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Quando nel 1979 il regista Bertrand Tavernier dirigeva "La morte in diretta" non esistevano ancora i reality show, né film come "The Truman Show" o "Contenders serie 7" erano stati pensati. Precisazione d'obbligo per capire quanto questo profetico capolavoro sia stato ispiratore e precursore dei tempi, senza che nessuno se ne accorgesse (o mentre tutti facevano finta di non accorgersene).
Katherine Mortenhoe è una famosa programmatrice di best seller sentimentali, nel senso che affida ad uno speciale software la stesura dei suoi romanzi, attraverso il riutilizzo ciclico di situazioni prestabilite e preconfezionate.
La notizia di essere condannata da un male incurabile la porta ad affrontare con una nuova ottica la situazione e pertanto accetta una crudele proposta da un network televisivo: lasciarsi filmare 24 ore su 24 nei suoi ultimi giorni di vita ed essere così la protagonista di un nuovo show dal titolo "Death watch".
Superare le tensioni derivanti dal progetto però si rivela impossibile e perciò Katherine si abbandona ad una fuga disperata e senza meta. Nel suo vagare depresso incontra Roddy, un ombroso straniero capace di offrirle quelle attenzioni ultime di cui sente il bisogno. Ma non sa che l'uomo in realtà è un dipendente della rete tv, che si è fatto innestare dietro la retina, dopo un delicato intervento chirurgico, una speciale microcamera che registra tutto ciò che il suo sguardo cattura.
Le crisi ansiogene e la vulnerabilità totale di Katherine saranno gli ingredienti base del successo di una diretta tv che cattura milioni di telespettatori, fino a quando il gioco assumerà risvolti talmente tragici da capovolgere la realtà.
Raramente il cinema è riuscito a parlare di morte e mass media con tanta frenetica urgenza drammatica; raramente ci si imbatte in film tanto disturbanti ma altrettanto onesti nel non indorare la pillola. L'opera di Tavernier ("Round Midnight - A mezzanotte circa", "Daddy Nostalgie"), senza mezze misure di natura pseudocommerciale, riesce a distanza di anni a rappresentare ancora, se non più di allora, un feroce e disperato apologo contro certe ciniche modalità di infiocchettare un intrattenimento strumentale e violento, per sostituire la realtà nella mente dello spettatore pigro e intellettivamente spento.
Su di un tracciato narrativo che si riallaccia a certa fantascienza del periodo (il film è tratto da un romanzo di David G. Compton "The Continuous Katherine Mortenhoe - The Unsleeping Eye", che in molti accostarono al pessimismo di Philip K. Dick, abbondantemente trasposto al cinema) "La morte in diretta" riesce a veicolare un messaggio profondamente sociale e polemico nei confronti di un sistema di comunicazione totalmente svuotato della sua valenza e che non teme i rischi di una nuova identificazione del pubblico in una realtà surrogata.
Se "la morte è la nuova pornografia", Tavernier agisce di conseguenza e illustra benissimo un audience affamato di dolore altrui, insensibile ai sentimenti al punto da cercarli in una trasmissione intitolata "Death watch". Ma è una realtà in cui l'etica non è più di casa e se la protagonista si dimostra impreparata all'accettazione della morte, l'occhio di chi la guarda (quello di Roddy, quello del pubblico) la sta attendendo trepidante. Poi la critica esplode in tutta la sua efficacia umana e dà vita ad un finale che è impossibile da dimenticare (e da rivelare).
In una Glasgow desolata e piovigginosa si muovono gli spettri di questa umanità allo sbando: ad un ottimo Harvey Keitel si contrappone una grandissima Romy Schneider in una prova sconvolgente, toccante, con momenti di autentica commozione.
Ma è straordinario anche l'apporto tecnico: sia la fotografia di Pierre William Glenn che le musiche di Antoine Duhamel riescono a rendere alla perfezione l'apprensione psicologica fortemente estremizzata dagli eventi che i personaggi sono costretti ad affrontare.
Passato inosservato al Festival di Berlino, snobbato dai premi César, trattato con sufficienza da critica e pubblico, tutt'oggi sconosciuto ai più, il film sta ancora aspettando la giustizia che merita.
Era il 1980, ma la lucidità profetica di Tavernier mette davvero in imbarazzo.
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Recensione a cura di atticus - aggiornata al 18/11/2010 11.33.00
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