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C'è qualcosa che lega Wells, Welles, Haskin e Spielberg. Questo qualcosa è "La Guerra dei Mondi". Concepito come romanzo dal primo, fu trasposto in forma radiofonica (dagli imprevedibili sviluppi) da Welles, che grazie alla popolarità assurta dall'evento conquistò così un trionfale contratto con l'RKO. Successivamente, arrivò su grande schermo grazie ad Haskin nel '53, che adattò il romanzo in maniera pressoché fedele, dirigendo quello che sarebbe diventato un vero e proprio cult nel genere della science fiction.
Fin qui le belle notizie; a un certo punto (precisamente nel 2005) entra in scena Spielberg e decide di dire la sua. Nulla da eccepire in tal decisione, ci mancherebbe. Ma chissà cosa è balenato nella mente di un regista, diventato ormai la parodia di se stesso, ed in quella di un attore che ormai non riesce più a vivere tranquillo senza sentire il bisogno di appellarsi ai dettami di scientology per fare qualsiasi cosa?
Diciamolo francamente: Spielberg non è mai stato un autore nel senso lato del termine. Non possiede un linguaggio cinematografico preciso, non ha una grammatica filmica tale da renderlo immediatamente unico rispetto ad altri. A dir la verità il tratto distintivo, che immediatamente lo rende riconoscibile fra tanti, è la montagna di soldi di cui dispone per realizzare qualsiasi sua idea; montagna che gli è piovuta addosso troppo presto nella sua carriera, impedendogli di realizzare quanto in realtà sia in grado di sbrigarsela anche in scarsezza di mezzi. Si veda "Duel", dove il giovane Spielberg costruisce un climax d'assoluto interesse solo ed unicamente con la macchina da presa. Ciò dovrebbe essere il tratto distintivo del cinema, sennonché il nostro ha spostato questo tratto distintivo nel regno del digitale e del green screen. Ma anche qui, nulla di male; il genio è in fin dei conti colui che utilizza le tecnologie innovative con peculiarità tali da creare nuovi codici comunicativi.
Ahimè, non è questo il caso; nonostante la martellante campagna pubblicitaria responsabile di un hype smisurato e paranoico, "La Guerra dei Mondi" è un film in cui Spielberg gioca a fare Emmerich. Certo: un regista che ha partorito dalla sua mente (e dai propri soldi) "Duel", "Lo Squalo", "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo", "Indiana Jones" e altre cose, si mette ora a citare Emmerich, responsabile e colpevole di abomini della natura quali "Indipendence Day" e "L'Alba del Giorno Dopo".
Il kolossal di Spielberg è infatti, a ben vedere, una perfetta mistura dei due film hemmerichiani, il che non fa presagire nulla di buono. Dire che siamo dinnanzi alla fiera del digitale è riduttivo; come evitare allora la noia pura ed assoluta? Con una trama degna di nota, dialoghi d'eccezione e recitazione alle stelle? Dimenticatevi tutto questo, "La Guerra dei Mondi" è solo uno dei tanti film che servono a mostrare dove siamo arrivati a livello di effetti speciali. A scanso di equivoci, non si ritengono gli effetti speciali digitali un male assoluto, come il morso di un cobra che porta a morte certa; ma è l'esibizione forzata, il senso del manifestare palesemente, il manierismo implicito che infastidisce. Un effetto speciale è ben riuscito quando nemmeno lo spettatore si rende conto di esso; Chi si ricorda la città tibetana di "Kundun" (Scorsese)? Chi avrebbe mai scommesso che essa fosse in realtà finta? O come non citare la perfetta sintesi di effetti speciali, trama e atmosfera ne "Il Signore Degli Anelli"?
Certo, bisogna ammettere che le città distrutte dagli alieni o le minacciose "nuvole" da cui provengono sono realizzate in maniera impressionante, questo va detto. Ma va anche detto che il tutto è una fittizia scenografia al servizio di stereotipi ed archetipi che nel 2005 si potrebbero iniziare ad evitare. La storia, rispetto al romanzo di Wells è mutata, se pur in maniera non drastica. Protagonisti non sono più l'uomo e la ragazza, bensì un disastrato ed incerto nucleo familiare.
E questo è forse stato il principale errore e limite di Spielberg: il voler essere regista ed ideologo "americano" a tutti i costi, ponendo valori come fedeltà e famiglia al vertice, anche in caso di invasione aliena. Come può essere credibile un padre che, avendo fallito nella completezza della sua figura patriarcale, debba attendere un attacco extraterrestre per riscattarsi ed equilibrare la sua vita affettiva? Ma non esistono posti come Disneyland per questo?
Echi di tali grossolane banalità si possono appunto trovare in "L'Alba del Giorno Dopo" di Hemmerich, film (profondo quanto una pozzanghera asciutta) nel quale il tema della catastrofe ambientale è subordinato al ridicolo viaggio che un padre compie per salvare suo figlio (al calduccio e con la donna della sua vita a fianco, senza genitori rompipalle in mezzo).
Qualcuno ha anche intravisto ne "La Guerra dei Mondi" evidenti richiami alla belligerante situazione attuale americana e ombre di paura nei confronti della minaccia terroristica. Probabilmente a diffondere tali voci sono stati coloro che già videro nell'ultimo episodio di "Star Wars" o in "Land of the Dead" pesanti critiche anti-Bush.
Facciamo due calcoli: la situazione belligerante americana è trattata per circa 2 minuti, ossia quando il figlio un po' grandicello, con gli ormoni che iniziano a vincerla sul cervello, decide di staccarsi dal padre e dalla sorella per combattere l'oscura minaccia, aggregandosi ad un plotone casualmente di passaggio (chiaramente a fine film tornerà a reintegrarsi nella famiglia, forse per questioni profondamente etiche, o forse perché ha intuito che stare dalla parte di coloro che non riescono a lanciare un missile senza che gli alieni lo facciano saltare a mezz'aria non è molto salutare).
La questione terroristica è invece così brillantemente risolta: nel primo periodo d'incertezza, in cui ancora non si capisce bene cosa stia per accadere la figlia di Cruise se ne esce con "papà, sono i terroristi?", mentre tutto il mondo intorno a lei esplode, il cielo non è più lo stesso e misteriose figure meccaniche alti come palazzi vaporizzano la gente. Ora, van bene i kamikaze e tutto il resto, ma un minimo di senso della misura una bambina ce l'avrà pure...
La cosa che effettivamente infastidisce è la pretesa di serietà di sedicenti letture sociologiche di discorsi e concetti che sono addirittura inferiori a ciò che si può sentire al bar. Qui le grandi questioni etiche e politiche vengono risolte con una frase che al 90% è la cosa più stupida che si possa dire circa l'oggetto esaminato. Forse qualcuno un giorno vorrà dirvi di posare i libri di storia e smettere di leggere gli stupidi saggi di Chomsky, sostenendo che la situazione politica del governo Bush è magnificamente esemplificata in "Land of the Dead". Beh, in tal caso, sorridete distrattamente e cercate di sviare discorso.
Un'ulteriore nota di demerito assoluto arriva anche dall'onnipresente Tim Robbins, che ultimamente pare sempre più stereotipato nel ruolo di paranoico depressivo, esattamente come in "Mystic River". Ed è purtroppo a lui che tocca la sequenza più bassa del film: quella della famigerata cantina. Non contento di aver attinto a piene mani da Hemmerich, Spielberg cita il regista più sopravvalutato dell'universo, nel film più nefasto della storia del cinema: "Signs" di M.Night Shyamalan.
Contento lui, contenti tutti.
Tutto pare procedere verso l'inevitabile catastrofe (cinematograficamente parlando), quando alla fine accade qualcosa che conferma il disastro. A vicenda praticamente finita, si assiste ad un brusco stacco sul pianeta terra e una voce fuori campo liquida le ultime battute finali in una manciata di frasi. Questa soluzione è francamente incomprensibile: è come se Spielberg si fosse improvvisamente accorto di aver finito la pellicola, o come se a tutto il cast fosse venuta la dissenteria per direttissima, impedendo loro di recitare le ultimissime scene come umanità comanda.
Ma contento lui, contenti tutti.
In definitiva, si potrebbe ritenere, leggendo queste righe, che il film sia di genere catastrofico metacinematograficamente parlando, dato che è bastato un documentario sui pinguini per dimenticarsi della sua esistenza ("March of the Penguins", di produzione francese, ha stracciato al botteghino l'ultimo Kolossal spielberghiano), ma a ben vedere non è molto diverso da altri prodotti da blockbuster. Bisogna comunque capire che è arrivato il momento di riflettere circa la "fenomenologia del blockbuster", ormai assurto a genere a tutti gli effetti. Le iterazioni, gli stereotipi e gli archetipi, che fino a qualche anno fa potevano essere tollerati, hanno oggi qualche senso? E'possibile che un'ampia fetta di pubblico sia determinata a pagare per vedere sempre la stessa storia? Stiamo vivendo in un'epoca in cui la "gloriosa storia del cinema americano" rischia di trasformarsi ne "la ridicola storia del cinema americano".
Il primo campanello d'allarme è la ripetizione incontrollata e selvaggia dello stereotipo del self-made man che da solo è in grado di riequilibrare qualsiasi situazione inizialmente sfavorevole. E il secondo campanello d'allarme, ben più grave, è l'ansia da remake che ha colpito Hollywood. Ora, partendo dal presupposto che un film è di per se opera unica ed inimitabile, il fatto che si dirigano remake di prodotti (solitamente orientali) usciti solo qualche anno fa ci fa pensare.
Spielberg, ottimo artigiano del cinema sta iniziando a mostrare la corda, e pare sinceramente strano come un tema a lui caro (gli alieni, questa volta visti come minacciosi, belligeranti e terribili) abbia potuto generare un film del genere. E pare strano come lui non si sia accorto della scarsa qualità del proprio Kolossal. Non è dunque assurda l'idea che Spielberg si ritenga ormai quel che è: un regista di culto, e che quindi pensi di poter fare a meno di certe caratteristiche come qualità e originalità, in favore di facili guadagni.
Contento lui, contenti tutti.
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Recensione a cura di cash - aggiornata al 08/09/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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