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Uscito nel 1940 e diretto da Amleto Palermi, onesto artigiano della macchina da presa che dopo aver diretto molte pellicole termina la sua carriera proprio con "La peccatrice", il film interpretato da Paola Barbara, una diva del regime, ha un apparato scenico di tutto rispetto grazie anche ai comprimari, solidi attori di tradizione (tra essi spiccano Fosco Giacchetti, un Gino Cervi alle prime armi e un altrettanto giovane Vittorio De Sica).
L'azione inizia in media res: la protagonista assiste in una casa chiusa una giovane in fin di vita (impianto melodrammatico che anticipa i film strappalacrime in auge una decina di anni più tardi) e ripensa alle tristi vicende che l'hanno portata a essere prigioniera di questo luogo perduto nelle mani di un losco individuo. Il suo atteggiamento acquiescente di giovane ingenua che si lascia sedurre da uno studente d'apparenza dabbene, rimanendo incinta, è proprio di quella vena ammonitrice che fa capo a quella scuola didattica che vede lo spettatore da educare con storie edificanti ed esemplificativi di comportamenti morali.
La propaganda fascista si fa notare nella parte dedicata alla casa della giovane, luogo pieno di luce, dove le fanciulle sfortunate vi si recavano per mettere al mondo i loro piccoli, ricevendone assistenza sociale secondo un ottica senza dubbio avanzata per quei tempi. Anche il soggiorno in campagna dell'infelice ragazza è ripreso positivamente: la campagna è pulita, i contadini sono felici; questo per portare avanti quella politica rurale che sembrava irridere a un regime ormai in fase calante.
La città porta alla ragazza un buon lavoro e l'incontro con il sincero ma poco accorto De Sica. A questo punto la trama presenta un buco nero: cosa induce la donna a entrare nella maison dopo l'arresto del suo futuro marito? Forse l'intenzione è sempre quella di mostrare l'essere femminile facile a cadere in tentazione e poco risoluto perché, secondo i dettami fascisti, di natura involuta rispetto al maschio?
Di certo questo gap gioca negativamente nella sceneggiatura, che pure ha una perfetta struttura circolare, con la donna che, una volta fuggita dalla sua prigionia, ripercorre a procedimento opposto il cammino che l'ha fatta diventare peccatrice, per essere alla fine riaccolta tra le braccia materne (il mito della madre retaggio mitologico, ma anche cristiano è accettato per ovvie ragioni di stato dal fascismo).
L'interpretazione di Paola Barbara è di grande pathos tanto da giganteggiare rispetto a tutti i suoi compagni che forse risentono dello stile recitativo del regime e della necessità degli stereotipi (l'uomo mascalzone, il buono ma ingenuo, il contadino rozzo ma di buon cuore, il classico uomo forte che quando viene a conoscenza dello status di ragazza madre della protagonista si sente in dovere di mancarle di rispetto).
Comunque pur rimanendo nelle linee guida dettate dalla cinematografia di regime il film di Palermi sembra anticipare in stile e contenuti quel neorealismo che inizierà ad affacciarsi timidamente appena qualche anno più tardi con "Ossessione". Da riscoprire.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 06/08/2013 16.01.00
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