Recensione la regola del silenzio - the company you keep regia di Robert Redford USA 2012
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Recensione la regola del silenzio - the company you keep (2012)

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locandina del film LA REGOLA DEL SILENZIO - THE COMPANY YOU KEEP

Immagine tratta dal film LA REGOLA DEL SILENZIO - THE COMPANY YOU KEEP

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I Weather underground ed i loro componenti, i Weatherman, erano un gruppo molto attivo a cavallo degli anni '60 e '70. Il documentario di Sam Green e Bill Siegel può essere utile come corollario e come compendio insieme all'ultima pellicola di Robert Redford presentata alla 69esima edizione del Festival di Venezia.
I Weather underground furono un gruppo che si staccò dal movimento studentesco americano di impronta prevalentemente pacifista, operando una scelta nettamente radicale e per certi versi molto simili ad altre formazioni cresciute e sviluppatesi in Europa dopo il 1968. Gli Stati Uniti vivevano a quei tempi un momento carico di fermenti sociali dalle tematiche più disparate, ma con un elemento fondamentale che catalizzava la protesta collettiva della parte più giovane, ma non solo, del paese: la "sporca guerra" per eccellenza. Il Vietnam.
Una guerra che gli americani vivevano in diretta, bombardati da quelle immagini di morte e distruzione di giovani soldati uccisi a centinaia in un paese lontano e peggio ancora di civili vietnamiti massacrati indiscriminatamente in un numero ben più maggiore delle vittime militari. Una guerra impopolare che animava e scuoteva numerose coscienze ma senza una soluzione per la sua fine, malgrado la grande ondata di protesta per tutto il paese.
I Weather underground con il loro motto "bring the war at home" si proponeva di oltrepassare l'esperienza pacifista del movimento studentesco per attuare un progetto nettamente più rivoluzionario: l'abbandono della metodologia pacifista per abbracciare la clandestinità e la lotta armata contro un governo che reprimeva sistematicamente ogni forma di protesta. I Weatherman lasciarono sul loro cammino una scia di distruzione con una serie di attentati di forte matrice simbolica verso edifici governativi. Scia di distruzioni ma non di morti in quanto gli obiettivi erano colpiti quando si era assolutamente sicuri che nessuno fosse presente in un certo posto in quel dato momento. La fine della guerra in Vietnam decretò anche la fine dell'esperienza di questo movimento, i cui membri uscirono gradualmente dalla clandestinità senza essere messi in galera, giacchè fu provato che l'FBI acquisì prove in maniera illegale contro i membri.

Jim Grant è un avvocato e un padre single che cresce la figlia nei sobborghi di Albany. Questa tranquilla esistenza viene sconvolta quando un giovane reporter, Ben Shepard, svela la sua vera identità: egli è stato un pacifista radicale del gruppo denominato Weather underground, che negli anni '70 manifestava contro la guerra ed è tuttora ricercato per omicidio in seguito a un attentato finito male.
Dopo aver vissuto per oltre 30 anni in clandestinità, custodendo il suo segreto con difficoltà, Grant ora deve darsi alla fuga, perché è al centro di una gigantesca caccia all'uomo e l'FBI è sulle sue tracce. Ma deve anche riuscire a trovare l'unica persona in grado di scagionarlo.

Bisogna dire che Redford con questo suo ultimo film si è preso notevoli (forse anche troppe) licenze dalla storia del movimento. Vero è che alcuni dei suoi vecchi componenti hanno scontato e stanno scontando tutt'ora condanne in carcere, ma per crimini dopo la loro esperienza come Weatherman. A Redford comunque va dato atto che non gli interessa tanto una verità storica sul gruppo, ma coerentemente con il suo modo di fare cinema, di forte impegno sociale e politico, il suo sguardo penetra nelle ferite della storia americana ancora aperte.
In molte sue pellicole il suo cinema è costellato di ferite che una volta aperte non sono state più rimarginate. E' la denuncia verso un paese che non ha mai fatto in maniera convincente i conti con il proprio passato recente ("Leoni per Agnelli" sulla guerra in Afghanistan), alle radici stesse dei principi che regolano la stessa costituzione americana ("The Conspirator", la guerra di secessione), anche quando non parla di una guerra ma si è bruscamente risvegliati da un sogno diventato incubo ("Quiz show"). Nella sua essenza il cinema di Redford è essenzialmente questo: guardarsi all'indietro per scoprire i riflessi di una Storia sepolta ma tutt'altro che conclusa e sulle sue ripercussioni nell'attualità della società americana.

Anche "La regola del silenzio" tratto dal romanzo "The company you keep" di Neil Gordon non fa eccezione sotto questo punto di vista, perché gli stessi protagonisti conducono vite alternative determinate dalla loro scelta di entrare in clandestinità. Le loro identità sono state sepolte dalla Storia ufficiale, dalla quale emergono solo delle vecchissime fotografie e vecchie immagini di repertorio. Hanno nomi e identità false su cui hanno fondato un'esistenza totalmente diversa da quella che avevano immaginato e che loro stessi in fondo avevano sepolto. Madri di famiglia (Sarandon), avvocati (lo stesso Redford) e professori universitari (Jenkins) non hanno certo dimenticato ma c'è sempre una dose di disagio quando tra loro si affrontano certi argomenti. E' una storia che li ha inghiottiti, che li ha sconfitti e le sconfitte sono sempre dolorose da ricordare.
Ma la Storia, prima o poi, presenta sempre il suo conto. Questo gruppo di uomini rappresentano un determinato periodo storico che pur essendo lontano nel tempo non si può certo dire concluso. Parlare di questi uomini e donne dei Weather underground significa riaprire le ferite che costellano il cinema di Redford. Riaprire capitoli dolorosi come il Vietnam, le battaglie per la fine della sporca guerra, la repressione attuata dal governo per stroncare con tutti i mezzi, la protesta studentesca, le battaglie per i diritti civili. Tornare indietro in quel determinato periodo storico è scoprire e riscoprire dolori individuali e dolori collettivi di una nazione. Per i protagonisti, o almeno per alcuni di loro, è l'occasione di riappropriarsi della propria identità. La riconquista della propria identità significa anche andare all'origine delle ragioni della propria battaglia. Ragioni giuste ma condotte con metodologie sbagliate. E quando si parla di metodologia sbagliata, si parla di violenza.

"La regola del silenzio" presenta i canoni classici del cinema tipico degli anni settanta del quale lo stesso Redford è stato alfiere, come attore, in pellicole memorabili come "I tre giorni del Condor" di Sidney Pollack e "Tutti gli uomini del Presidente" di Alan J. Pakula e si articola nel meccanismo altrettanto classico della caccia all'uomo di un innocente che deve cercare di discolparsi da accuse ingiuste. Il plot quindi non presenta particolari novità e la trama cerca di svilupparsi in maniera lineare, senza grandi colpi di scena. Bisogna tuttavia evidenziare che il ritmo impresso da Redford non è proprio sostenuto. Le pause infatti non mancano e, da questo punto di vista, è uno dei difetti principali di questa pellicola che non sempre riesce ad amalgamare in maniera equilibrata il lato della denuncia vera e propria con il lato puramente di intrattenimento. Infatti si ha la sensazione che, evidenziando uno di questi aspetti, si sacrifichi immancabilmente l'altro, equilibrio che non mancava assolutamente nelle pellicole sopra accennate.
Redford comunque riesce a risaltare un certo scollamento generazionale che si percepisce dalla scelta degli attori del cast. Susan Sarandon, Richard Jenkins, Nick Nolte, Julie Christie e lo stesso Redford sono come dei residuati di una storia passata e di un cinema passato, impegnati in ruoli brevi, ma in alcuni casi estremamente incisivi, come quello della Sarandon. Il colloquio in carcere con il giornalista Ben Shepard, interpretato da Shia LeBeouf, una delle sequenze migliori del film, mostra l'enorme distanza tra due generazioni di giovani: la prima improntata sull'impegno sociale, sulla passione per i propri ideali, sulla coerenza e la dignità di rivendicarli e di prendersi la responsabilità dei propri errori ("Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione"). La generazione attuale è più individualista, ambizione ed arrivismo possono essere concetti e significati anche troppo vicini fino a confonderli. Guardano la generazione passata come un qualcosa tra il mito e la preistoria con uno sguardo superficiale senza capire o interessarsi a fondo i perché delle lotte, i perché di tanta violenza. E quest'ultimo aspetto li avvicina pericolosamente al soggetto che in tutti questi anni non è mai cambiato, cioè il governo degli Stati Uniti.
Repressivo allora, repressivo adesso, i cui componenti, anche nella legittimità del loro operato (dopotutto sono alla caccia di uomini ricercati per una rapina in banca con omicidio), sono meri esecutori di ordini che cercano persone senza capire chi o cosa rappresentavano, talmente ottusi nel compimento del loro dovere da essere giocati facilmente da un vecchio militante ultrasessantenne (nel film) e un giovane giornalista di provincia che dimostra di essere sempre un passo avanti rispetto all'apparato governativo. Sono dei robot senza personalità mossi da certezze assolute su cui non aleggia la minima ombra di dubbio e non s'interrogano sul perché dei giovani attivisti sono arrivati ad usare metodologie violente. Se negli ex componenti dei Weather underground c'è l'ammissione di colpe e responsabilità verso il proprio passato, nel governo non c'è nulla di tutto ciò: l'establishment non vuole fare i conti con la propria storia e con la responsabilità di scelte sbagliate.
Il carattere monocorde dell'agente FBI Cornelius certamente è una scelta voluta dal regista e coerente con il suo punto di vista, ma probabilmente ha calcato troppo la mano tanto che la trama risulta essere un po' inverosimile in più di una circostanza. Malgrado una disparità di mezzi a disposizione, totalmente a vantaggio, l'FBI è sistematicamente un passo indietro ed è buona soltanto a catturare persone che vanno a costituirsi.

Da non sottovalutare il ruolo della famiglia nel rapporto delle scelte che operano i personaggi. Il silenzio della clandestinità, di nascondere la propria vera identità, è strettamente correlato alla famiglia nel determinare non tanto nella sua entrata, quanto nella scelta di rimanere e di uscire allo scoperto. Il personaggio della Sarandon sceglie di andare a costituirsi principalmente perché ritiene che i propri figli siano abbastanza grandi da sopportarne il peso. Nick Sloan/Jim Grant fugge per dimostrare la propria innocenza e poter ricongiungersi con la propria figlia. Mimi Laurie/Julie Christie è l'unica che fino all'ultimo resiste dall'uscire allo scoperto. E' il personaggio più oltranzista del gruppo, duro e puro, ma anche il più egoista che si riscatta con un colpo di ala finale costituendosi alla polizia e decretando non solo l'innocenza di Nick ma cercando di costruire un ponte per contattare la figlia perduta. In fondo è la famiglia che costituisce la molla per le azioni degli ex-weathermen.

Detto questo non si può dire che La regola del silenzio sia un film pienamente riuscito pur risultando dignitoso nel suo complesso. La trama come detto cerca di essere il più possibile lineare, ma non mancano alcune falle nella sceneggiatura e piccole grandi incongruenze legati ad alcuni ruoli (per esempio quello di Brit Marling/Rebecca Osborne). Lo stesso Shia LeBoeuf, pur essendo funzionale al ruolo, non riesce ad essere pienamente incisivo in un personaggio che affronta la storia come percorso di formazione finalizzato a colmare quella distanza generazionale e rompendo quella corazza di cinismo ed arrivismo nel rapportarsi ad eventi passati. A rompere quella regola del silenzio su una parte della storia dolorosa degli Stati Uniti.
Un monito ed un appello del suo stesso autore, un Robert Redford che ha compiuto recentemente settantasei anni e che, malgrado uno stato di forma fisica ancora invidiabile considerando l'età, vuole che un certo cinema americano di denuncia non si perda di fronte a tanti blockbuster che popolano le sale. Forse una volontà di passare il testimone per un uomo stanco come il Nick Sloane nelle scene finali del film, quando inseguito da una miriade di agenti FBI si ferma completamente spossato, lasciandosi catturare. La carta d'identità è un fardello pesante ma la volontà di mantenere quel cinema è ancora presente. Qualcuno deve raccogliere questo appello.

"Gli ultimi trent'anni della mia vita in una frase?"

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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 08/01/2013 15.32.00

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