aspettare il suo prossimo film per riuscire a dare una risposta a questa domanda, per il momento dovremo accontentarci di questa grande prova d'artista.
Infine sarebbe un grave peccato non fare una menzione speciale al coraggio di alcuni attori e alla bravura di altri che si sono alternati durante la proiezione.
In primis un complimento sincero va alla straordinaria Sabrina Ferilli, in gran forma sia fisica che professionale che, ogni tanto, si ricorda che oltre ad essere la serrelona dei film natalizi, la simpaticona buonista da fiction o l'imbonitrice di divani televisiva, sa anche essere un'attrice (come sprecare un talento...).
Stavolta Tony Servillo non ha potuto fare da padrone come voleva, splendida la Pamela Villoresi in un ritratto di mamma snob, emblema di un paese che non sa affrontare i suoi problemi fino alla disgrazia. Ammirevole il coraggio di personaggi come Serena Grandi, liquidata in "artista in totale disfacimento psicofisico" emblema reale delle feste romane del passato, prestandosi, con un fare a tratti tra il masochistico e il coraggioso, in un ruolo tristemente autobiografico. Ma non mancano caratteristi di tutto rispetto come Giulia Merli,Buccirosso e Verdone che è sempre un piacere vedere sul grande schermo. Menzione speciale va a Iaia Forte un'attrice che ingiustamente il cinema italiano sembra aver dimenticato e qui, nonostante l'ostentazione di un imbolsito fisico di mezza età, riesce a mantenere l'eleganza che l'ha sempre caratterizzata.
Va detto che ogni attore, indipendentemente dalla sua parte, porta in scena il suo personaggio con grande impegno, segno di una grande cura della messa in scena.
E grazie ai personaggi del film, il panorama umano di Roma si popola di un'umanità meschina, che, nonostante la sua alterigia da arrivisti d'assalto, non perde mai la sua credibilità.
Non c'è moralismo, non c'è riflessione sociale, nemmeno condanna, parlare di film di denuncia sarebbe non aver capito il messaggio, che più che una riflessione sul mondo di oggi, sulla Roma e sull'Italia moderna, è una riflessione sulla vita, sul vuoto senso di essa, sulla difficile ricerca di un significato. Nello stesso tempo c'è anche la rassegnazione di chi non essendoci riuscito, preferisce lasciarsi trasportare dal flusso degli eventi, vivendo la propria esistenza per quel che credeva essere il massimo e godendo della soddisfazione dell'esserci riuscito, sebbene quel massimo era veramente poco.
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Recensione a cura di Paolo Ferretti De Luca aka ferro84 - aggiornata al 07/06/2013 15.46.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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